II.2 - La vicenda della pubblicazione del Catalogo del Della Casa (1549)

Le prime preoccupazioni della Chiesa di Roma circa un uso illecito della stampa risalgono a ben prima della bufera sollevata da Lutero, ed esattamente al V Concilio lateranense e alla bolla Inter sollicitudines con la quale Leone X proibì la pubblicazione di opere prive dell’approvazione del vescovo: di li a poco, la Riforma sarebbe dilagata in tutta Europa, grazie appunto ai libelli polemisti che la tipografia era in grado di riprodurre, e Venezia, legata al continente da vie commerciali secolari, fu presto nell’occhio del ciclone219.

Tuttavia, solo gradualmente la chiesa si rese conto di quanto stava accadendo, anche perché, sino agl’inizi degli anni ‘40, e dunque fino a che non comparvero sulla scena i calvinisti, il clima di una possibile riconciliazione servì di fatto a confondere i termini del problema. Sebbene a Venezia le opere del riformatore di Wittenberg fecero precocemente ingresso, negli anni ‘20 e ‘30 del Cinquecento si riuscì solamente ad instaurare un controllo preventivo in gran parte nominale.

Nel 1527 i Dieci regolarizzarono la procedura che prevedeva la necessità di ottenere il loro imprimatur prima della concessione del privilegio da parte del Senato. Ma in realtà, mancando i mezzi per costringere gli stampatori, la stragrande maggioranza dei testi fu pubblicata senza né l’imprimatur né il privilegio.

Durante il terzo decennio la Repubblica fece ben pochi sforzi, per non dire nessuno, di impedire l’ingresso nel suo territorio delle opere dei riformatori d’oltralpe, che circolarono liberamente: nulla pareva in grado di arrestare il flusso dei libri protestanti che arrivavano in laguna nascosti tra le balle di lana, indumenti e altre merci. Furono i clamorosi eventi del 1541 e 1542 – il fallimento dei colloqui di Ratisbona, la morte di Gasparo Contarini, l’istituzione dell’Inquisizione romana, l’apostasia di Bernardino Ochino, Celio Secondo Curione e Pier Martire Vermigli – a segnare una profonda cesura nella storia religiosa italiana.

Debitamente pungolato da Roma, anche il governo veneziano si mosse finalmente contro gli scritti degli apostati, e così il 12 febbraio 1543 il Consiglio dei Dieci ordinò agli Esecutori contro la bestemmia di punire i tipografi disobbedienti che, in spregio alle precedenti disposizioni, stampavano e vendevano senza licenza una quantità di libri offensivi della morale, di Dio e della fede cattolica. La revisione delle opere di autori antichi o contemporanei, già pronte per la stampa, era invece affidata ai Riformatori dello Studio di Padova. Quattro anni dopo, nel maggio del 1547 il Consiglio dei Dieci si occupò anche degl’importatori dei libri ereticali, minacciando ammende e, nel contempo, accordando la giurisdizione su tali casi agli Esecutori e al Sant’Uffizio, nel frattempo riorganizzatosi. Se anche durante gli anni Quaranta un’attiva propaganda protestante ed un’ampia circolazione di letteratura ereticale s’erano svolte praticamente indisturbate, dopo la sua riorganizzazione, l’Inquisizione cominciò a confiscare e bruciare libri. Con la creazione di una nuova magistratura, i Tre Savi sopra l’eresia, resa esecutiva da un bando del 18 luglio del 1548, la Repubblica autorizzava in pratica il Sant’Uffizio a ricercare e a distruggere i libri eterodossi, definiti nei termini più vaghi. Com’era prevedibile, il provvedimento allarmò non poco i librai, che, pochi giorni dopo, tramite il loro portavoce Tommaso Giunti, presentarono una supplica – o piuttosto un’accorata e vibrante protesta - in cui, mentre si chiedevano spiegazioni, si criticava la parte del Consiglio dei Dieci, dal punto di vista umanistico della tolleranza per gli autori di religione diversa dalla cattolica, e del timore per la minaccia che la censura rappresentava per la cultura. Sottolineando l’estrema vaghezza delle nuove disposizioni, i librai speravano evidentemente di convincere il governo a non applicarle che nel caso di scritti notoriamente ereticali. Riuscirono nel loro intento: la parte fu dimenticata e il Santo Uffizio continuò a condurre indagini su scala limitata ogni qual volta riceveva una denuncia220

