Mentre si stampavano e si revocavano gl’indici, capi di conventicole e semplici curiosi potevano trovare a Venezia un vasto assortimento di libri ereticali. La letteratura protestante, proveniente dal Nord, entrava in città per varie vie e vi veniva distribuita da simpatizzanti della Riforma e librai compiacenti. Coloro che erano coinvolti come Vincenzo in questo traffico, non potevano più, come in passato, condurre la loro attività alla luce del sole, ma riuscivano ancora a portarla avanti clandestinamente. Nonostante non si possano avere dati certi, si può pensare che tra il 1550 e il 1565 il commercio dei libri proibiti si mantenesse, soprattutto a Venezia, ancora fiorente: i contrabbandieri – era il loro vantaggio fondamentale – avevano avuto parecchi anni per studiare e metter in opera le loro reti clandestine, prima che la Chiesa e lo Stato tentassero di fermarli. Durante l’intero arco degl’anni Cinquanta, e ancora all’inizio del decennio successivo, il Sant’Uffizio di Venezia non aveva fatto granché: gli mancava la facoltà di controllare il commercio librario e solo dalla metà degli anni Settanta cominciò ad interrogare gli eretici veneziani con il preciso intento di sapere di più sul contrabbando della letteratura ereticale. Fino ad allora era stato costretto a dipendere dalle denunce riguardanti attività clandestine, ma senz’altro i traffici illeciti erano più estesi di quanto non venisse alla luce. Ad accogliere i libri protestanti a Venezia, e a scambiarseli, c’erano vari gruppi legate da reciproci rapporti, che attiravano membri di tutti gli strati sociali: precettori dei rampolli del patriziato, avvocati e giuristi usciti dallo studio di Padova, giovani nobili col diritto di sedere in Maggior Consiglio e bastardi che della nobiltà avevano solo il nome, mercanti locali e stranieri, soprattutto i tedeschi del Fontego, che spesso avevano a loro volta scorte di libri da dispensare, ma anche gioiellieri, modesti dettaglianti, droghieri, ambulanti.
Revocato l’Indice del 1554-55, il Sant’Uffizio di Venezia fu costretto a ricorrere a singoli decreti, soprattutto dopo la nomina ad inquisitore, nel gennaio del 1557, di fra Felice Peretti da Montalto, francescano conventuale e riformatore zelante, futuro papa Sisto V. Il 22 giugno 1557 l’Inquisizione proibì d’autorità lo smercio dei Colloquia di Erasmo e del Mercurio e Caronte del Valdés. Il 22 agosto del 1558 fu vietata la stampa della Bibbia in una qualsiasi lingua volgare. Il 9 febbraio dello stesso anno il Sant’Uffizio aveva inoltre decretato che chiunque importasse libri, dovesse depositarne un inventario presso il tribunale prima dello sdoganamento. Intanto a Roma una commissione aveva cominciato a lavorare intorno ad un nuovo Indice già dal 1556, ma la guerra di Paolo IV contro la Spagna doveva rimandarne il compimento fino al dicembre del 1558223.
Nel gennaio del 1559 il nuovo Indice fu promulgato e stampato. Rispetto a quello precedente, vi erano condannati sempre più titoli, e quasi il doppio, ben 550, erano gli autori di cui si bandiva l’opera omnia, tra cui Erasmo e Savonarola. Era senza dubbio il primo a manifestare l’integralismo tipico della Controriforma – era il primo, inoltre, ad essere stato promulgato inequivocabilmente dal pontefice - ed allargava di molto le proibizioni nel campo della letteratura volgare. Senza precedenti era il bando di autori e scritti non già ereticali, ma che venivano giudicati anticuriali, offensivi della morale, lascivi o osceni: tra questi l’Aretino, il Machiavelli, Rabelais, del Decameron del Boccaccio si ordinava l’espurgazione. Tra le maggiori novità, una lista di circa sessanta editori, in gran parte stampatori tedeschi o svizzeri, ma anche il veneziano Francesco Brucioli, la cui produzione era interamente proibita, e la condanna di tutte le opere anonime, manuali di magia e negromanzia e tutti i libri privi degl’imprimatur diocesano e inquisitoriale.
