Il dialogo con la xilografia nordica: Dürer, i libri di modelli, Holbein

Il dialogo artistico tra Venezia e il Nord dell’Europa, in primis la Germania, trovò nella stampa uno dei suoi veicoli privilegiati: i tedeschi vi erano stati i pionieri dell’arte del libro - della stampa come dell’illustrazione, miniata o incisa - e fin dall’introduzione delle nuove tecniche incisorie, gli artisti veneti si dimostrarono sensibili alle conquiste d’Oltralpe301. Ma anche in seguito, ben dopo che la produzione era passata in mano ad officine autoctone, i libri usciti dai torchi del Nord continuarono a circolare e ad essere fortemente ricercati302.

L’impatto della grafica tedesca sull’arte italiana é stato finora studiato prendendo in considerazione quasi esclusivamente le incisioni su fogli sciolti, ma visto il consistente flusso editoriale che penetrava in Italia - e a Venezia in particolare - dalla Svizzera e dalla Germania, e considerando l’altissima qualità dell’illustrazione libraria d’oltralpe, un ragguardevole numero d’immagini “todesche” fra le pagine dei libri – sia che essi fossero pubblicati a Nord delle Alpi o nel nostro paese - e fino ad ora mai o solo puntualmente considerate, era entrato a far parte del patrimonio visivo comune proponendosi, alla stregua degli esempi delle arti maggiori e delle incisioni su fogli sciolti, come fonti disponibili per gli artisti veneziani – e italiani – contemporanei303.

Gli artisti tedeschi disegnarono, intagliarono, incisero, e, soprattutto, esportarono in centinaia di esemplari e di varianti, gli episodi legati alla Passione, cui erano particolarmente sensibili, ma anche, naturalmente, gli interi cicli iconografici della vita di Cristo e della Vergine304.

Uno dei “luoghi librari” che predilesse il riutilizzo di queste stampe tedesche a soggetto religioso fu quello dei Messali: fra le più di trecento edizioni di questo genere di uso praticamente quotidiano che vennero stampate in Italia fra XV e XVI secolo, molte sono quelle decorate con xilografie di derivazione nordica305. Questa iniezione di arte forestiera in testi liturgici italiani era favorita, oltre, chiaramente, dal coinvolgimento di editori e stampatori stranieri, anche dall’anarchia in cui versò l’Ordinarum Missae e l’eucologia eucaristica fino alle riforme attuate dal Concilio di Trento: oltre ai Messali principali – che seguivano i riti ambrosiano e mozarabico – circolavano infatti varianti che rispondevano agli innumerevoli riti diocesani e monastici locali, facendo sì che a Venezia si stampassero contemporaneamente le Horae e Messali di Colonia, Salisburgo, Parigi, e via dicendo, corredati spesso da apparati iconografici importati dalle officine d’origine degli stampatori306.

Il caso più noto e fortunato di queste serie grafiche in Italia é sicuramente rappresentato dalla Vita della Vergine di Albrecht Dürer, di cui una parte fu tradotta a bulino dal bolognese Marcantonio Raimondi per gli editori veneziani Domenico e Nicolò de Jesu307.

Senz’alcun ombra di dubbio, la forza plastica e la vitalità del ductus düreriano dovettero rappresentare anche per gli artisti veneziani del libro un indiscusso punto di riferimento : esso offriva loro la possibilità di appropriarsi attraverso un’interpretazione tecnica di livello qualitativo altissimo, dei dati coloristici e chiaroscurali così cari alla loro tradizione pittorica. La xilografia veneziana, fino ad allora basata su di una linea di contorno piuttosto rigida, acquistò la qualità dinamica dei tagli elastici e prolungati delle opere a bulino e, forte delle ombreggiature realizzate tramite il sapiente gioco del tratteggio parallelo o incrociato, non ebbe più paura di rivaleggiare, con le raffinate soluzioni offerte dalla calcografia308.

Se la fama dell’artista tedesco doveva già essere grande al tempo del suo secondo viaggio nella penisola (1505-7), la divulgazione della sua opera grafica dovette assistere ad una notevole accelerazione dopo il 1511, in seguito ad un’eccezionale impresa editoriale concertata dallo stesso artista, che si rivelò anche come la più moderna operazione autopromozionale mai realizzata da un artista: fu in quell’anno, infatti, che Dürer raccolse e ripubblicò in quattro libri i cicli d’incisioni che aveva eseguito dal 1496 fino ad allora: l’Apocalisse di San Giovanni, la Grande Passione, la Vita della Vergine e la Piccola Passione. I primi libri della storia concepiti, illustrati, stampati e finanziati per volere di una stessa persona, furono strutturati dal loro autore in modo assai innovativo rispetto alla corrente produzione libraria: Dürer volle infatti che il testo – redatto in tutti e quattro i casi da Benedictus Chelidonius, (Benedict Schwalbe) monaco benedettino del convento di Sant’Egidio a Norimberga – fosse ridotto al minimo, e stampato sul retro delle immagini, che risultavano così libere di essere le protagoniste non più tanto di un libro, quanto di un vero e proprio pionieristico album309.

