Nel quadro del fiorente commercio librario fra Basilea e la Francia, l’ “incidente” Vaugris non rappresentò certo un caso isolato: più di una volta, il Concilio della città svizzera si era sforzato di sostenere e proteggere i librai, dando prova, insieme all’intelligentsia locale, di un laisser-faire degno delle dottrine più estreme del liberalismo moderno, nella comune volontà, chiaramente non sempre disinteressata, di impedire che l’ideologia prendesse piede sulla strada del profitto e dell’indipendenza ideologica.
Si hanno dunque buone ragioni per pensare che le trattative per il recupero dei libri andassero a buon fine, anche se non siamo in misura di sapere se, una volta rese o ripagate le edizioni ai vari stampatori, rimanessero beni da spartire fra la famiglia residente a Basilea (moglie, figlia e suocero) e quella d’origine, nella fattispecie, il fratello Vincent. Si può supporre che quest’ultimo abbia rilevato magazzini e relativi contenuti, come ad esempio, forse, quello che anni più tardi affermerà di possedere a Francoforte, di cui Jean doveva servirsi al momento delle fiere87.
Molto probabilmente non era la prima volta che Vincenzo visitava Basilea: vista l’organizzazione familiare nel senso più ampio del termine - zii e cugini compresi - e la sua successiva carriera, all’epoca anch’egli doveva collaborare attivamente ai traffici della rete degli Ecus, magari collaborando con Michel Parmentier a Lione, o avendo già cominciato, come i suoi fratelli, a percorrere l’Europa in lungo e in largo, ambasciatore delle più attive tipografie svizzere, tedesche e francesi.
Non ci é noto nemmeno per quanto tempo Vincenzo dovette risiedervi : ipotizzando che le questioni relative alla scottante eredità del fratello si fossero risolte nei mesi successivi, dunque durante l’arco del 1528, ne perdiamo infatti le tracce per i cinque anni successivi, fino al 12 settembre del 1532, data in cui, come si vedrà, é registrato per la prima volta in un documento veneziano.
Sostituì per qualche tempo Jean nei suoi traffici tra Basilea e Parigi ? Ritornò a Lione ? O decise invece di trasferirsi subito a Venezia, forse sfruttando i contatti già stabiliti da suo fratello Benoît, anch’egli nel frattempo deceduto ?
La scelta di Venezia di chi, come Vincent, doveva aver intenzione di fare carriera nel campo del commercio editoriale, o - anzi, e anche, come poi avvenne, sebbene non sappiamo se facesse parte del suo progetto iniziale - della produzione tipografica, non necessita certo la formulazione di particolari ipotesi.
Avvenne, tra l’altro, in un periodo in cui gli arrivi di francesi, e di lionesi in particolare, dovevano essere numerosi: proprio in quegl’anni doveva circolare tra calli, corti e torchi anche Guillaume Rouillé, il futuro grande editore lionese che ritroveremo come uno dei personaggi centrali della produzione illustrata d’oltralpe degl’anni centrali del secolo, a Venezia a perfezionarsi nel mestiere presso i Giolito - Giovanni prima e Gabriele poi - almeno fino ai primi anni ’40, prima di cominciare la sua prospera attività all’insegna dell’ “Ecu de Venise”; dal 1537 sarà attiva la tipografia specializzata nella stampa di opere musicali secondo il metodo inventato da Heultin di Antoine Gardane, un provenzale che fu forse apprendista di Jacques Moderne a Lione, e che divenne il capostipite di una delle più affermate – e proprio nel ramo musicale - dinastie editoriali veneziane, gli ormai “italianizzati” Gardano; dal 1544, infine, stampa a Venezia Giovanni Griffio, forse nipote di quel Sébastien Gryphe originario di Tubinga, passato anche lui per Venezia, e attivo propagatore di cultura italiana a Lione; e molti altri, dovevano averci trascorso qualche anno o forse solo qualche mese, o frequentarla regolarmente, come d’altronde faceva Benoît Vaugris 88.
La città si era infatti affermata, fin dall’epoca “sperimentale” della produzione incunabolistica, nel doppio ruolo di centro industriale ed emporio commerciale di prima grandezza per la nuova merce, nel cui traffico sfruttò tutti i tradizionali vantaggi : un’avveduta legislazione, l’abitudine all’uso della via marittima, rischiosa ma franca di dazi e dogane, e la presenza di consistenti colonie di stranieri che aprivano l’accesso a nuovi e lontani importanti mercati89.
A cavallo dei primi due secoli di vita del “miracoloso procedimento”, la città lagunare poté diventare l’Atene della nuova arte per via di quei fenomeni socio-culturali che avevano caratterizzato la sua storia durante il secolo precedente e avevano preparato la fioritura della sua civiltà umanistico rinascimentale90.
Erede ideale delle posizioni intellettuali e morali del Petrarca, Venezia aveva infatti sviluppato, tra la fine del Trecento e il secolo successivo, un umanesimo caratterizzato da forti idee portanti, che si erano tradotte in impegno e azioni continue. Innanzitutto il primato della filologia come strumento necessario e preliminare ad ogni disciplina, sia letteraria che scientifica, a garanzia dell’autenticità delle fonti e della loro corretta interpretazione, base di ogni vero sapere; ne conseguiva l’esigenza assoluta di riscoprire e studiare direttamente i grandi autori antichi – primi fra tutti Aristotele e Platone, contro le deformazioni dei commentatori. Accanto alla coscienza dell’importanza della filosofia e delle scienze, poi, fortissima era quella del valore dell’eloquenza e della poesia come supreme forme di umanità e di bellezza, sulla base della profonda convinzione nella sostanziale analogia dell’espressione in quanto tale e dell’espressione artistica, quasi due manifestazioni diverse di un’unica, suprema verità: ut pictura, poesis. Coronava il tutto l’interpretazione del messaggio cristiano quale armonico completamento e necessario superamento di quello del mondo antico.
C’é da aggiungere che tale impegno umanistico era stato promosso e sostenuto soprattutto da quella classe dirigente che si era affermata alla guida della città fondalmentalmente grazie ai successi riportati nell’attività mercantile esercitata fra Oriente e Occidente91. Al confronto con gli umanisti degl’altri centri culturali – prevalentemente segretari e cancellieri, maestri e notai, cortigiani e cappellani - questi veneziani, proprio per il loro impegno attivo nella vita socio-economica cittadina, dimostravano una straordinaria molteplicità di interessi, accanto ad un eccezionale pluralismo di occupazioni. Nel quadro dei sempre più crescenti interessi antiquari e bibliofili che andarono affermandosi a partire dal primo Quattrocento, essi apparivano al contempo come appassionati umanisti e avveduti mercanti, organizzatori, tanto di iniziative commerciali quanto culturali: quelli stessi libri che usavano e leggevano erano anche fatti stampare, comprati, venduti e introdotti nel giro delle più quotidiane attività pratiche. “Mercanzia d’utile e d’onore”, il libro é dunque concepito, senza dubbio, come foriero e supporto di messaggi culturali, ma contemporaneamente quale fonte di ricchezza e materia di commercio.
Con un’anima e un corpo o – se si preferisce – viceversa, il libro rivela insomma un contenuto spirituale che trasmette al di là del tempo e dello spazio, pur conservando, e sempre in un piano che non é mai secondario, una sua consistenza materiale, fatta di pergamena, carta, colla, inchiostro, che di quel bene spirituale fa un bene economico, commerciale, concretamente valutabile. E’ da questa risoluta inserzione del libro, fin dall’inizio della sua produzione, nell’attività pratica, che derivano, alla fine del XV e al principio del XVI secolo, la prontezza e l’apertura eccezionali con le quali la classe dirigente veneziana impostò la grandiosa politica editoriale della città. Proprio mentre, per molteplici ragioni, la “via delle spezie” perdeva gradualmente la sua importanza, scalzata dall’apertura delle nuove rotte commerciali permessa dalle recenti scoperte geografiche, Venezia apriva alla sua attività mercantile la grande e nuova “via del libro”, facendola correre per tutta Europa, e fra Occidente e Oriente.
Non si accontenta però, come per le spezie e le altre merci orientali, del ruolo di tramite, sia pur attivo: per il libro Venezia si fa instancabile e intelligente produttrice, al limite del - anzi, per molto tempo, in pieno – regime di monopolio, grazie alla vivace e pluralistica cultura che si era sviluppata su quelle convinzioni filologiche, filosofico-scientifiche, letterarie, artistiche e moral-religiose che abbiamo visto già visto definirsi nel secolo precedente l’affermazione della produzione editoriale su scala “industriale”.
Pur non essendo la prima città italiana, in ordine di tempo, a ospitare officine tipografiche (la precedono Subiaco, Roma e forse anche altri luoghi), a Venezia la stampa conobbe infatti uno sviluppo straordinario, e questo grazie a per una serie di positive circostanze: l’abbondanza di capitali, la facilità di approvvigionamento per le materie prime – la carta, innanzitutto, che affluiva in copia grazie alla presenza nel Dominio di numerose cartiere, fra le quali assunsero preminente importanza quelle della valle del Toscolano, nel Bresciano - la possibilità, come si é detto, di usare per la vendita i consolidati, amplissimi canali commerciali che la collegavano alle principali piazze italiane ed europee, ed infine la vivacità della sua vita culturale, che attirava, come nel caso di ogni metropoli, artisti, intellettuali, studiosi, al pari di capitalisti, imprenditori, artigiani, tecnici. L’industria veneziana si trovava poi in posizione ottimale per rifornire le vicine università di Padova – ad appena venti miglia di distanza, retta da Venezia e molto frequentata da cittadini e sudditi veneziani – Bologna, Pavia e Ferrara, tutte in fase di espansione92.
L’editoria veneziana si affermò prepotentemente in quasi tutti i campi dello scibile umano: dai testi classici – greci e latini – presentati con rigore e purezza formale nelle edizioni del Manuzio, ai grandi corpora platonico e aristotelico; dalle eleganti stampe d’interesse scientifico, al sicuro gusto letterario nello scegliere, da un lato, i testi esemplari dal Petrarca al Poliziano, dall’altro gli autori, ora più rappresentativi, ora più alla moda, della scena contemporanea; dalla sensibilità per gl’interessi morali, religiosi, ascetici che la devotio moderna e l’affermarsi delle due Riforme resero sempre più diffusi e popolari, alla capacità di offrire, proprio per quell’attenzione da lungo tempo dimostrata alla materialità, e quindi all’utilità pratica del libro, testi che si presentassero anche quali supporti e veicoli di nozioni utili al vivere quotidiano; all’impegno, infine, nel visualizzare in immagini e figure i messaggi scritti, caratteristica su cui si fonda buona parte dell’assunto di questa stessa ricerca.
Nel favorire questa prodigiosa fioritura, alle sollecitazioni culturali e commerciali, si affiancarono per lungo tempo le condizioni politiche di stabilità e libertà di governo che la classe dirigente seppe assicurare alla città, grazie ad un’abile e calcolatissima politica di equilibrio – ed equilibrismo – internazionali93.
La traumatica esperienza subita ad Agnadello ad opera degli alleati di Cambrai quel fatidico 14 maggio 1509 - una delle giornate più nere della plurisecolare storia della Repubblica - pose fine ad ogni ulteriore velleità espansiva della Serenissima nella Penisola. Lentamente e dolorosamente si faceva strada la consapevolezza che le sorti d’Italia si decidevano altrove e che un’autonoma vita politica italiana era ormai impossibile, subordinata, come risultava, alle esigenze di un arduo equilibrio europeo.
La Repubblica, cui é negato anche solo il tentativo di manovrar a proprio piacimento le mosse straniere in Italia, seppe empiricamente adattarsi alla scomparsa di allettanti prospettive e ridimensionò drasticamente le proprie ambizioni, optando con decisione per una linea di conservazione e contenimento. L’adozione di una politica difensiva si esplica dapprima nello sforzo di ritardare la prevalenza di un’unica potenza straniera nella Penisola, che portò la Repubblica a partecipare, durante il terzo decennio del Cinquecento, alle lotte tra Carlo V e Francesco I, e ad opporsi all’assorbimento spagnolo di Milano; poi, dopo la pace di Cambrai del 1529, divenuta definitiva l’egemonia asburgica sull’Italia, si chiarì nell’accorta ripulsa a troppo onerosi condizionamenti, nella costante diffidenza di alleanze troppo vincolanti, ferma restando la volontà di mantenere integro lo stato, pur accerchiato dai territori asburgici, e di salvaguardare il dominio del “Golfo” - così veniva designato l’Adraitico, il vero mare di Venezia, che essa pattugliava con le sue navi e di cui controllava l’accesso grazie all’avamposto di Corfù – “acquistato con il sangue” degli antenati, “posseduto e custodito con fatiche e spese da tempo immemorabile”, come ripetono instancabilmente i documenti veneziani.
