II.5 - Il processo del 1570

Negli anni Sessanta del Cinquecento, dopo anni e anni d’incertezze, si stava preparando in Italia un vero e proprio revival cattolico, unitario, dagli scopi e dai mezzi ben definiti. Con la pace di Cateau-Cambrésis, liberi finalmente dall’incubo imperiale, i padri del concilio di Trento completarono nel 1562-63 il loro lavoro, emanando una serie di disposizioni dottrinali e di capitoli di riforma, mentre Pio IV e Pio V perseguirono con pari dedizione il rinnovamento della Chiesa.

Fu un periodo difficile per Venezia: più zelante ma preoccupata, combatteva in casa, eretici ed ebrei, fuori, il Turco, ma il mondo cattolico non aveva ancora un indice autorevole a farle da guida nella lotta contro l’eterodossia, dal momento che quello paolino era praticamente morto insieme al suo propugnatore, alla fine del 1559. La soluzione non tardò ad arrivare: il cosiddetto Indice tridentino fu promulgato da Pio IV nella primavera del 1564, e nello stesso anno stampato a Venezia dalla tipografia aldina. Esso conteneva, in altra forma, le regole per la censura predisposte dalla commissione conciliare, che riuscirono a mitigare la durezza di quello paolino. Ora vescovi ed inquisitori avevano facoltà di autorizzare la lettura degli scritti di argomento non religioso degli altri protestanti (regola II) e all’assoluta proibizione si sostituiva la lettura previa espurgazione. La censura preventiva impediva che venissero pubblicati a Venezia dei titoli messi all’Indice, non già che entrassero in città libri proibiti stampati all’estero. Duplice preoccupazione di Roma e del Sant’Uffizio veneziano divenne quindi prevenire il contrabbando e distruggere i volumi già nelle librerie. Con le sue sole forze, l’Inquisizione non era in grado di far fronte alla penetrazione dei libri stranieri: l’obbligo imposto ai librai nel 1558 di presentare inventari di tutti i volumi d’importazione non aveva avuto effetto alcuno, dato che non c’era modo di verificare la sincerità e la completezza degli elenchi.

Dal 1567, per di più, tipografi dell’Europa settentrionale - e come vedremo, non solo loro - avevano cominciato ad anteporre agli scritti dei protestanti falsi frontespizi e sommari dall’apparenza innocente. La decima regola dell’Indice tridentino suggeriva, in questi casi, due tipi d’intervento: il controllo alla dogana, ad opera dell’inquisitore, dei volumi importati, e l’ispezione nelle botteghe dei librai. Per piazzare un ufficiale dell’Inquisizione alla dogana mancava però il consenso della Repubblica, e quindi la scoperta e la distruzione dei libri proibiti stranieri continuavano a dipendere dal caso, dalle denunce e dalla spontanea collaborazione dei librai. Le perorazioni del nunzio, in un momento in cui la classe dirigente er aquanto mai sensibile ai pericoli dell’eresia, finirono tuttavia per smuovere il governo.

Con una legge generale emanata il 28 giugno 1569, il Consiglio dei Dieci istituì un sistema in cui lo stato e la Chiesa avrebbero collaborato, come nel controllo preventivo dei manoscritti: chiunque avesse voluto vendere o comunque disporre di libri nuovi stampati all’estero, avrebbe dovuto ottenere un certificato d’approvazione dai Riformatori dello Studio di Padova. S’introduceva inoltre il tanto sospirato controllo doganale e i libri venivano molto probabilmente trattenuti in deposito fino all’autorizzazione alla vendita. Ma se il controllo doganale non pesentava poi grosse difficoltà, il vero problema restavano i libri stranieri già nelle botteghe.

Fu così che la Repubblica, per la prima volta dall’inizio di questa lunga battaglia tra stampa e censura, autorizzò l’Inquisizione a compiere visite a sorpresa nelle librerie, con una decisione che è indice eloquente della preoccupazione del patriziato di fronte alla letteratura ereticale. Il Sant’Uffizio scelse dai conventi veneziani circa cinquanta tra frati e monaci esperti di greco, d’ebraico, di storia, diritto, filosofia e teologia e, tra il luglio e l’agosto del 1570 li inviò a coppie nelle botteghe. Indice alla mano, essi dovevano percorrere con lo sguardo gli scaffali, prendendo nota dei titoli e sequestrare quelli proibiti. Questa volta i librai furono colti alla sprovvista e molti vennero sorpresi con titoli proibiti, stranieri e nazionali.

Ai primi di settembre il Sant’Uffizio ordinò di dare alle fiamme pubblicamente, in piazza San Marco, alcuni volumi sequestrati. Sottopose quindi ad interrogatorio, nel corso di un processo che durò più di un anno, ventotto librai “fuorilegge”, a cominciare proprio da Vincenzo, nel cui magazzino a San Zanipolo, erano stati ritrovati la bellezza di 1277 volumi proibiti, un vero capitale messo a rischio225.

Tra di essi vi erano anche oltre 400 copie dei Simolachri, historie et figure della morte (ovvero la Medicina dell’anima di Urbanus Rhegius, accompagnata dalle copie della serie della Danza macabra di Holbein, un’edizione pirata di un prodotto editoriale lionese) “libro piccolo et di poco pretio et de gran domanda” da lui stesso pubblicato nel 1545 con regolare privilegio, e di cui 300 occultate sotto la copertina il falso titolo delle Epistole di Cicerone

‘“per sfuggir scandoli, acciò che i miei fioli non sapessero che cosa fusse e che non li potessero metter le mani sopra e venderli, perchè i puti cercano danari per delle pazzie”226. ’

Fu soprattutto a riguardo delle edizioni di questo piccolo gioiello tipografico che gl’inquisitori torchiarono Vincenzo, ma tra gli altri titoli proibiti vi era anche la traduzione dei Colloquia erasmiani, anch’essa pubblicata “dalla bottega d’Erasmo” nel 1545, opere dell’Aretino, del Macchiavelli, l’Alphabeto Christiano del Valdés, il Decameron, i Dialoghi dell’Ochino e numerosi tomi francesi e tedeschi messi all’Indice.

L’interrogatorio del Valgrisi ci fornisce interessanti informazioni circa titoli, modalità e luoghi del commercio del libro proibito a Venezia, ma é soprattutto particolarmente spassoso.

Dando prova di essersi perfettamente naturalizzato nella sua patria d’adozione, e con un’esperienza più che quarantennale alle spalle (l’affaire di Jean risaliva al 1527 !), l’ormai attempato Vincenzo dà prova di grandi qualità istrioniche, perorando la causa della sua numerosa famiglia che avrebbe gravemente sofferto della distruzione di tutto quel ben di Dio - é il caso di dirlo - e, come abbiamo visto, adducendo testimonianze a riprova della sua ortodossia, fornite dal piovano della sua parrochia e dai compari della Scuola del SS. Sacramento.

Ebbe persino la faccia tosta di mettersi a contrattare sulla multa di cinquanta ducati affibiatagli oltre alla penitenza: gettatosi

‘“con li genochi in terra, et con le lagrime agli occhi supplico le loro Signorie che dovessero haver pietà alla sua povertà, et disgratie infinite, che in breve tempo ha havute”’

e gli fu ridotta a venti.

Notes
225.

Cfr. Sforza 1935, pp. 179-186; De Frede 1969, pp. 39-47; Grendler 1983, pp. 235-238. I documenti relativi al processo sono trascritti interamente in Appendice I.

226.

Cfr. scheda 2.