Consapevole dell’innovazione che rappresentavano queste pubblicazioni nel mercato editoriale contemporaneo, Dürer – per la prima volta nella sua carriera – richiese un privilegio a Massimiliano I per salvaguardare la sua opera, e il suo guadagno, dai falsari. Anche questa volta, l’artista mobilitò i venditori ambulanti con i quali già da tempo aveva stipulato contratti per la distribuzione delle proprie opere grafiche, e ne affidò, come al solito, la vendita diretta alla madre e alla moglie, pellegrine nelle fiere e nei mercati della bassa Germania.

Ben presto, grazie a questa ben collaudata organizzazione commerciale, una nuova ondata di citazioni düreriane rese più espressionistici e patetici sia i fogli sciolti, che – e sono quelli che più ci interessano – rilegati tra le pagine dei libri, incisi da un capo all’altro d’Italia: da Roma, già a quell’epoca principale centro di produzione delle stampe di traduzione, a Venezia, capitale dell’editoria310.

Qui, l’intero ciclo dell’Apocalisse venne riprodotto, con alcune varianti, nell’Apocalypsis Iesu Christi pubblicata da Alessandro Paganino, accompagnato dalla traduzione quattrocentesca in volgare del frate predicatore Federico veneto: nel 1515 uscì il primo volume con il testo, nel 1516 il secondo con quindici xilografie e il frontespizio311. Questo episodio editoriale, assai significativo per la storia del gusto e della ricezione di motivi stilistici stranieri non solo a Venezia, ma in tutta Italia, é ancora più importante se si accoglie l’ipotesi di intravvedere, nelle sue pagine migliori, gli esordi del giovane Domenico Campagnola: nelle incisioni che gli sono attribuite, l’intelligenza nella rielaborazione del prototipo düreriano e la sicurezza nell’utilizzo del medium tecnico, lo distinguono nettamente dal prolifico ma a volte scadente Zoan Andrea, che firma, con Matteo Pagano da Treviso, le altre tavole312.

A Roma, verso la metà del secondo decennio, Marcantonio Raimondi si cimentò per la seconda volta nella riproduzione dell’opera del collega tedesco, traducendo di sua mano la Piccola Passione, la serie più ampia – 37 xilografie - licenziata dal maestro di Norimberga e, a giudicare dalle reimpressioni, la sua più nota durante tutto il Cinquecento313.

Essa ispira ancora direttamente una buona parte del corredo illustrativo dell’Opera nova contemplativa, una Biblia Pauperum stampata a Venezia da Giovanandrea Valvassore ricalcata, sebbene su formato ridotto, su di un libro xilografico fiammingo stampato intorno al 1460, arricchito, appunto, delle copie, in verità piuttosto rozze, della serie düreriana314 [Fig.1].

Il nome del Valvassore, ci offre lo spunto per citare un altro fondamentale canale di diffusione a stampa di modelli nordici. In questo caso, tra l’altro, l’uso del termine “modello”, non potrebbe essere più appropriato: si tratta infatti di quelle raccolte di motivi ornamentali - di quei libri di modelli, appunto - che, sorta di mise en abyme, di elevamento al quadrato, del potenziale già di per se insito nel libro illustrato come veicolo iconografico di cui si é già avuta occasione di parlare, spesso assemblavano fonti figurative di svariata provenienza a favore di diverse categorie di artigianato non specialistico, in particolare quello legato alle tecniche del ricamo e del pizzo ad ago, e, successivamente a fuselli, ma anche ad artigiani esperti nella lavorazione del vetro e dei metalli preziosi, soprattutto agl’orafi315.