Ne consegue, con il mantenimento di un non trascurabile esercito e di una ragguardevole flotta, cui si deve aggiungere la creazione di un sistema protettivo di fortificazioni, l’estraneità di Venezia ai grandi conflitti, l’espresso proposito “di non inclinar più ad una parte che all’altra”, paga di auspicare, spesso molto genericamente, pace e concordia nella cristianità turbata. Necessaria, allora una destissima attenzione a quanto accadeva all’estero, assicurata dall’informazione minuziosa e penetrante della sua mirabile diplomazia, che proprio nel Cinquecento, quando meno la Repubblica poteva e voleva contare sulla forza, si dà una compiuta organizzazione: un’esatta conoscenza delle situazioni permetteva infatti di evitare gl’imprevisti di dannosi coinvolgimenti, e costituiva il punto di partenza per sottrarsi ai pericoli del momento. Occorreva, insomma star “attenti et advertiti a veder quello che per la giornata porterà il tempo e la occasione delle cose”. Anche se meno diretta era la partecipazione della Serenissima alle tensioni del continente, i suoi ambasciatori ne riferivano con tanta precisione e finezza di analisi e con un tale atteggiamento neutrale che – almeno a livello d’accesso all’informazione - vivere a Venezia assicurava una reale par condicio rispetto a molte città europee situate ben più al centro dello scacchiere internazionale.
Contemporaneamente al contrarsi del suo ruolo politico, modellatosi ora sulle posizioni di una meditata ma vigilante e sospettosa neutralità e di una prudente saggezza, durante il corso del Cinquecento si verifica, in forma meno rettilinea e univoca, ma altrettanto evidente, il progressivo restringimento della della sua importanza economica e commerciale di cui si parlava. Venezia non é più la prima piazza mercantile del mondo, ove affluiscono le merci più richieste e più disparate per esservi contrattate e riesportate, l’emporio in grado di collegare economie e produzioni diverse valorizzando la loro complementarietà: a poco a poco vien meno la proficua funzione intermediaria tra Oriente e Occidente, che aveva fatto del commercio il fondamento della finanza, della ricchezza e della potenza della città. La mancata partecipazione all’apertura di nuove vie di traffico, l’affermazione della navigazione e delle città atlantiche, la presenza di mercanti “ponentini” – francesi, genovesi, fiorentini, catalani – e più tardi inglesi e fiamminghi, nelle tradizionali piazze di approvigionamento e di smercio del commercio veneto, non devono tuttavia indurre a cadere nell’errore di frettolose interpretazioni in termini di perdita secca: anche se i suoi mercantili navigano pressoché esclusivamente nel Mediterraneo orientale e i suoi commerci vi sono minacciati dall’inarrestato avanzare dei turchi e da una pirateria instancabile ed insidiosa, e mentre i guadagni si riducono per la necessità di far fronte ai crescenti costi assicurativi, non si può parlare di diminuito peso specifico, che, invece, aumenta, assicurando alla Repubblica il primato mercantile nell’Oriente mediterraneo fino almeno all’inizio del Seicento.
Insomma, al contrario delle tendenze di declino immancabilmente innescatesi, é proprio nel Cinquecento che Venezia raggiunse il suo massimo splendore, conobbe il fiorente rigoglio di una vita opulenta, magari eccessiva e precaria rispetto alla più sobria prosperità dei tempi dei patres rei publicae (fatta però anche di bassi salari e compressione del tenore di vita della maggior parte della popolazione) ma che riluceva, questo sì, dappertutto in Europa, grazie al suo lusso, al suo gusto raffinato, alle sue opere d’arte, al piacere di vivere fatto anche di pungente, sottile malinconia, l’elemento più facilmente intuibile, ma anche più ambiguo e sfuggente del fascino indubitabilmente esercitato dalla città. “Ville lumière” per eccellenza dell’Europa moderna, lascia impresso nella retina dei suoi visitatori un ricordo indimenticabile o colpisce per sempre l’immaginazione di chi legge o ascolta o guarda resoconti, descrizioni, “istantanee” pittoriche o incise, grazie all’inusitata e ineguagliata profusione di ricchezza e bellezza delle sue feste, le più dispendiose e splendide, delle scenografie delle sue cerimonie religiose e civili, le più sontuose e sfarzose, della sua architettura, della sua arte, della sua musica, persino delle sue donne, tra cui si annoveravano le più belle, richieste – ed esose – cortigiane d’Europa. Se la Serenissima, insomma, non é più fattore primario della storia europea, ne resta un punto di riferimento, sia pure eccentrico, costante, grazie ad una “riputazione” – quel “mito” di Venezia “Theatro del Mondo, et l’occhio d’Italia”94, come Sansovino la presenta al visitatore straniero, città
‘“Singolare oltre a ciò, perche essendo commoda a tutte le nationi cosi vicine come lontane, ci concorre dalle piu longique parti della terra ogni gente (onde si veggono persone differenti et discordi, di volti, di habiti, et di lingue, ma però tutti concordi in lodare cosi ammiranda città) per trafficare et mercantare”95 ’- che pare invece crescere man mano che scema la sua effettiva potenza96.
Uno dei motivi che concorse all’affermarsi di questo mito era la suggestione della perfetta architettura costituzionale della Repubblica, armoniosa al pari dei suoi palazzi e delle sue chiese, unica al pari delle sue vie acquee, vista come esemplare e vagheggiata in forma ora evasiva ora polemica, proprio in un momento storico in cui emergeva sempre più inequivocabilmente l’inquietante realtà dello stato assoluto. I veneziani erano soprattutto orgogliosi del sapiente dosaggio d’organi legislativi e magistrature collegiali che caratterizzavano la loro costituzione e della possibilità, che essa offriva, di un impegno politico sottratto al rischio d’ambizioni ed interessi individuali, nella ferma convinzione che l’equità fosse il principio ispiratore e unificatore di una legislazione altrimenti troppo empirica e sovrabbondante, e che la giustizia improntasse le decisioni collegialmente adottate nel rispetto di una procedura che imponeva ponderatezza e riflessione ad una classe dirigente affinata da un secolare esercizio di governo: altri organismi saranno certamente più estesi e forti, ma nessuno é paragonabile a Venezia - affermava Gasparo Contarini – “institutione ac legibus ad bene beateque vivendum idoneis”97. E alla costituzione della Serenissima si guardava con ammirazione anche altrove, in Italia come in Europa.
La neutralità della politica estera si sublimò ben presto nell’aura di una nobilitante missione di pace, il cui conseguimento e mantenimento costituivano il più degno compito di una classe dirigente, la sanzione della “perfezione della vita politica”, privilegiata così su tutte le altre attività umane. La “felicità” – fa dire l’illustre politologo Paolo Paruta a Matteo Dandolo, ambasciatore veneziano al Concilio di Trento – “non nel dominare molti popoli é riposta, ma nel reggere con giustizia et conservare in pace et tranquillità i sudditi”98. A Palazzo Ducale, Paolo Veronese dipingerà allegoricamente Venezia come una bella donna in trono, con ai piedi il leone marciano e altre due figure femminili: la giustizia e la pace, ideale supremo che plasma nel profondo l’ambiente veneto. Di necessità virtù, la Repubblica non ha bisogno, come le grandi monarchie, di glorie militari: la pace permette di abbellire la città, di far vivere nell’abbondanza i suoi sudditi, di stabilizzare i rapporti sociali. Tutti gli stati italiani, osserva il Guicciardini nel 1526, dovrebbero tributarle “infinita obligatione”: ora che l’Italia é in balia di ben più potenti forze straniere, e non hanno più ragion d’essere le vecchie accuse e gli antichi rancori, Venezia é l’unica garante di ciò che resta della “libertà” della Penisola, e merita, baluardo della cristianità contro il “signor Thurco”, tutta la gratidune papale99.
Il “mito di Venezia”, naturalmente, era valido anche in campo editoriale: la sua folgorante industria tipografica, anzi, non si era limitata a celebrarlo e diffonderlo, ne era stata certamente uno degli elementi fondatori100.
La reputazione di Venezia, la sua stessa “libertà” repubblicana, hanno infatti in questo primato tutto tipografico un elemento non certo accessorio, che viene celebrato e diffuso da quegl’intellettuali che, in un periodo di inasprita intolleranza, vi accorrono numerosi, come ad un “ricetto di libertà, porto tranquillo di quiete”, per definirla con le parole di Bernardino Tomitano101. L’Aretino vi apprende a “esser libero”: nella Cortigiana, la libera Venezia – rispetto al doppio regime di servitù costituito dalla corte e dalla chiesa - assume l’immagine di “città santa”, “paradiso terrestre”, “arca di Noè”, in cui confluiscono da tante origini diverse letterati ed artisti e si concentrano editori piccoli e grandi, mettendo a disposizione di autori e pubblico il loro “pien di virtù fiorito ingegno”, come quello del “suo” stampatore, il Marcolini102. E, con la sua tempestiva emigrazione verso la Laguna, l’Aretino anticipa, ancora una volta i tempi: di lì a poco, in seguito alla di poco successiva crisi provocata dal “Sacco” troverà emuli sempre più numerosi da Roma, da Firenze e anche da Milano. Spostamenti intellettuali non proprio volontari, condensati specialmente tra il secondo e il quarto decennio: non a caso al picco della produzione libraria veneziana corrisponde il periodo in cui gli arrivi s’incrementano103.
La storia del libro italiano del Cinquecento, allora, coincide, e, in pratica, consiste, nella storia del libro prodotto a Venezia: qui vengono stampati e da qui vengono capillarmente diffusi libri che possono soddisfare una domanda realmente nazionale, ovvero essere acquistati e letti ovunque, dal Piemonte alla Sicilia, in tutti gl’altri centri della pur articolata geografia culturale degli stati regionali italiani. Persino a Firenze, dunque, si devono acquistare e leggere molti libri veneziani, e ciò non senza motivi, e conseguenza, sul piano strettamente letterario, e più propriamente della forma linguistica: accade, insomma, che non, come si potrebbe pensare, i toscani conquistano il resto d’Italia, bensì il resto dell’Italia conquista esso la Toscana e ne rivede e spartisce a suo modo il patrimonio linguistico e letterario. A voler schematizzare, lingua toscana in libro veneziano104.
Se la conquista stabile di uno standard linguistico é impensabile senza la funzione strategicamente decisiva tanto della tipografia quanto del libro a stampa, é naturale e logico che il luogo primario di questa normalizzazione venga rivestito dal centro produttivo dominante: ad essa partecipavano, da un lato, le ragioni di profitto economico dell’editore, che deve assicurarsi che il libro possa presentarsi sul mercato sicuro di sé e delle sue possibilità comunicative ampliate da una lingua omogenea, morfologicamente e foneticamente normalizzata, dall’altro, le considerazioni sulla forma linguistica da adottare per componimenti ex novo e volgarizzamenti, che tenga conto delle condizioni e delle necessità dei destinatari.
Dall’incrocio produttivo di queste esigenze consegue la scelta di una lingua artificiale “comune”, funzionale al libro, che gli consentisse di andare “per tutta Italia”, uniforme e continua al di là e contro tutte le differenze “native”, tutte le originarie diversità, creata sulla radice del toscano letterario e sulla base dei dettami tassonomici e dei modelli elaborati dal simbolo di quella “nascita della grammatica” che furono le Prose bembesche e dalla selva infinita dei tanti altri testi, tutti schierati a sostenere il proprio della scrittura rispetto, e a differenza, dell’improprio, del parlare105. E questa rivoluzione linguistica, in cui si deve scorgere un processo interamente storico e culturale, assolutamente non naturale, né spontaneo né tantomeno teleologico, prese avvio a Venezia in netto anticipo rispetto a quanto avveniva negl’altri paesi europei, giunti più tardi all’individuazione di una forma linguistica nazionale.
Negl’anni in cui Vincent arriva in Laguna, la produzione editoriale veneziana sta vivendo il suo picco più alto, favorito indubbiamente dalla crisi degl’altri centri, in particolare quella delle grandi capitali del libro incunabolo: tra il 1526 e il 1550, ben tre libri italiani su quattro uscirono da torchi veneziani, sebbene – e non é un paradosso – di questi ultimi molto pochi siano quelli gestiti da veneziani: come accadde per i letterati, infatti, librai e stampatori vi affluirono da ogni parte d’Italia (e d’Europa), attratti, specialmente dopo il 1530, dalla pace e dalla prosperità della città, in contrasto con il disordine economico regnante ovunque: i Giolito da Trino, in Piemonte, Marcolini da Forlì, il Tramezzino da Roma, Rusconi da Milano, i Giunti della famiglia di stampatori fiorentini, Nicolò Bevilacqua é trentino, Ziletti bresciano, Ciotti senese, Griffio, Gardano – e Valgrisi – francesi106.