Il 31 dicembre una copia manoscritta dell’Indice fu inviata all’inquisitore di Venezia perché vi fosse pubblicato, accompagnata da istruzioni dettagliate: i librai avrebbero dovuto presentare al Sant’Uffizio l’inventario dei volumi del loro magazzino ed attendere il permesso per vendere i titoli che necessitavano correzioni; i confessori erano tenuti da quel momento a rifiutare l’assoluzione ai possessori di libri proibiti. I librai questa volta erano di fronte ad una grave minaccia: se il Sant’Uffizio poteva costringerli a presentare l’inventario, ciò significava che avrebbe avuto per la prima volta libero accesso alle loro botteghe, e l’immenso ascendente spirituale dei confessori si sarebbe abbattuto, all’occorrenza, sui veneziani di qualsiasi estrazione sociale. Prontamente riunitisi, i librai decisero di ignorare l’Indice, per evitare perdite disastrose e nella speranza di forzare la Sede Apostolica a modificarlo, e non furono risparmiate pressioni sui membri dell’arte, che doveva costitire un fronte compatto. Richiamati per ben due volte all’obbedienza dall’Inquisizione, i librai non si rassegnarono a stampare l’Indice, né presentarono inventari. Sulle prime il governo diede loro una mano temporeggiando: non intendeva costringerli ad obbedire, ma non poteva neppure respingere l’Indice. Nonostante il braccio di ferro, il destino dei librai era segnato.
La Sede Apostolica fece leva sulla sua autorità spirituale per sollecitare dai veneziani un certo grado di spontanea obbedienza alle nuove disposizioni, ma i librai, sostenuti dal governo, avrebbero continuato a far resistenza se il pontefice non fosse ricorso a più gravi sanzioni, cominciando a confiscare gli stock delle librerie veneziane nello Stato pontificio ed impedendo ai librai della Serenissima di partecipare alle fiere librarie che si tenevano nei suoi territori.
Nell’aprile il fronte dei librai cominciò a disgregarsi: il primo del mese Zaccaria Zenaro sottopose al Sant’Uffizio l’inventario di tre casse di libri proibiti e scrisse ai suoi agenti di far altrettanto per le botteghe sue o che teneva in gestione. La defezione suscitò lo sdegno di Marchiorre Sessa, uno dei priori dell’arte. Le stesse censure, s’attirò anche Vincenzo, che consegnò l’inventario richiesto nell’aprile o all’inizio di maggio, ma che purtroppo non ci é pervenuto. Lo afferma lui stesso durante gli atti del processo che ne seguì:
‘“me son subtratto da la prattica de altri librai, quali per questa obedientia non mi parlano e da li suddetti librari ne son stato pur assai biasimato”224. ’Dallo stesso documento veniamo a sapere che tra la fine di marzo e l’inizio dell’aprile precedenti, i membri dell’arte, riuniti nalla bottega del Giunta, avevano stilato una lettera in cui chiedevano al comune di Foligno dei salvacondotti per partecipare alla fiera cittadina, ma non ne conosciamo la risposta. Vincenzo inoltre vi dichiara di “tener botega de libraro in Venetia [...] [da] 27 in 28 anni” e di possedere “botega in Bologna, a Macerata, a Fuligno, a Recanati, a Lanzano et a Padova et una a Franchiore in Alemagna”. Tra gennaio e febbraio, poi, era stato obbligato dal medesimo tribunale, a levare dalla sua insegna il riferimento - fortuito o voluto - al nome di Erasmo per adottare quella del Tau.
Tra giugno e luglio altri librai, tra cui Giordano Ziletti, presentarono inventari e libri proibiti e il governo veneziano si rassegnò da ultimo ad accettare l’Indice e ad autorizzarne la pubblicazione e la stampa veneziana, questa volta per i tipi di Gerolamo Giglio, con data 21 luglio 1559. Forte dell’Indice, il Sant’Uffizio condannò l’11 agosto lo Zenaro, il Valgrisi, il Bosello, il Valvassori e il Varisco a preghiere ed elemosine.
La sentenza in effetti fu mite: Vincenzo fu obbligato per un anno a
‘“ogni venere visitar lo spedal de li incurabili et metter una elemosina in la cassa de la fabricha che parerà a lui” ’oltre a rosari, comunioni e confessioni.
Chi ancora resisteva comprese che la battaglia era perduta: tre giorni dopo i Giunta, il Giolito, il Tramezzino, il Sessa ed altri priori dell’arte si presentarono spontaneamente davanti al tribunale con gli inventari e consegnarono da mezza a dieci casse per un totale di 21, di libri proibiti, in gran parte usciti dalle stamperie dell’Europa settentrionale.
Ibidem, pp. 159-168.
ASV, SU, b. 14, cfr. Appendice 1 e Sforza 1935, p. 176.