Ma il Consiglio dei Dieci rispose presto alle obiezioni dei librai e, con decreto del 16 gennaio 1549 ordinava ai deputati laici dell’Inquisizione di redigere un catalogo particolareggiato degli autori e dei libri interdetti a Venezia, e in tutto il territorio della Repubblica. Il primo Indice veneziano sarebbe stato poi distribuito a tutti i librai della città, promulgato in tutto il Dominio e messo in vendita nelle librerie. Compilato dall’inquisitore, dal nunzio e dai Tre Savi sopra l’eresia, sentito il parere di “molti maestri in Theologia”, il Catalogo, “o summario de tutti i libri heretici et de altri suspetti et de altri etiam nelli quali se contengono cose contra li boni costumi”, come viene definito nella parte del Consiglio dei Dieci, fu dai tre membri affidato, con privilegio, a Vincenzo Valgrisi, che lo mise in stampa il 7 maggio 1549221.

Questo catalogo é un documento di grande importanza storica, perché si tratta del primo indice italiano dei libri proibiti fatto stampare dall’autorità laica a Venezia, dieci anni prima di quello romano di Paolo IV. Promosso dal nunzio Giovanni Della Casa, esso é, materialmente, un opuscoletto in ottavo, di sei fogli non numerati, che reca il titolo Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come heretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia et in tutto l’illustrissimo dominio Vinitiano, sì da mare come da terra, composto dal reverendo padre, maestro Marino Vinitiano [...] Inquisitore dell’heretica pravità [...]; d’ordine e comissione del Reverendissimo Monsignor Giovanni Della Casa [...]. In esso figuravano tutti gli scritti dei principali “heretici et heresiarchi”: Lutero, Bucero, Melantone, Zwingli, Ecolampadio, Ochino, Vermigli, insieme al De Trinitatis erroribus di Servet, al Beneficio di Cristo di Benedetto Fontanini, all’Alphabeto Christiano del Valdes, il Pasquino in estasi del Curione.

Anche se stampato in perfetta conformità alle norme impartite agl’inquisitori dal Consiglio dei Dieci, per divenire operante a tutti gli effetti, il catalogo doveva essere prima approvato in Senato, dove invece trovò la ferma opposizione dell’ala intransigente del patriziato veneziano, quella cosiddetta dei “giovani” (di cui il futuro doge Nicolò da Ponte era il membro più rappresentativo ed influente), più radicata ai principi dell’autonomia incondizionata della Repubblica dalla Chiesa di Roma.

Alla fine del giugno 1549 il Catalogo fu dunque abrogato ed é più che verisimile che le autorità veneziane ne abbiano ordinato anche la distruzione degli esemplari, se ne é pervenuto un solo esemplare, conservato ora alla Biblioteca Nazionale Marciana.

Notes
219.

Cfr. De Frede 1963-64, pp. 87-91 e Caponetto 1992. La bibliografia sulla diffusione delle dottrine ereticali a Venezia é smisurata, cfr. Pommier 1957 e 1959; Del Col 1978, Ambrosini 1990 e 1999, Seidel Menchi 1990 e Martin 1993, cui si aggiunga S. Peyronel Rambaldi, Tra “dialoghi” letterari e “ridotti” eterodossi; framenti di cultura del patriziato veneto nel Cinquecento, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi a cura di L. Antonielli, C. Capra, M. Infelise, Milano, 2000, pp. 182-209. Per quanto riguarda invece più specificatamente la diffusione della stampa riformata e i provvedimenti censorei, oltre naturalmente a Sforza 1935, De Frede 1969 e Grendler 1983, base della ricostruzione di tutte le vicende che seguono, cfr. anche Del Col 1980 e 1991-92; Cavazza 1987, Olivieri 1992 e Rozzo 1993.

220.

Cfr. Brown 1891; Sforza 1935; Grendler 1983, pp. 132-134; Jacoviello 1993.

221.

Cfr. De Bujanda 1987, pp. 41-50 e 69-83.