Per la produzione globale veneziana del Cinquecento si sono proposte cifre varianti tra le 15-17 mila (Grendler), le oltre 30 mila (Fahy) e le almeno 50-60 mila edizioni (Martin): dato – quest’ultimo – da ritenere più realistico, anche considerando che, nel corso del secolo, i torchi attivi in Laguna sono almeno 640 (contro i 542 di tutti gli altri principali luoghi di stampa della penisola), mentre dal confronto tra varie fonti, tipografi ed editori risultano più di 500 (quando il totale italiano arriva a 1.300)107. E nuovi nomi si aggiungono quasi in continuazione108.
Almeno per la prima metà del secolo, senza dubbio all’avanguardia per capacità tecniche, gusto compositivo, conoscenza del mercato e rete distributiva, le stamperie e gli editori veneziani seppero rispondere in pieno alle esigenze di un mondo di utenti in espansione e alla conseguente differenziazione delle richieste, producendo, accanto ai poderosi in folio delle edizioni bibliche o giuridiche, i maneggevoli volumetti “in forma enchiridii”, alternando le opere scientifiche ampiamente illustrate con gli opuscoli popolari, poco curati e poco costosi. Nel corso del secolo Venezia coprì dunque più del 50% dell’intera produzione peninsulare, con un picco nel secondo quarto del Cinquecento, in cui raggiunse quasi il 75%, segno tangibile della centralità veneziana, che, benché progressivamente ridimensionatasi col passare degli anni, permanette comunque ben salda109.
Se si considera poi che, nonostante le variabili legate alla richiesta preventivata e le dimensioni della casa editrice, la tiratura media di una pubblicazione era di mille copie, nel corso del secolo Venezia introdusse sul mercato qualcosa come 20-24 milioni di libri110.
E’ un dato questo, che, correlato a quello demografico (115.000 abitanti agli inizi del secolo, che salgono a 168.000 nel 1563), conferma tanto la propensione ad una vistosa esportazione, sia nel resto della penisola che all’estero, quanto, tralasciando le implicazioni, per nulla ininfluenti, legate al prestigio culturale o al mito della libertà politica cui si accennava, il considerevole peso rivestito dall’industria tipografico-editoriale all’interno dell’intera economia veneziana, sia in termini di capitalizzazione e circolazione del denaro, sia in termini occupazionali: se nel 1596 – data in cui la stampa era ormai alquanto decaduta - il patrizio veneziano Leonardo Donà, calcolava che in città la stampa desse lavoro a 4-500 uomini, é logico ipotizzare che nel periodo di massima fioritura, fino all’incirca al terzo quarto del secolo, essa potesse impiegarne anche 5-600111.
Uno straordinario volume d’affari, dunque, del quale bisogna dare sicuramente atto alle imprese maggiori, ma anche alla miriade di medi e piccoli, che, con la pluralità delle loro iniziative, volte a conquistarsi, se non una fetta, almeno una nicchia, di mercato, non solo incisero significativamente sulla storia dell’editoria lagunare, ma rappresentarono anche uno stimolo continuo per i “grandi nomi”, ben attenti a scongiurare il rischio di pericolose intrusioni al vertice di una categoria caratterizzata dalla continuità ereditaria e dal non raro ricorso a legami tra le case, che si rivelava provvidenziale in eventuali crisi, in caso di liti o tensioni concorrenziali.
L’industria del libro era fatta da editori, tipografi e librai, figure che spesso coincidevano in tutto o in parte. Era comunque l’editore, ovvero il finanziatore - colui che, insomma, apponeva il suo nome sul frontespizio - ad esercitare la funzione principale. I Manuzio, i Giunti, i Giolito - per citare i nomi più prestigiosi - erano tutti editori, ma avevano una parte importante in tutte le fasi della stampa e nello smercio del libro: stampavano, inviavano il loro prodotto in giro per l’Europa, erano titolari, a Venezia ed altrove, di botteghe in cui offrivano al pubblico libri di fattura locale o straniera. Solo chi era in grado di controllare tutte le fasi della produzione, infatti, poteva pensare di poter ricavare utili importanti da reinvestire nell’attività editoriale, premessa indispensabile per dare vita ad una bottega capace di produrre con continuità e con un programma conseguente.
L’editore poteva passare un manoscritto ad un tipografo, il cui nome, a stampa eseguita, sarebbe comparso, tutt’al più, nel colophon; quest’ultimo, però, poteva uscire dall’anonimato qualora gli si presentasse l’occasione di stampare, senza intermediari, un manoscritto sicuramente remunerativo. Lo stampatore, in regola generale, rimane comunque poco più che un tecnico, per il quale la società con l’editore risulta essere il mezzo con cui tentare di emergere dai tanti che avevano intrapreso l’avventura tipografica. Egli, anzi, sembra essere molto spesso condizionato finanziariamente dall’editore stesso, che, non di rado, approfitta delle sue difficoltà per sottrargli i mezzi di produzione112.
Alla base dell’industria editoriale, dunque, vigeva uno stretto esclusivismo: al libraio in proprio, in mancanza di capitali da investire, non restava che la sola attività di vendita, o al, massimo, una puntuale associazione con lo stampatore.
Per definire queste categorie professionali - non del tutto a torto, visto la molteplicità delle combinazioni e dei profili - i contemporanei usavano indifferentemente i termini di libraio, stampatore e bibliopola: era il capitale, insomma, a fare la differenza113.
A metà del secolo, da trenta a cinquanta editori pubblicavano almeno un titolo l’anno, ma le dimensioni delle aziende tipografiche variavano molto: si andava dai detentori di veri e propri imperi commerciali, a quelli che apponevano il loro nome su di un’unica edizione. Se Gabriel Giolito pubblicò dal 1541 al ’78 circa 900 edizioni, tra originali e ristampe, con una media “industriale” di quasi 24 titoli l’anno, altri 150 ne stamparono i suoi eredi, fino al 1599, e l’attività dei Giunta e degli eredi di Aldo si prolungò per tutto il secolo – poco meno furono le edizioni dei primi, circa 950 quelle degli altri, per una media di circa dieci l’anno - per molti poteva essere il primo e l’ultimo titolo, per poi sparire114.
Il numero di ragioni sociali piccolissime è, infatti, particolarmente alto: una vera e propria polverizzazione della produzione tipografica. Questa caratteristica resterà una costante durante tutto l’arco del secolo, e sarà sempre legata alla convinzione che la stampa – e particolarmente a Venezia, dove il bagliore dell’oro esercitava un fascino maggiore che in qualunque altro luogo d’Europa – fosse in grado di offrire grandi e vantaggiose opportunità di lavoro e di fortuna. Tale tendenza risulta però anche più marcata ai primordi della tipografia, proprio per la novità stessa dell’impresa, come riassume sinteticamente la celebre quanto acida battuta di Erasmo secondo cui era diventato più facile fare lo stampatore che il fornaio:
‘Non licet cuivis pistorem esse, Typographia quaestus est nulli mortalium interdictus115 ’Attirati dalle clamorose fortune di alcuni, moltissimi intrapresero speranzosamente questa strada, spesso ingannati da un costo iniziale apparentemente basso116.
Il primo ostacolo – che già di per se rappresentava una selezione che molti non riuscivano a superare – era costituito dall’investimento iniziale di capitale, necessario per l’attrezzatura. Sarebbe un errore anche tentare di calcolare in termini assoluti le somme di denaro impiegate, poiché le diverse fasi della produzione non venivano considerate come momenti integranti di un unico processo, per cui la variegata categoria degli aspiranti stampatori aveva a disposizione un’altrettanta variegata scala di possibili investimenti, variamente distribuiti lungo la loro carriera117.
Ciò che dimorava certo, era la necessità di vincolare un certo capitale per un lungo periodo, in un mercato imprevedibilmente e fortemente competitivo. I pochi fortunati che disponevano di contanti, dovevano effettuare un investimento rilevante, mentre il piccolo artigiano era probabilmente costretto a ricorrere a prestiti garantiti dalla futura produzione. Se il torchio sembrava essere la voce che curiosamente creava meno problemi, ben diverso era il discorso per quanto riguardava i caratteri, gli inchiostri, la carta - il cui prezzo rappresentava il costo fondamentale della produzione libraria - e soprattutto la manodopera specializzata e del manoscritto da stampare118.
E quando pure si erano acquistati i due elementi essenziali dell’equipaggiamento, ovvero il torchio e i caratteri, potevano essere necessari ancora molti mesi prima di poter cominciare a produrre alcunché119.
La scelta editoriale variava notevolmente da un editore all’altro e sebbene tutti pubblicassero un po’ di tutto, le grandi case tendevano a specializzarsi. i Giunta in testi medici e liturgini: dai loro torchi uscuna messe di breviari, messali e Bibbie che mise Venezia alla testa della produzione europea di testi canonici; i tipi di Aldo, insieme all’estrema correttezza e qualità della curatela godettero ampi riconoscimenti per le edizioni dei classici e degli umanisti; il Tramezzino legò il suo nome soprattutto a romanzi cavallereschi ed opere storiche in volgare, e testi giuridici, ma pubblicò anche un numero notevole di volgarizzamenti di classici, libri religiosi e addirittura carte geografiche; Marcolini si orientò verso la più attuale produzione contemporanea, quella accuratamente evitata dal Tramezzino, diventando l’editore di fiducia di autori come l’Aretino e il Doni; Gabriel Giolito si fece il propagatore della letteratura in volgare in tutti i suoi aspetti – dialoghi, teatro, trattati, storia, poesia - e poi, dopo la “svolta” di metà secolo, coincidente al nuovo indirizzo “riformato” impresso dai nuovi tempi, prediche e libri di devozione - non interessandosi di diritto, filosofia, scienze, matematica e in genere alla produzione in lingua latina; i Gardano, come si diceva, si dedicarono quasi esclusivamente alla musica120.
Più un editore era piccolo, maggiore doveva essere il suo grado di eclettismo: meno noto e con a disposizione risorse finanziarie più esigue, doveva essere pronto a far stampare qualunque cosa offrisse il mercato in quel momento. Accedere direttamente a manoscritti inediti richiedeva infatti poter disporre della collaborazione di letterati di professione per curarne l’edizione, e se possibile, anche di correttori di bozze. Ma il noleggio e l’acquisto di un manoscritto potevano costare qualunque cifra, e se anche curatori potevano accettare l’incarico per il prestigio che comportava, e per una soma globale prefissata, un correttore esigeva invece regolare stipendio. Il piccolo imprenditore poteva allora chiedere o prendere a prestito testi già stampati da copiare, o raggranellare il minimo vitale come stampatore cottimista.
Sebbene il successivo profitto si aggirasse intorno al 50% del prezzo di vendita, la pubblicazione e la distribuzione di un libro richiedeva a volte complessi accordi finanziari e l’investimento di grosse somme.
Allo scopo di recepire i fondi necessari per affrontare le spese di stampa e suddividere contemporaneamente i rischi di un mercato incerto, o di una concorrenza dannosa, frequentissimo era il ricorso alla coedizione o alla forma societaria, in cui spese e profitti venivano condivisi tra i soci.
La coedizione é il tipo di accordo che appare come il più frequente nell’ambito delle iniziative tipografiche ed editoriali del secolo: una volta stampato nell’officina di uno dei soci, o da uno stampatore esterno retribuito con i fondi comuni, il libro poteva essere così pubblicizzato in contemporanea da più editori, come espressione della loro propria singola attività. Infatti, ferma restando la sottoscrizione del tipografo nel colophon, frequente é il caso di numerose copie di una stessa edizione, recanti, nel frontespizio, la marca e la sottoscrizione di uno dei soci. In questo caso, la società doveva aver deciso fin dall’inizio che la partecipazione finanziaria di ciascuno alla produzione di questa edizione si risolvesse nella successiva divisione tra gli stessi esemplari tirati, ma si trovano anche esempi in cui sullo stesso “prodotto” appaiono contemporaneamente più marche editoriali e/o più sottoscrizioni nominative: entrambe qualificazioni della proprietà giuridica sull’esemplare, si alternano e ripetono nelle combinazioni più disparate, rendendo molto complicata la ricostruzione di tali rapporti, che, basandosi solo su dati esteriori offerti dagli esemplari, non avvalorati da alcuna documentazione in proposito. Gli accordi fra le parti erano infatti quasi esclusivamente orali e di essi resta traccia coltanto nel caso di un contenzioso sorto successivamente121.
Accanto alle società di tipo fisso tra due editori, intese come un quid unitario nella loro vita e nel loro programma editoriale, esistevano unioni commerciali su larga scala tra gruppi di singoli imprenditori, finalizzate alla produzione di un certo tipo di prodotto. Si trattava pur sempre di associazioni tipografico-editoriali a carattere stabile, ma l’elemento che le connota era il tipo d’accordo: avendo come scopo il raggiungimento di un obiettivo ben determinato, non escludevano che al di fuori della società – e parallelamente ad essa - i “singoli imprenditori” continuino a svolgere la loro attività per altri tipi di produzione. Queste unioni, sorta di joint-ventures dell’epoca, si verifica essenzialmente, come abbiamo accadere anche a Lione, per la stampa di opere a carattere giuridico, di notevole impegno economico e spesso di non facile realizzazione.122
In ogni caso, gli elevati costi produttivi potevano essere coperti solo da un corrispodente numero di libri venduti: era necessario allora assicurarsi uno spazio temporaneo di mercato protetto, evitando che altri potessero pubblicare la stessa opera.
Il concetto della concorrenza, era nel settore librario, del tutto nuovo, in quanto nell’età del manoscritto priocedura normale nella produzione del libro era la copiatura di uno già esistente. Se in origine la domanda di libri era talmente elevata e la produzione ancora tanto limitata che la ristampa da parte di altri tipografi non doveva essere vista come un vero pericolo o una dannosa scorrettezza. Ma già negli anni ‘90 del Quattrocento fu chiaro che l’entità, inedita, degli investimenti realizzati dagli editori, e il rischio ad essi legato, non trovarono protezioni nelle leggi vigenti perché le ristampe, o addirittura le stampe pirata condotte in contemporanea copiando fogli trafugati dagli stessi operai, erano un incombente minaccia: ciò portò a mettere a fuoco l’dea di concorrenza nel settore librario e spinse gli editori a cercare una protezione adeguata alle loro esigenze.
Gli stampatori individuarono dunque nel privilegio l’istituto più adatto a proteggere l’investimento economico che la stampa tipografica imponeva loro di affrontare prima dei (presumibili) guadagni e Venezia fu certamente lo stato che più di ogni altro si occupò di legiferare in materia123. Il privilegio conteneva sempre non solo l’esclusione ai concorrenti di stampare l’opera, ma pure d’importarla nel Dominio se stampata altrove, quindi implicava pure l’esclusiva commerciale, di rilievo fondamentale per una città che svolgeva in Italia il ruolo di fiera libraria permanente. L’iter della procedura, tuttavia, pesava con i suoi costi sui richiedenti, ed era molto onerosa anche in termini di tempo e di energie investite: procurare l’ “ispeditione di privilegi” – come si diceva tecnicamente, comportava anche “sviamento delle botteghe”, cioé distrazione dagli affari, e “grande consommamento di tempo”124.
Dal 1542, poi, fu più severamente fatto rispettare l’obbligo della licenza di stampa, introdotto dal Consiglio dei Dieci fin dal 1527, ma che ebbe molte difficoltà ad essere imposto, e che prevedeva il permesso d’“imprimatur” e d’importazione previa approvazione di due revisori, preposti alla lettura dei testi. Nelle intenzioni si trattava, oltre che di un controllo sulla morale, anche sulla qualità del testo, che peraltro conviveva con la pacifica convinzione che fosse non solo lecito, ma doveroso, l’esercizio di un controllo da parte delle autorità su ciò che veniva messo in circolazione. In questo modo se il privilegio proteggeva gli interessi meramente privati dei singoli librai, l’obbligatorietà della licenza – di conseguenza la severità delle pene in caso di inosservanza – garantivano gl’interessi pubblici: moralità, politica estera, difesa delle istituzioni, ortodossia religiosa125.
Ma lo stampatore avrebbe dovuto attendere ancora altro tempo prima di poter finalmente far passare il foglio sotto al torchio.
Fiuto e strategia commerciale, infine, non erano da tutti, e le difficoltà di vendita si rivelavano spesso ancora più gravi di quelle legate al ciclo produttivo.
La vita quotidiana dello stampatore si rivelava dunque una vera lotta contro il tempo, che era un nemico probabilmente peggiore del plagio: era necessario non solo - tormentando e pungolando collaboratori e operai - mettere velocemente in circolazione un numero sufficiente di libri nel raggio di un’area di mercato più vasta possibile, ma anche realizzare - ed incassare - i profitti delle vendite, in tempo utile a coprire gl’investimenti.
Oltre alla disponibilità finanziaria, la distribuzione del libro richiedeva una complessa rete commerciale: l’editore comprava e vendeva libri a Venezia ed altrove, e gli erano perciò necessari molti liquidi da poter investire negli acquisti126.
Come si è detto, il libro veneziano restava il principale fornitore per tutta la penisola e molti editori veneziani possedevano numerose filiali, botteghe o magazzini, sparsi su tutto il territorio nazionale, o anche all’estero, gestiti da loro rappresentanti o procuratori127. L’apertura di sedi secondarie di un’azienda commerciale libraria - operazione che molto spesso aveva luogo mediante l’acquisto di una florida bottega cittadina - erano la naturale evoluzione del meccanismo della commissione e presentavano una serie non trascurabile di vantaggi: presenza costante nelle città a maggiori consumi librari, con incasso non decurtato da commissioni verso terzi; immediata articolazione della distribuzione libraria, con esatta valutazione dei consumi locali nelle varie piazze (utili alla programmazione delle future tirature), e informazioni dirette e rapide sui mutamenti delle preferenze e sulle modalità concrete con cui venivano selezionati e confrontati i diversi titoli; ubiquità territoriale dell’iniziativa editoriale, che sfruttava le situazioni vantaggiose via via affacciantesi nelle diverse città, aumentando i profitti dell’azienda. Una filiale commerciale, inoltre, poteva frequentemente diventare una sede secondaria dell’attività produttiva.
Nella seconda metà del Cinquecento, circa 100 erano i professionisti della stampa veneziani – editori, stampatori, librai grandi e piccoli – ad inoltrare e vendere libri nel Regno di Napoli. Nel 1565 Gabriel Giolito teneva botteghe a Ferrara, Bologna e Napoli, e Vincenzo aveva punti vendita, oltre che a Francoforte, a “Lanzano, Fuligno, Recanati, Macerata, Bologna, et Padova”128. Per i produttori, i libri stockati in questi magazzini e filiali - volumi usciti dai loro torchi, altre stampe veneziane e libri importati da Lione, da Basilea o altrove - prima di diventare voci attive, rappresentavano veri e propri capitali immobilizzati, e – lo abbiamo visto nella vicenda di Jean, e lo rivedremo nel caso di Vincent – spesso a rischio d’imprevisti129.
Anche in questo caso, molto spesso, la forma della società era usata per stabilire rapporti di affari con librai residenti altrove e risolvere i problemi inerenti alla commercializzazione: l’accesso ai circuiti di distribuzione italiani ed internazionali era infatti diventata una condizione indispensabile per proseguire vantaggiosamente l’attività tipografica e i profitti erano proporzionali alla capacità di muoversi sul mercato europeo130. I grandi stampatori-librai dell’epoca, quelli al vertice del successo, furono proprio coloro che, in grado di delegare ai propri dipendenti i più immediati problemi di produzione, potevano dedicarsi a intrattenere amicizie e relazioni commerciali che permettessero loro di percepire da che parte spirasse il vento della domanda e dove riuscire ad individuare, in anticipo rispetto alle firme concorrenti, nicchie di mercato suscettibili d’investimento redditizio, come nel caso delle edizioni di materia medica contemporanea, in particolare di autori francesi, vero terreno di conquista – e di successo - di Vincenzo sin dai suoi primi anni d’attività131.
Con il progressivo differenziarsi del pubblico, l’ulteriore diversificazione dei canali commerciali e l’aumentata capacità di assorbimento del mercato, i librai riuscivano ormai a proporre sui loro scaffali libri ormai alla portata di tutti gli strati sociali:
‘Adolescenti et etiandio Nobeli, Mercadanti, Artesani, Abbachisti, Aggrimensori, Geometrici, Architettori, Arithmetici, Raggionati, Scrittori et Iudici, de cittade, terre, ville, castelli et altri luoghi [...]132 ’Un pubblico, dunque, sostanzialmente formato da categorie professionali e di mestiere intermedie, in parte appena alfabetizzate e in cerca di mezzi che potessero garantire loro un’ulteriore promozione culturale e sociale; un pubblico vastissimo, presente in tutte le regioni d’Italia, anch’esso sostanzialmente omogeneo e voglioso di scrivere e di leggere, favorito in ciò dalla presenza e dalla diffusione capillare del nuovo libro editoriale di massa in lingua133.
Il prezzo oscillava in misura notevole a seconda del formato e del numero delle pagine, ma il prezzo medio di un volume doveva aggirarsi tra 1 e 2 lire134. Considerando che, durante la seconda metà del Cinquecento, un maestro carpentiere guadagnava da trenta a cinquanta soldi al giorno, mentre tra venti e trentasette ne percepiva un manuale delle costruzioni edili, anche un Boccaccio che costava 6 soldi, o un in-folio, una Bibbia, che si aggirava sulle 6/8 lire, pari alla paga di tre/sei giornate di lavoro, non sarebbe stato poi così inaccessibile. Un mercante ed un professionista, dunque, potevano mettere insieme una biblioteca di modeste proporzioni, mentre alcuni patrizi furono in grado di accumulare centinaia o addirittura migliaia di volumi135.
Editori, tipografi e librai facevano parte a buon diritto del ceto medio dei mercanti e dei professionisti, sufficientemente al di sopra della lotta quotidiana delle classi più povere per assicurarsi il sostentamento quotidiano, ma ben lungi anche dall’opulenza di alcuni membri del patriziato; i più umili tra gli addetti alla produzione, invece, condividevano lo status dei piccoli rivenditori e degli artigiani.
I grandi editori, obbligati com’erano ad intessere pazienti relazioni ai massimi livelli con esponenti politici e vari cortigiani, mediatori di ogni richiesta di privilegi ed intercessioni, acquistavano spesso un’esperienza politica e una statura culturale che a loro volta gli permetteva di conquistarsi un ruolo proprio nel mondo della cultura: intrattenevano stretti rapporti intellettuali con gli autori dei quali pubblicavano gli scritti e con i loro collaboratori editoriali e spesso, nelle dediche e nelle prefazioni che portano la loro firma, si mostrano aggiornati sul clima e sugli avvenimenti culturali del loro tempo, dimostrando al contempo – com’era d’altronte era d’obbligo già all’epoca per i mercanti in genere, che venivano spesso a contatto con colleghi stranieri - una certa padronanza delle lingue, almeno del latino e la loro propria136. Per di più, se il figlio – o uno dei figli - non seguiva il padre nell’attività editoriale, finiva spesso per abbracciare le professioni liberali: sembra essere stato il caso, come vedremo, dei due Valgrisi più “studiosi”, Marco ed Erasmo, studenti uno a Bologna e l’altro a Venezia137.
Un altro dato evidente dell’organizzazione - veneziana come europea - dell’industria del libro, è costituito dalla tendenza, marcatissima, ad organizzarsi in strutture produttive di carattere familiare: la famiglia imprenditoriale era, da ogni punto di vista - capitale, lavoro, produzione, mercato - la società più conveniente e funzionale. Un quarto circa del totale veneziano é composto da ragioni sociali multiple, che gestiscono effettivamente più del 96% della produzione totale. E’ quindi comprensibile perché queste “case” tendessero a specializzarsi, come si é visto, in settori particolari della produzione138.
Queste famiglie mostrano delle caratteristiche comportamentali comuni a quelle in cui si struttiravano tante altre attività produttive dell’epoca, prima fra tutte l’abitudine a stabilire e rafforzare rapporti d’affari tramite scelte matrimoniali operate all’interno della categoria. Molteplici dovevano essere i vantaggi offerti da questi legami: oltre all’ampliamento e al consolidamento del giro d’affari, si poteva dotare le figlie femmine per buona parte in libri, guadagnando in cambio un genero adatto a proseguire il lavoro di bottega: Diana Valgrisi sposa così Giordano Ziletti, vedovo di una Bevilacqua, e più tardi sua sorella Felicita si unisce in matrimonio con il nipote di questi, Francesco, anche lui, a sua volta, rimasto vedovo di una figlia del Bevilacqua. Entrambe sono “dotate”, almeno in parte, di edizioni giuridiche139.
Talvolta poi, queste donne, abituate sin da piccole ad interessarsi della ditta – spesso interna alla casa di abitazione – rimaste vedove, non si ritirano, ma continuano l’attività editoriale del marito, trasformandosi in “stampadore”140.
Un’altra caratteristica pressoché stabile nel tempo fu quella di tenere il più possibile indiviso il patrimonio di famiglia, reinvestendo le varie parti d’eredità nell’azienda: le fortune di una casa dipendevano infatti in gran parte dall’iniziativa e dalla lungimiranza di chi ne teneva le redini e se gli eredi non erano all’altezza dei padri – come nel caso di Pietro e Giovanni Valgrisi... - o non abbastanza interessati a seguirne le orme, anche una stamperia affermata poteva scomparire in breve tempo, sotto i colpi della concorrenza141. In quest’ultimo caso, se pure la bottega veniva smembrata ed il marchio cambiato, rimaneva comunque vantaggioso per chi la rilevava, conservare il nome di una ditta nota sul mercato.
Come si é detto, costante era il bisogno di liquidi, da reinvestire in un ampio giro d’affari, che, per poter rendere, era costoso e rischioso: una necessità che ben spiega la cautela con la quale gli stampatori, anche più illustri, investirono, come già abbiamo visto fare a Lione, in altre attività o in beni immobili o latifondi in Terraferma, fatte salve le proprietà che i molti non veneziani - primi fra tutti i Giolito, ma forse anche lo stesso Vincenzo, a Charly o a Lione - mantenevano nei luoghi di provenienza142.
Relazioni commerciali complesse, come rapporti di “buon vicinato” legavano gli stampatori e i librai in una sorta di clan, che se certo rappresentava una garanzia di mutuo soccorso e solidarietà – nei documenti notarili che li riguardano, come si vedrà anche nel caso di Vincenzo, i testimoni sono quasi sempre dei colleghi - spesso era testimone di dissapori e liti che scoppiavano fra i vari membri, e che venivano appianate con un arbitrato: le parti in contrasto designavano ognuna un altro libraio e i due prescelti ne indicavano un terzo. Il giudizio dei tre arbitri così nominati era allora vincolante143.
L’Arte, ovvero la Corporazione degli stampatori e dei librai, aveva un ruolo importante quanto ambiguo nella vita dei suoi membri e dell’intera industria editoriale. Costituita, ultima fra tutte le arti veneziane, non prima del 1549 - su decreto del Consiglio dei Dieci e a scopo sostanzialmente di controllo e regolamentazione - essa riuniva tra 66 e 75 stampatori e librai, certo non tutti quelli impegnati nella produzione e nello smercio del libro, e non sembrava godere di grande considerazione fra i protagonisti. Solamente nel 1567 furono resi pubblici i Capitoli dell’Università delli stampatori et librai, che non ebbe un’attività effettiva e costante prima del 1580144.
Tutti gli “stampatori et librai che tengono bottega et vendono libri” vennero dunque riuniti in una “scuola”, che aveva sede nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, e che ogni anno, in occasione della festa di San Giovanni Evangelista, avrebbe dovuto convocarsi per eleggere “a sorta” le cariche interne. Ogni iscritto era tenuto a versare la tassa di una lira e quattro soldi all’anno alla cassa comune, la cosiddetta “luminaria”, finalizzata al pagamento “de’ galliotti”145.
Di fatto, però, l’Arte non si riunì che nel 1572, per nominare cinque suoi rappresentanti e per stabilire le norme di accesso, decidendo che:
‘per l’avenire alcuno che non si sia matricolato non possa levar stamperia né libraria […] se prima non sia stato garzone nella città di Venezia per anni cinque, scritto alla Giustizia vecchia, et doppo habia servito per lavorante in questa città tre anni continui, et esaminato da periti’Per quanto riguardava i “forestieri, che verranno per farsi maestri”, essi avrebbero dovuto “lavorar nelle botteghe […] almeno anni cinque continui, et avuta la fede di haver servito il detto tempo, pagar ducati diece per ciascuno”146.
La struttura familiare dell’organizzazione produttiva era preservata: soltanto ai “figliuoli o heredi de’ matricolati”, infatti, era concesso entrare gratuitamente nell’Arte: la “benintrada” era dunque ritenuta come una sorta di tassa a fondo perduto, da pagarsi “una volta tantum”. Stabilite queste linee fondamentali l’Arte ebbe una vita sociale pressoché inesistente, tanto che, come vedremo, nel 1549, anno del tentativo di applicazione del primo indice censorio, quello del Della Casa, il Consiglio dei Dieci poteva affermare che
‘essendo occorso più fiate alli Signori deputati sopra li heretici de esser informati dalli hautori, et stampatori d’alcuni libri scandalosi ed eretici, […] con difficultà […] si può venir in cognizione della verità, non vi essendo alcuno che ripresenti la detta arte, né chi risponda per quella147 ’Quantomeno, di essa non vi è più traccia sino al 1578 (anno in cui é tra i priori anche Giorgio Valgrisi): se ne è dedotto che la sua costituzione avesse uno scopo unicamente fiscale - il pagamento, appunto della “luminaria” - ma il problema é, in realtà, più complesso.
Dalla metà del secolo in avanti, infatti, essa pareva tentare di rispondere all’ineliminabile necessità di regolamentare l’attività di un settore delicatissimo, che farà imboccare alla Repubblica la strada di interventi legislativi sempre più precisi, e che divennero un fattore vincolante alla costituzione dell’Arte stessa: fin dai suoi primi anni di attività la sua azione propositiva riguardò principalmente, oltre alle norme per le immatricolazioni, anche le disposizioni circa i permessi di stampa e la preoccupazione, ricollegabile anch’essa in qualche modo alla censura, di distinguere nell’Arte le diverse competenze tecniche degli operatori del settore148.
Come si vedrà, l’Arte apparve man mano sempre più legata a preoccupazioni di ordine censorio, e anche la data del 1572 è significativa, proprio a ridosso degli anni caratterizzati da un irrigidimento della censura che la Repubblica, vincolata ad un ruolo “cattolico” della sua politica estera, stentava a contrastare. In questo contesto dunque, l’Arte nominò prima cinque deputati con l’espresso compito di difenderla da altre non nominate magistrature e, in occasione della sua prima seduta, pose vincoli molto stretti all’esercizio dell’attività tipografica in città, regolamentando in modo particolare il lavoro dei forestieri: un tentativo di mettere ordine in quello che sembrava ormai essere diventato un vero campo minato.
Dal 1580 in poi, alla ripresa del suo impegno, la funzione più delicata dell’organizzazione diventerà quella normativa, e la legislazione sulla stampa passerà anch’essa attraverso l’Arte, il cui capitolo generale, ben al di là del suo compito fiscale, discuterà, almeno formalmente, le leggi regolanti il lavoro, ne prenderà atto e le avallerà. L’Arte si configurava, insomma, come uno dei momenti di “democrazia diretta” tipici della vita veneziana, uno spazio nel quale il potere decisionale non era certo illimitato, ma nel quale era tuttavia possibile esprimere giudizi ed avanzare precise richieste, a patto di essere in regola con il pagamento della “luminaria”149.
Prima delle sopravvenute difficoltà finanziarie, legate soprattutto, in base a quanto si legge negli atti, a crediti di difficile riscossione e al fatto che dal 1580 le fu addossato il compito di perseguire a proprie spese i trasgressori dei capitoli, l’Arte riusciva a far fronte alle spese di organizzazione interna e perfino a stanziare piccole somme in aiuto a membri bisognosi o alle loro famiglie: ancora nel 1602 essa stipendiava un medico150.
L’organizzazione dell’Arte – che, per certi versi, dev’esser considerata quale frutto della tendenza normalizzatrice del maturo Cinquecento – fa emergere chiaramente quella che si è definita come il vero nucleo organizzativo della struttura produttiva tipografica veneziana: la famiglia.
La corporazione degli stampatori, e librai, infatti, raggruppava solo in modo teorico tutti gli addetti al settore della stampa: di fatto associava soltanto coloro che avevano ottenuto il grado di maestro. Ora, nelle tipografie erano impiegate, come si è visto, anche molte altre persone che avevano un diverso status: i garzoni, che dovevano svolgere un tirocinio di cinque anni, e ad un gradino superiore, i lavoranti, “in stage” per tre anni. Trascorsi questi otto anni, superato l’esame dei periti e pagata la famosa tassa, si sarebbe dovuto conseguire automaticamente il ruolo di maestro. In realtà, però, le cose non erano così semplici, e l’accusa che, storicamente, è stata mossa contro l’Arte è quella di aver sclerotizzato e cristallizzato il mercato del lavoro e dunque l’attività tipografica nel suo complesso: ciò è in parte vero, ma non tanto, o non solo, perché essa abbia proceduto ad una vera restrizione delle immatricolazioni, quanto, piuttosto, perché si impegnò a chiudere il suo accesso “dal basso”: non appena, infatti, la congiuntura economica generale cominciò a rivelare qualche difficoltà, l’Arte intervenne con la sua normativa, probabilmente avvallata e sostenuta da un intervento politico più alto, per garantire quella che per due secoli era stata la struttura portante dell’editoria veneziana, la società familiare151.
Cfr. infra e cap. II.3
Guillaume Rouillé era nato verso il 1518, e sembra si fosse recato in Italia ancora adolescente. Il suo “tirocinio” presso i Giolito é documentato dal 15 luglio 1539, data del primo inventario di libri da lui stilato, e dovette proseguire almeno per altri tre o quattro anni. Fu proprio grazie ai rapporti dei suoi datori di lavoro veneziani con la famiglia di editori-stampatori Portonari, originari di Trino come i Giolito, che Rouillé, una volta tornato a Lione, integrò immediatamente il mondo della stampa, prima come dipendente di Domenico Portonari, e poi, sposandone la figlia Marguerite nel 1544, come successore della sua azienda che utilizzò come base di partenza per la sua straordinaria impresa commerciale a livello veramente europeo. Per tutta la sua vita, Guillaume, che fu editore e libraio, ma mai stampatore, rimase in ottimi rapporti con Gabriele, condividendo con lui la sua prima edizione in italiano (il Plinio Secondo del 1546) e improntando molte delle sue edizioni italiane successive su quelle giolitine, come vedremo in particolar modo per quanto riguarda le illustrazioni. Per il Rouillé, su cui si ritornerà più volte, cfr. Baudrier 1964, X ; Picot 1906, I, pp. 183-220 ; Salomon 1965 ; Zemon Davis 1966 ; Zemon Davis 1983 ; Giudici 1985 ; Albonico 2000 ; Nuovo-Coppens 2005 ; Andreoli 2006 ; sui Gardano, cfr. Bonaldi, 1990, su Griffio, cfr. Baudrier 1964, VIII. Al di là di alcuni contributi puntuali su alcuni personaggi noti, purtroppo non disponiamo di uno studio dedicato alla presenza francese a Venezia nel Cinquecento, che, data l’importanza delle relazioni intercorse fra i due “stati”, doveva essere rilevante.
Le indicazioni bibliografiche relative all’introduzione e alla storia della stampa a Venezia sono sterminate, basti qui rinviare a Brown 1891, Neri Pozza 1980, Lowry 1984 e 2002 ; Quondam 1977 e 1983 ; Grendler 1983 ; Di Filippo Bareggi 1986 e ai contributi di Zorzi 1994, 1996, 1997 e 1998, e alla relativa bibliografia.
Cfr. Civiltà veneziana 1957, in particolare B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, pp. 99-145; Civiltà veneziana 1958 ; Branca 1980 e 1981 e le sue introduzioni a Umanesimo europeo 1963 e a Rinascimento europeo 1967, che, insieme alla Storia della Civiltà veneziana 1979, a cura dello stesso Branca, a Renaissance Venice 1973, alla Storia della cultura veneta (voll. 3.I-III) e alla Storia di Venezia (voll. III-VI), racchiudono entrambe numerosi contributi riguardo al periodo qui preso in esame.
Cfr. Venezia centro di mediazione 1977 ; U. Tucci, Il patrizio veneziano mercante e umanista e La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Tucci 1981, pp. 15-41 e 43-94.
Per lo Studio di Padova, cfr. Dupuigrenet Desroussilles 1980.
E’ superfluo osservare come la bibliografia relativa alla storia della Venezia cinquecentesca costituirebbe da sola, un saggio bibliografico di centinaia, se non migliaia di pagine. Oltre ai titoli già citati nella nota precedente, e in particolare a Cozzi 1994 e Mallet 1996, si aggiungano : Lane 1978 1982 e 1987; Logan 1980 ; Benzoni 1973 ; Braudel 1976 ; Finlay 1982 per la vita politica; Concina 1989 per gli aspetti urbanistico-architettonici; Zorzi 1989, 1990, quest’ultimo in particolare per un panorama d’insieme sulla vita della città.
F. Sansovino, Delle cose notabili che sono in Venetia [...] libri duo, Venezia, Comin da Trino, 1561, epistola al lettore. Sansovino era lui stesso un “foresto”, figlio di Jacopo, l’architetto e scultore toscano che si trasferì a Venezia per fuggire dal sacco di Roma e che tanta parte ebbe nel riassetto architettonico della città. Questa guida della città, diventata simbolo della “venezianità”, conobbe numerose ristampe nel corso del Cinquecento e dei secoli successivi. Per il Sansovino, cfr. Bonora 1994.
F. Sansovino, Venetia città nobilissima e singolare [...], Venezia, Farri, 1981, c. 3v.
Per il mito di Venezia, cfr. M. Gilmore, Myth and Reality in Venetian Political Theory, in Renaissance Venice 1973, pp. 431-44 ; Gaeta 1981 ; Muir 1984, pp. 1-61 ; J. S. Grubb, When Myths Lose Power : Four Decades of Venetian Historiography “ The Journal of Modern History”, 58, n. 1 (March 1986), pp. 43-94 ; Puppi 1994 e Venezia da Stato a Mito 1997.
Il De magistratibus et republica Venetorum, del patrizio veneziano Gaspare Contarini può essere ritenuto il testo principe della letteratura politica su Venezia. In questo libro, che ebbe una fortuna larghissima e duratura, si descrive un’immagine della città che rispondeva ad una complessa visione filosofica e politica in base alla quale la Repubblica di San Marco si presentava come l’ottimo Stato in senso assoluto, dotato quindi di una perfezione completa che ne faceva un monumento di saggezza ed efficienza, ma anche uno strumento di elevazione morale dal momento che, nella concezione del Contarini, etica, politica e religione si compenetravano e la vita civile era l’area di realizzazione della più alta moralità che fosse dato conseguire all’uomo. Cfr. Gaeta 1981, pp. 632-641. Sul Contarini, cfr. F. Gilbert, Religion and politics in the tough of Gasparo Contarini, in Action and Convinction in Early Modern Europe, Princeton 1969, pp. 90-116; G. Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze, 1988 ; E. G. Gleason, Gasparo Contarini. Venice, Rome and Reform, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1993.
P. Paruta, Della perfettione della vita politica, Venezia, Nicolini, 1571. Dal 1579 il Paruta fu lo storiografo ufficiale della Serenissima. Cfr. G. Cozzi, Cultura politica e religione nella “pubblica storiografia” veneziana del ‘500, e La società veneziana del Rinascimento in un’opera di Paolo Paruta : Della perfettione della vita politica, in Cozzi 1997, pp. 13-86 e pp. 155-83; Bouswsa 1977.
Cfr. Gaeta 1981, pp. 625-632.
Sul ruolo di autopromozione della città operato dalla sua industria tipografica, cfr. ora Wilson 2005. Oltre ai libri, xilografie e calcografie - anch’esse prodotte ora su scala “industriale”, in innumerevoli copie, ampiamente diffuse, leggere e mediamente alla portata di tutte le tasche - attivarono una vera e propria strategia di comunicazione dell’immagine della città, soprattutto attraverso le sue “vedute”, i “ modelli” degl’abiti della sua variopinta ed eterogenea popolazione e i ritratti di potenti tanto d’oriente ed occidente, con cui la Serenissima intratteneva relazioni diplomatiche.
Cfr. Bouswma 1977. Questa libertà dev’essere intesa anche rispetto alle ingerenze papali. La rivalità tra Venezia e Roma (e Firenze) che così tanto caratterizzerà la teoria artistica del Cinquecento, é infatti da contestualizzarsi nel quadro dei difficili rapporti tra la Repubblica e il Papato e quella romana fu uno degl’assi centrali della politica della Signoria durante tutto l’arco del secolo. L’indipendenza che, praticamente la sola, Venezia riuscì a mantenere dopo la caduta di Firenze (1530) dovette infatti essere sovente difesa contro le pretese del papa che desiderava imporle la sua autorità, ciò fu particolarmente evidente, come vedremo, nelle questioni legate al rapporto tra stampa ed Inquisizione, per cui cfr. Grendler 1983. Per i rapporti fra le due città, dal punto di vista soprattutto artistico, cfr. Hochmann 2004.
Per l’Aretino, cfr. Larivaille 1980 ; Acquilecchia 1980 ; Quondam 1980 ; Cairns 1985.
Cfr. Benzoni 1978 ; Di Filippo Bareggi 1988 ; Rosa 1982.
Cfr. Dionisotti 1967, pp. 42-43 e 1976; Petrucci 1988, in particolar modo pp. 1264-1270 ; Richardson 1994.
Per la questione della lingua e il Bembo, cfr. B. Migliorini, La questione della lingua, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, 1949 ; G. Mazzacurati, La questione della lingua dal Bembo all’Accademia fiorentina, Napoli, 1965 ; W. T. Elwert, Pietro Bembo e la vita letteraria del suo tempo, in Storia della civiltà veneziana, II; G. Mazzacurati, Pietro Bembo, in Storia della cultura veneta 3/II, pp. 1-59 ; P. Floriani, Grammatici e teorici della letteratura volgare, ibidem, pp. 139-181 ; Quondam 1978.
Per la tipografia cinquecentina veneziana, da un punto di vista più propriamente bibliografico, oltre agl’ormai superati Pastorello 1924, 1928, 1933 e 1962, cfr. Ascarelli 1953, Marciani 1968 e Ascarelli-Menato 1989 ; DTEI. Per i Giolito, cfr. Bongi 1890-95 ; Camerini 1935 ; Dondi 1967 e 1968 ; Quondam 1977 e ora Nuovo-Coppens 2005 ; per Marcolini : Servolini 1940 e 1950 e 1958 ; Casali 1953 ; Gentili 1980 e Quondam 1980, Van Hasselt 2004; per il Tramezzino : Tinto 1966 ; per i Giunta “veneziani”, cfr. P. Camerini, Il testamento di Tomaso Giunti, “Atti e memorie della regia accademia di scienze, lettere ed arti in Padova”, 43 (1926-27), pp. 191-210 ; E. Pastorello, A proposito del testamento di Tomaso Giunti, “La Bibliofilia”, XXXIII (1930), pp. 55-58 ; P. Camerini, In difesa di Lucantonio Giunta dall’accusa di contraffatore delle edizioni di Aldo romano, “Atti e memorie della regia accademia di scienze, lettere ed arti in Padova”, 50 (1933/34), pp. 165-194 ; Tenenti 1956 ; Camerini 1962-63 ; Pettas 1997; per Giovanni Griffio e per i Gardano, cfr. nota 82.
Cfr. Rozzo 1993, p. 22; Di Filippo Bareggi 1994, pp. 615-16; Hirsch 1974; Grendler 1983, pp. 25-6 ; Fahy 1980, p. 61 ; H.-J. Martin, in Produzione e commercio 1992, p. 1004. I dati che si evincono dalla ancora incompleta catalogazione di Edit16, sembrano sostanzialmente confermare i dati basati sugli Short-title Catalogues della British Library e delle biblioteche Nord-americane. Cfr. Quondam 1983, p. 584-85; un interessante studio quantitatistico e statistico della produzione cinquecentina applicato ad una biblioteca privata eccezionalmente giuntaci quasi integra é D. Régnier-Roux, Una biblioteca in cifre. Studio quantitatistico e statistico della biblioteca di Demetrio Canevari in Saperi e meraviglie 2004, pp. 27-40. Per il numero dei tipografi, cfr. Borsa 1980 ; Pesenti 1983, p. 94 ; Ascarelli-Menato 1989, p. 10 che segnala 248 imprese, ma computa come un’unica azienda le “famiglie” come i Giunta, i Manuzio ecc. Sui torchi attivi in Italia, cfr. G. Borsa, Druker in Italien vor 1601, “Gutenberg Jahrbuch”, 1977, pp. 166-169.
Cfr. D. E. Rhodes, Some rare Florentine and Venetian Printers and Booksellers, 16th Century, “La Bibliofilia”, XCV (1993), pp. 42-44 e Rhodes 1995.
Tale ridimensionamento, registrabile soprattutto nell’ultimo quarto del secolo, é imputabile sia al lento ma continuo aggravarsi della crisi generale dell’economia veneziana rispetto ai mercati e ai porti emergenti sulla nuova scala planetaria, sia allo stesso formarsi di un’editoria decentrata, autonomamente in grado di soddisfare la domanda dei mercati “locali”. Cfr. Quondam, 1983, p. 585.
Questa doveva essere la tiratura media di un titolo che prometteva uno smercio mediocre o modesto, ma un editore su vasta scala poteva arrivare a stampare anche 2-3 mila esemplari di un testo di successo, come ad esempio molti libri religiosi. Ad ogni buon conto la Serenissima, almeno negli anni ’40, non concedeva licenze di stampa per tirature inferiori alle 400 unità, e questa era comunque una quantità “non economica” per qualsiasi stampatore del tempo. Caso a parte costituivano naturalmente le edizioni “su commissione” la cui tiratura poteva anche di poco superare la decina di esemplari. Cfr. Grendler, 1983, p. 26-8.
Discorso (A.S.V., Collegio, Esposizioni Roma, reg. 6, c. 123r.), pubblicato in F. Seneca, Il doge Leonardo Donà: la sua vita e la sua preparazione politica prima del dogato, Padova, 1959, p. 252, n. 1. Cfr. Grendler 1983, p. 41, nota 3. Per la popolazione di Venezia nel Cinquecento, cfr. D. Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova, 1954
Di Filippo Bareggi 1994, p. 620; Lowry 1984, pp. 20 e 27.
Grendler 1983, p. 22.
Per i Giolito e i Giunta, cfr. nota 100, per i Manuzio, cfr. Renouard 1934. Interessante riportare i dati forniti da Di Filippo Bareggi 1994, p. 617: nel periodo compreso fra 1465 e 1500 il 23,6% delle ditte produce un solo titolo, percentuale che però sale a più della metà (59,8%), se si considerano tutte quelle che restano entro i 10 titoli. Soltanto un 14% supera i 50 – e solo un 4,7% i 100 -, mentre il restante 25% si attesta fra i 10 e i 50 titoli. Nel secondo cinquantennio (1500-1550) le ragioni sociali con un solo titolo salgono al 34,6%, quelle inferiori a 10 diventano addirittura il 64,6%, e il 16% sono le ditte sotto i 50 titoli: oltre i 100 troviamo solo un 7,6%. La fascia intermedia, fra 10 e 50 titoli, scende proporzionalmente al 19%. Il terzo periodo, infine, (1550-1600) vede consolidare questa tendenza: rimangono il 34,8% le ragioni con un solo titolo, crescono a 74,5% quelle con meno di 10, restano attestate intorno al 19% quelle comprese fra 10 e 50 titoli, mentre le ditte che superano tale traguardo sono il 7,7% e poco più del 3% quelle con più di 100. Si noti infine che, mentre il livello quantitativo dei titoli sembra restare pressoché stabile, il numero delle ragioni sociali tende a crescere lievemente, ma con continuità, fra il primo, il secondo e il terzo periodo.
Adagia II, 1, 21. L’osservazione appare nel commento di Erasmo all’aforisma “Festina lente”.
In effetti non vi era nulla che impedisse a chi aveva questa inclinazione di tentare la fortuna, perché l’industria tipografica cresceva troppo velocemente per farsi imporre, almeno fino alla metà del secolo, le regole che di norma controllavano le Arti medievali. Ancora nel 1530, lo stampatore di Basilea Thomas Platter spiegava con disarmante candore che quando vidi come Hervagius e altri stampatori avessero un’impresa redditizia, e come realizzassero buoni profitti con poco lavoro, pensò “voglio diventare stampatore”. Cfr. Lowry 1984, p. 15; Hirsch 1974. Per l’Arte veneziana degli stampatori e dei librai, cfr. infra.
Un editore poteva inizialmente servirsi di stampatori “esterni”, prima di organizzare la propria officina : sembra essere anche il caso di Vincenzo, che, in seguito, mise a disposizione torchi e manodopera per altri colleghi. Oppure abbandonare l’attività di stampa per occuparsi solamente di individuare manoscritti e smerciarli una volta fattili stampare da terzi.
Nel corso del Cinquecento si arrivò ad un’industria di servizio specializzata per il disegno e l’incisione dei punzoni, che raggiunse il suo pieno sviluppo intorno al 1540, quando il francese Claude Garamond divenne il fornitore di caratteri di quasi tutte le principali tipografie europee. I prezzi della carta erano soggetti a variazioni assai rilevanti ed era quindi molto facile che il fornitore di carta, talvolta detentore del monopolio dei rifornimenti per un’intera area, diventasse anche un creditore, e concedesse la carta una risma alla volta, fino al completamento del lavoro, assicurandosi così il controllo completo sulla stamperia, nel caso questa venisse a trovarsi in difficoltà. Si tentava dunque di risparmiare al massimo, molto spesso a svantaggio della qualità. Nel 1537, il consiglio dei Dieci poiché gli stampatori “i quali solevano esser i megliori [...] hora per far manco spesa nelle carte [...] le comprano sì triste, che quasi tutti i libri […] non retengono l’inchiostro”prevedette pene assai severe per chi fosse stato trovato ad usare queste carte porose, (A.S.V. Senato Terra, reg. 29, 1537, cc. 129r-130r). Gli avogatori, a loro volta multati di ben 1.000 ducati da applicarsi all’Arsenale, erano tenuti a controllare che non vi fossero più di cinque copie con più di cinque fogli per ognuno della carta condannata, pena 100 ducati di multa e la confisca dei testi. D’altro canto, sul maestro-stampatore incombeva sempre la minaccia di complicazioni con i suoi operai. La mano d’opera non era scarsa, né era necessario un gran numero di braccia: le illustrazioni più antiche mostrano tre persone – compositore, inchiostratore e torcoliere – all’opera su ciascun torchio, quindi una piccola impresa tipografica poteva essere organizzata con meno di una mezza dozzina di operai. Un’impresa che manteneva in attività dai 6/8 torchi con 30/40 lavoratori, era da considerarsi di dimensioni notevoli. A parte il caso di curatori e correttori, solo il compositore doveva avere un certo grado di specializzazione, e, a giudicare dai commenti satirici dell’epoca, sembra non vi fosse carenza di servitori disoccupati e di studenti, anche stranieri, pronti a coprire ogni posto vacante. Ma la forza-lavoro, benché prontamente disponibile, era anche sorprendentemente costosa, e sebbene non risulti che i lavoratori delle stamperie veneziane fossero più organizzati o ribelli di altre categorie occupazionali, sembra però che la loro specializzazione e la loro appartenenza ad una squadra di lavoro avessero rafforzato in loro un senso di identità che, se non portò mai a scioperi organizzati come a Lione, poteva facilmente degenerare, nell’atmosfera surriscaldate del laboratorio che era anche abitazione. Infatti, oltre ad assumerli, il maestro stampatore era di solito responsabile del vitto e dell’alloggio dei suoi operai: ciò significava che prevedere una cifra fra i 5 e i 50 ducati all’anno per l’affitto e la lotta con il costante problema delle fluttuazioni dei prezzi dei generi alimentari. Per tutti gli aspetti “materiali” della produzione del libro, cfr. Balsamo 1973; Hirsch 1974; Lowry 1984, pp. 13-66; Febvre-Martin 1958 (e relativa bibliografia aggiornata nell’edizione 1999) e Libro italiano del Cinquecento 1989. Gli aspetti produttivo-commerciali di molte case editrici veneziane sono vicini a quelli descritti per i Plantin di Anversa da Voet 1969-72. Per gli scioperi degli operai stampatori lionesi, cfr. nota 15.
Gli stampatori che, soprattutto nel primo cinquantennio produttivo, si attestavano su una produzione oscillante fra le 2 e 10 edizioni, dimostrando un impegno molto saltuario, continuamente incalzato dalla necessità di attendere il rientro il rientro di capitali – sempre lento ed incerto – prima di poter iniziare la stampa di un nuovo volume. Naturalmente, tutto questo riguardava il livello più basso del lavoro tipografico, che era anche il più esposto ai rischi della concorrenza e alle variazioni del mercato : un rischio comunque non piccolo per un’epoca in cui il libro era un bene voluttuario e dunque influenzato da qualunque congiuntura negativa militare, politica o economico che fosse. Dopo la riorganizzazione seguita al periodo di crisi - tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento - l’industria tipografica si ritrutturò efficacemente, concentrando il mercato nelle mani di un numero ristretto di ragioni sociali che finirono così per gestire, a parità sostanziale della produzione, un volume più alto di edizioni pro capite. Cfr. Di Filippo Bareggi 1994, p. 617.
Cfr. nota 99 e 107.
Accade anche spesso di ritrovare sul frontespizio di un’edizione una sottoscrizione diversa da quella espressa dalla marca che le si accompagna, e talvolta in fine una terza sottoscrizione attestante un ulteriore contributo. Anche alla luce del significato sempre più importante attribuito al frontespizio, al colophon e alle carte finali nel corso del Cinquecento, una diversa partecipazione alle spese di produzione e vendita é solo ipotizzabile. Se su un frontespizio é posto in evidenza un editore, qualunque ne sia la formulazione – nominativa o emblematica – ed in fine appare una marca editoriale diversa, si potrebbe ritenere che questa, data la posizione che occupa, sia indice di minor contributo ; rapporti più complessi si celano poi nei casi in cui di una coedizione esistano più copie, ciascuna con combinazioni diverse. Cfr. Costabile 1989, p. 138.
L’unione di più ditte diverse in alcuni casi è evidenziato sul libro stesso attraverso marche composite, in cui le iniziali e le rispettive marche dei singoli associati vengono inserite in cornici a formare il nuovo marchio commerciale, e, ad una sottoscrizione di carattere verbale è preferita un’espressione figurativa della società stessa che permette comunque l’identificazione della responsabilità editoriale. Cfr. Marciani 1978; Curi Nicolardi 1984; Costabile 1989; Bellingeri 1989; Simonetti 1999; Nuovo-Coppens 2005, pp. 86-91. Per la Grande Compagnie des Libraires de Lyon, cfr. nota 13.
Benché a Venezia la concessione del privilegio fosse rilasciata senza particolari difficoltà – rappresentando una prassi, formalmente legislativa, ma sostanzialmente amministrativa - la richiesta non ne era affatto obbligatoria e il sistema si basava sul principio dell’iniziativa volontaria. La richiesta e la concessione di privilegi si regolarizzò nel 1492, al di fuori di una norma specifica generale, sulla base delle richieste occasionali. Come in tutti gli altri settori della vita pubblica, la legislazione veneziana non aveva di norma carattere preventivo, ma veniva introdotta solo sotto lo stimolo di un avveniento concreto. Così solo nel 1517 fu emessa dal Senato Veneto la prima “Parte in materia di stampa” che voleva esplicitamente porre rimedio all’incetta di privilegi che alcuni stampatori avevano attuato senza poi realizzare le edizioni la cui stampa avevano ottenuto fosse impedita ai concorrenti. Si era ecceduto nelle concessioni, e la conseguenza era quindi una crisi che aveva portato alcuni stampatori a lasciare Venezia. Il Senato deliberò perciò di revocare tutti i privilegi concessi fino ad allora e decise che per l’avvenire si potessero concedere solo per opere mai prima stampate. La norma venne quindi introdotta prima di tutto per correggere alcune storture verificatesi in quanto il privilegio era stato ridotto, nei fatti, al suo puro contenuto negativo di “jus prohibendi”, risolvendosi in un intralcio all’iniziativa. Nella stessa occasione si stabiliva che da quel momento in poi solo il Senato avesse il potere di accordare privilegi, e non più, come in passato, anche il consiglio dei Dieci. Non si era però stabilito un preciso termine di decadenza per il non uso : con la Parte del 1534 il Senato stabilì perciò che il termine di decadenza per mancata attuazione entro un anno dalla concessione del privilegio, senza deroghe, tranne in caso di un’opera così lunga da non poter essere terminata entro l’anno, a ritmo di un foglio intero al giorno. Nel 1603, infine, si sancì il principio che la concessione del privilegio – automaticamente ventennale – fosse conseguente al compimento di alcune formalità aministrative, o, per meglio dire, corporative nei riguardi dell’Arte dei Librai e Stampatori, nel frattempo organizzatasi. La supplica per l’ottenimento veniva inoltrata al Senato soprattutto dai librai e dagli autori : i primi sono il gruppo più nutrito, ma certamente anche gli autori sono in numero considerevole. La durata era variabile, ma comunque limitata : l’arco di tempo andava da un minimo di un anno a un massimo di 25, ma quello decennale era di gran lunga il più frequente fino al 1550, mentre nella seconda metà del secolo si rileva una tendenza a prolungare tale durata, probabilmente diventata troppo breve per la vendita completa di un’edizione. Una volta scaduto il privilegio, il titolo era completamente libero. Fatto essenziale al pieno funzionamento del meccanismo del privilegio era la notifica pubblica della sua ottenzione : il primo veicolo di “pubblicità” era naturalmente rappresentato dal libro stesso, ma una copia notarile, allestita dal notaio o dal segretario ducale, veniva rilasciata allo stesso interessato, in modo che potesse esibirlo e valersene, se necessario, come vedremo nel caso dello stesso Vincenzo, in occasione del processo del 1570. Il momento più delicato per la notifica era infatti quello tra l’ottenimento della concessione e la pubblicazione del libro, sul quale la menzione del privilegio avrebbe reso immediatamente operativa la protezione: il titolare doveva allora darsi da fare per propagare la notizia. Le pene in caso di inosservanza erano il punto fondamentale, perché solo la sanzione poteva far rispettare il principio: a favore del detentore del privilegio, e dunque a risarcimento del danno, era prevista la confisca delle opere stampate abusivamente; ma esisteva anche un’ammenda di cosistenza variabile (la cui cifra più ricorrente si aggirava intorno ai 200 ducati) da dividersi in parti diverse da destinare ad individui o a istituti pubblici, calcolata un tanto alla copia o come cifra globale per la realizzazione o vendita dell’edizione non autorizzata. Il primo destinatario di parte dell’ammenda era l’accusatore, o denunciante, cui era garantito l’anonimato, conforme a quell’atteggiamento di protezione dei delatori che rappresentava una costante della politica della Serenissima, venivano poi i vari ospedali e l’Arsenale. Il beneficio poteva poi essere ceduto o trasferito, interamente o parzialmente, a terzi, e veniva invece automaticamente trasmesso agli eredi: rivestendo un preciso valore economico facevano in tutto e per tutto parte dei beni aziendali. La concessione si condensava in poche righe, ove era anche esposto il risultato della votazione in Senato. A partire dagl’anni ’40, si diffuse l’uso di un decreto unico di rilascio a seguito di numerose richieste da parte di diversi supplicanti, collegate con l’avverbio “item”, al fine di snellire procedure burocratiche che si facevano sempre più frequenti, in cui si faceva esplicito richiamo alla normativa vigente. Le richieste e le concessioni dei privilegi si trovano registrate nei registri dell’ASV denominati Senato Terra. Alla B.N. Marciana sono conservate le trascrizioni che il Brown eseguì, in parte di sua propria mano, da questa fonte (Privilegi veneziani per la stampa concessi dal 1527 al 1597, copiati da Horatio Brown, Mss. It. Cl. VII, 2500-502 [12077-79]). Per il privilegio a Venezia, cfr. Fulin 1882; Castellani 1888 e Brown 1891, pp. 96-98 e 240-42 che riportano molti dei testi dei documenti d’archivio. La trattazione più aggiornata e completa sull’argomento, con una particolare attenzione alla situazione veneziana, é ora in Nuovo-Coppens 2005, pp. 171-212, alla cui bibliografia si rinvia. Interamente dedicata ai privilegi delle stampe e delle carte geografica la monografia di Witcombe 2004.
Così ricordavano gli stessi librai veneziani al Sant’Uffizio nel 1555. Cfr. ASV, Miscellanea di carte non appartenenti a nessun archivio, b. 21, pubblicato in Del Col 1980, p. 491 e infra, cap. II.3
Se la competenza dei Capi del Consiglio dei Dieci in materia di concessione delle licenze rimase indiscussa, negl’anni si rilevarono diverse modificazioni nella prassi, tra cui importante fu l’introduzione dell’approvazione scritta e giurata di due persone competenti sul contenuto del testo da pubblicare, approvazioni che vennero chiamate “fedi”. Si trattava di un passaggio importante, dato che i revisori avevano la reale responsabilità del contenuto del testo. Essi venivano scelti dal Consiglio, provenivano dall’apparato statale (segretari del Consiglio, segretari ducali, notai delle cancellerie), da quello ecclesiastico (a tutti i livelli della gerarchia, dai frati al Patriarca), dalla cultura accademica, o infine erano semplicemente gentiluomini, patrizi degni di fiducia. La scelta del revisore era di regola speculare al contenuto del testo da esaminare e le fedi dovevano attestare di non aver rinvenuto nell’opera nulla contro la fede cristiana, la Repubblica, i buoni costumi, gl’interessi politici o diplomatici dello stato, o comunque nulla di diffamatorio. Dal 1562, poi si stabiliva che, per ottenere la licenza di stampa, si dovessero presentare tre dstinte fedi: una dell’Inquisitore (o un altro ecclesiastico suo collaboratore) per la dottrina della fede e della morale, uno di un professore dell’Università di Padova o della Scuola di Rialto per il contnuto politico, e infine uno di un segretario ducale per le questioni di politica estera, e per la possibile offesa a signori amici della Repubblica. L’adeguato rispetto in materia di fede, moralità e politica – interna ed esterna - era assicurato. Nello stesso anno, il Consiglio dei Dieci stabiliva che il richiedente avrebbe avuto l’obbligo di depositare due copie del testo: una da esaminare per la licenza vera e propria, e l’altra da consegnare legata ai Riformatori di Padova, che l’avrebbero conservata fino alla stampa avvenuta in modo da poter collazionare il testo approvato con quello poi stampato (le manipolazioni e le interpolazioni attuate dagli stampatori sul testo approvato, infatti, erano frequenti): il controllo testuale era molto accurato e la sanzione minima prevista per i contraffattori ben salata, 100 ducati. Cfr. Brown 1891, pp. 70-72; Witcombe 2004, pp. 59-69; Nuovo-Coppens, pp. 199-203. Sull’aspetto di controllo preventivo e repressiovo sull’editoria a partire dagli anni ’60, in relazione agl’eventi della storia religiosa e dei rapporti tra Venezia e Roma, cfr; infra, cap. II.2
Durante il secolo XVI, il commercio librario si sviluppa e si perfeziona, innanzitutto mettendo a punto nuovi tipi di rapporto, più efficienti ed evoluti, tra i produttori, o grandi mercanti, e i librai decentrati, rivenditori al dettaglio. Se grandi organizzazioni, frutto dell’associazione tra più librai poteva investire su una rete di salariati che, scaricando tutto il rischio sul fornitore, impediva d’altra parte al dettagliante di guadagnare in proporzione al lavoro svolto, gli stampatori di calibro medio-piccolo preferivano affidarsi a librai di diverse città con i quali stabilire rapporti non occasionali, ratificati caso per caso e sottoscritti dal produttore in prima persona, o dai suoi procuratori a ciò delegati. Il rapporto di lavoro più comunemente applicato era la commissione, che già dalla prima metà del secolo XV costituiva il mezzo più diffuso per lo svolgimento di operazioni commerciali su piazze lontane. Essa aveva delicate conseguenze sul piano della proprietà della merce : il committente, infatti, conservava la proprietà della merce consegnata o spedita al commissionario fino alla vendita o ad altra formula di negoziato. Il commissionario vendeva sì per conto del committente, ma a nome proprio, e faceva suo il denaro del prezzo, in caso di vendita in contanti ; eseguita la commissione, il commissionario diventava debitore verso il committente della somma corrispondente al prezzo ricavato, salvo compensazione con il proprio credito per le spese anticipate, e per la provvigione spettante sul prezzo lordo. Era dunque necessaria una minuta e dettagliata registrazione dei libri consegnati. Cfr. Nuovo 1998, pp. 175-198 e Nuovo 2002. Della ricchissima documentazione d’archivio raccolta da Baudrier 1964, la maggior parte riguarda appunto contratti di commissione o lettere patenti tra librai ed editori, per il recupero o pagamento dei crediti.
Nella mentalità dell’epoca, i concetti di bottega e magazzino librario, ovvero di depositi solo periodicamente aperti al pubblico, come quelli delle sedi fieristiche, erano totalmente intercambiabili. Cfr. Nuovo 1998, pp. 191-92.
Cfr. Marciani 1968 ; Nuovo-Coppens 2005, pp. 153-169. Vincenzo lo dichiara durante un interrogatorio davanti all’Inquisizione nel 1555, per cui cfr. infra, cap. II.3.
Per le vicende del contenuto del magazzino veneziano di Vincenzo, visitato a sorpresa dagli inquisitori nell’agosto 1570, cfr. infra cap. II. 5
Oltre alle relazioni che, logicamente, intercorrevano tra i rami di una stessa famiglia di stampatori attivi in diverse città o paesi europei, come nel caso dei librai degli Ecus, e tra i molti, dei Giunta, dei Portonari, dei Gabiano o dei Griffio, legami d’amicizia stretti in occasioni d’incontri e frequentazioni giovanili, potevano trasformarsi in preziosi sodalizi professionali, come nel caso di Gabriele Giolito e Guillaume Rouillé. Cfr. Dondi 1968, p. 657 ; Baudrier 1964, IX ; Nuovo-Coppens 2005. Per Rouillé, cfr. nota 82, per i Giunta nota 99 ; per i Portonari, i Griffio e i Gabiano, cfr. nota 19
Cfr. infra, cap. II.1
Citato da Petrucci 1988, p. 1268. Cfr. Mortimer 1974, II, n. 480.
Senza avere la pretesa di affrontare un tema come quello della lettura in età moderna, cfr. Petrucci 1969 ; Ginzburg 1976 ; Grendler 1992 ; Braida 1995 ; Chartier 1997 e Plebani 2001. Per gli studi sull’alfabetizzazione, cfr. D. Marchesini, Il bisogno di scrivere. Usi della scrittura nell’Italia moderna, Roma-Bari, 1992.
Cfr. Grendler 1983, p. 28-31; Perini 1983, p. 115; Tristano 1992. Per il prezzo dei libri dei Manuzio e dei Giolito, possediamo strumenti preziosi, quali i numerosi listini di vendita annessi ai volumi pubblicati dai primi tra il 1585 e il 1598 e l’Indice copioso e particolare di tutti li libri stampati dalli Gioliti in Venetia sino all’anno 1592, stampato dagli eredi di Gabriele. Cfr. Nuovo 1998; Nuovo-Coppens, pp. 453-549 e anche Voet 1969-72.
Per la presenza e la circolazione del libro a Venezia, cfr. Palumbo-Fossati 1985 ; Zorzi 1990 ; 1996 ; 1997 e 1998.
Vincenzo, ad esempio – se si esclude l’ipotesi che i suoi testi venissero in qualche modo “riletti” da qualcuno di bottega - sembra padroneggiare bene l’italiano e fin dai primi decenni di residenza in Laguna. Guillaume Rouillé, oltre che in e francese e latino, scriveva bene in italiano – che aveva imparato, come abbiamo visto, proprio a Venezia - e aveva rudimenti di catalano. Cfr. Salomon 1965, p. 63 e nota 81.
Cfr. infra.
Cfr. Marciani 1968, pp. 468-69; Grendler 1983, p. 34-35; Di Filippo Bareggi 1994, p. 621.
Cfr. infra. A Francesco Ziletti, che s’impegnava nel 1569 a sposare Giacomina Bevilacqua, il padre di questa prometteva “ducati mille [...], in tanti libri o stampature o un torcolo in termine di anni tre prossimi venturi in tre rati uguali per ogni anno”. (ASV, Notarile, Atti, Notaio Rocco de’ Benedetti, b. 436, c. 14v). Già Aldo il vecchio fu genero del Torresani, mentre Aldo il giovane sposò una Giunta da cui si separò per una “lite pendente”.
Cfr. Marciani 1968, pp. 470 e 502-6 per Veronica Sessa ; Di Filippo Bareggi 1994, p. 645, nota 27 per Orsia Bindoni. Sulle donne e i mestieri del libro a Parigi, cfr. Parent 1974 e S. Postel Lecocq, Femmes et presses à Paris au XVIe siècle : quelques exemples, in Le livre dans l’Europe 1988, pp. 253-63.
Cfr. Di Filippo Bareggi 1994, p. 622. Per il caso dei Giolito, cfr. Nuovo-Coppens 2005, pp. 60-85 e infra per la suddisione dei suoi beni prevista da Vincenzo nel testamento.
Se i Bindoni, nativi del lago Maggiore, vi mantennero a lungo delle proprietà, lo stesso fecero a Trino anche i Giolito, che non pare acquistassero mai beni immobili nel territorio della Serenissima. I Gardano, i Tramezzino, Francesco Sansovino, ma soprattutto i Giunta, investono in proprietà immobiliari in città, in Laguna come in Terraferma. Traffici internazionali in cui i libri si accompagnavano a merci dell’origine più svariata, dallo zucchero e dal pepe, dalle aringhe e dall’olio al piombo, ferro, ai tappeti alle armature e ai vetri di Murano, poteva invece vantare Lucantonio Giunta. Cfr. Di Filippo Bareggi 1994, pp. 622-25; Dondi 1968, pp. 606-610; Nuovo-Coppens 2005; Tenenti 1957, pp. 1050-55.
Cfr. Marciani 1968 ; Grendler 1983, p. 35.
Venezia, Museo Correr, Capitoli dell’Università delli stampatori et librai. Cfr. Brown 1891, pp. 212-13; Di Filippo Bareggi 1994, pp. 636-43; Zorzi 1998.
Venezia, Museo Correr, Capitoli dell’Università delli stampatori et librai, cc. 10r-14r.
Ibidem, cc. 18r-19r.
ASV, Consiglio dei Dieci, Comuni, reg. 17, 1547-1548, cc. 197v-198r. Per l’intera vicenda, cfr. infra, cap. II.2
La prima disposizione riguardava i cartai “librai di carta bianca”, cui veniva fatto divieto di “impedirsi in modo alcuno nell’arte […], così in far stampar, come in vendere libri di cadauna sorta, se non specificheranno esser in una arte solamente”. Nel 1586, una successiva richiesta di diversificazione condurrà ad una sostanziale divisione fra stampatori e librai. Dopo aver ricondotto i problemi legati alla circolazione di testi proibiti in Laguna alla presenza di molti “non matricolati […] che […] stampano, seu fanno stampar et vender libri […] servendosi alcune volte delli nomi suppositi d’alcuni matricolati”, l’Arte invocava l’applicazione delle pene previste nel ’72, aggiungendovi la perdita di “torcoli, lettere gettate, libri stampatii, et altre cose pertinenti alla stamperia, et libraria”. Un’altra serie di disposizioni, di fatto, impediva che un libraio stampasse e uno stampatore avesse bottega di vendita, giacché “per non esser li stampatori idonei, son stampati molti libri, li quali non son da vedere, né da leggere per li molti falli […] et così anco si vede per non esser l’arte del libraro esercitata da idonei, son venduti libri heretici”: da quel momento, dunque, avrebbe potuto esercitare l’arte della stampa solo chi avesse sostenuto l’esame dei periti stampatori, ed analogamente, per i librai, quello dei periti librari. Le citazioni sono tratte da ASV, Arte libreri, stampatori e ligatori, Atti, I. Per i rapporti fra Repubblica, Chiesa e stampa della seconda metà del secolo, cfr. Grendler 1983 e infra, cap. II. 2-5.
Dai suoi verbali emerge infatti tutta la legislazione veneziana sulla stampa, e ben si comprende, dall’importanza dei temi trattati, anche la vivacità che doveva caratterizzare le sue sedute, dove non di rado si usano “parole ingiuriose” contro il priore o “la banca” (ossia la presidenza della corporazione), veri e propri insulti che non sfigurerebbero in contemporanne riunioni di condominio o in Parlamento “buffoni, andate a governar delle pegore”, talora taciuti quasi con pudore, altre volte registrati con gusto, ma dove “parlare arrogantemente” era motivo sufficiente perché “ad esempio de gli altri” anche chi ricopriva cariche nell’Arte venisse sospeso dalla sua funzione.
ASV, Arte libreri, stampatori e ligatori, Atti, II, c. 37v.
La tendenza a contrarre alla base la forza-lavoro impiegata nelle tipografie può infatti esser capita solo se vista in parallelo con la tolleranza mostrata verso gli esclusi dall’Arte, tenuti in una condizione di semi-legalità e tuttavia sopportati ed anzi utilizzati dai maestri allo scopo di ottenere costi di produzione più bassi ed in modo doppiamente vantaggioso, dal momento che questi “fuorilegge” non erano in grado di rivendicare nulla, ma avevano comunque l’obbligo, come si è visto, di partecipare in qualche maniera alle spese comuni. Il vero problema per l’Arte era infatti quello di far rispettare i suoi stessi capitoli: del tutto incapace di sbarrare concretamente l’accesso al mercato del lavoro tipografico ai non matricolati, essa cercò almeno di trarre vantaggio da una situazione giudicata insanabile, contemplando, nel 1583, la possibilità di vendere e di stampare al di fuori di essa previo pagamento di una tassa di “lire tre, et soldi doi per ogni diece fogli”. Una situazione, dunque, tollerata dagli iscritti, ma anche dalle stesse autorità. Sullo scorcio del secolo i problemi che emergono dagli atti sembrano in parte mutare e passare da quelli riguardanti la stampa fuori dall’Arte, alla vendita, anch’essa illegale, di opere durante i giorni festivi : si trattava di piccoli commerci, di “banchetti di libri” messi “fuori [...] a scandolo” e contro le disposizioni di vendita, che prevedevano che “Sotto il portego de Rialto [...] per la Marzaria [...] et così sotto il portego de San Marco” non si potesse vendere in quei giorni “salvo che santi, et libri de epistole, et evangelii, et lezende de’ santi, offitii, bibie et simil opere” (in realtà l’Arte registra anche imbrogli di “alcuni matricolati [...] i quali [...] tengono le porte delle botteghe aperte, ma tirate appresso et invitano le persone se li bisognano libri et li conducono in bottega, vendendosi in sprezzo di Dio et delle leggi”...). Per prima cosa, si stabilì che venissero confiscati, poi però fu concessa qualche deroga a quella che veniva considerata come una forma di concorrenza sleale e fu data al priore la “facoltà [...] di poter concedere licentia a qualche povero matricolato nell’arte. Conseguentemente, gli Atti registrano lunghi elenchi di questi “poveri”, per ognuno dei quali veniva sorteggiato un “bollettino”, che specificava i libri da vendere – in genere “libri spirituali” – e che, comunque, costava otto soldi. Ne vennero approntati anche dei tipi “standard” che riportavano l’esatto elenco dei testi vendibili: gli altri erano considerati di contrabbando. Ad ogni festività si estraevano quattro “poveri” dall’elenco obbligatorio di chi era stato accettato come tale: due erano destinati a Rialto, due a San Marco. Cfr. ASV, Arte libreri, stampatori e ligatori, Atti, II, e Venezia, Museo Correr, Ms. Cicogna 3044, Parte, cc. 24v ss.