Per quanto riguarda l’oreficeria, però, é interessante notare che, nonostante sia fuor di dubbio che l’Italia del Cinquecento fosse più di ogni altro paese il più ricco di orafi, intagliatori di pietre dure, di gioiellieri, e che da essa si sia diffuso il gusto “all’antica”, tuttavia, fatta eccezione per gli ultimi modelli di Pellegrino da Cesena editi nei primissimi anni del secolo, non si trovano raccolte di questo genere pubblicate in Italia. La ragione di questo fenomeno va apparentemente ricercata nell’organizzazione del mercato editoriale : i grandi centri di edizione di questo genere di “manuali professionali” sono in Germania, nelle Fiandre, a Lione, ed evidentemente in Italia venivano venduti, e utilizzati, i modelli oltramontani316.

Arabeschi e modelli di nastri intrecciati, queste decorazioni rappresentavano la naturale evoluzione delle cornici e delle iniziali miniate nei manoscritti, poi incise negli incunaboli, che a loro volta erano il risultato dello sviluppo di suggestioni aniconiche medievali ispano-moresche e gotiche: le incisioni che comparivano nei prodotti di questo genere editoriale non furono dunque mai invenzioni nuove, ma rispecchiarono sempre un gusto ormai ben acquisito per il motivo decorativo rappresentato317.

Il primo libro italiano di incisioni di modelli destinati al pubblico degli artigiani del pizzo e del ricamo, l’Essempio di recammi di Giovanni Antonio Tagliente, pubblicato a Venezia nel 1527, fu infatti una copia, sebbene parziale, dei primi equivalenti e coevi tedeschi: il Fum-oder Modelbuchlein pubblicato nel 1524 ad Augusta e poi a Zwickau presso l’editore e stampatore (sia di libri che - si noti - di tessuti) Johann Schonsperger, e l’Eyn new kunstlich Boich, stampato a Colonia da Peter Quentell, anch’esso nel 1527318. Con il suo libro, il Tagliente si proponeva due scopi strettamente correlati: la deformazione professionale che gli derivava dalla sua lunga carriera come maestro, lo faceva rivolgere ai principianti, per insegnare loro a disegnare, ma nel contempo si prefiggeva di creare un campionario di modelli figurativi utili non solo all’industria tessile ma anche ad altri settori artigianali319 [Fig.2].

Anche il Valvassori é l’autore – e l’editore – di alcune di queste raccolte di modelli, tra cui l’Opera nuova universale intitulata corona di ricami, un block-book non datato, ma sicuramente stampato fra il 1529 e il 1530 [Fig.3] 320. Già il frontespizio parla della familiarità che il Valvassori doveva avere con la grafica nordica: il lungo testo intagliato nella matrice insieme alla decorazione, é infatti incorniciato da due candelabre copiate rispettivamente da incisioni su fogli sciolti di Barthel Beham e del monogrammista olandese “GJ”321.

Anche in questo caso, la svariata molteplicità delle provenienze cerca di rispondere alle diverse esigenze artigiane, e così, ai modelli fiamminghi si alternano, senza gerarchie di sorta, animali ed arabeschi tratti dall’opera del Tagliente, prove grafiche del Maestro “F”, un artista attivo nel terzo decennio nell’Italia settentrionale e una bordura decorativa - tratta dal libro del Quentel, e già ripresa a Venezia in un’edizione dello Zoppino – eseguita nel cosiddetto “punto Holbein”, che in realtà non definiva altro che la partitura geometrica dei tappeti anatolici, riprodotti, come quelli persiani e caucasici, in tante opere del Rinascimento italiano322.

Di Holbein, se non il millantato “punto”, il Valvassori doveva comunque conoscere bene almeno il tratto, se ne aveva copiato la cornice con la raffigurazione della Tavola Cebetis, concepito originariamente per il frontespizio del Novum Testamentum Erasmi, pubblicato da Froben, a Basilea nel 1522323.

E in effetti, ben prima della comparsa delle Figure della morte ad opera del Valgrisi, l’opera grafica di Holbein doveva essere ben nota in Laguna.

I canali di penetrazione della stampa tedesca in Italia erano d’altronde molteplici: in primo luogo, chiaramente, commerciali, ma anche - più o meno direttamente - culturali e politico-religiosi.

Pellegrini, viaggiatori, studenti, diplomatici, commercianti, artisti erranti, intellettuali, religiosi e persino mercenari in cerca di guerra per poter campare, tutti attraversavano in lungo e in largo la penisola, diventando così artefici di scambi culturali determinati, oltre che dalle esperienze e dagli incontri, soprattutto dai supporti - dei testi come delle immagini - che portavano con se: manoscritti, libri, lettere, relazioni, guide, stampe, volantini, disegni, incisioni. Insieme alle nuove idee e dottrine, questi ultimi diffusero inevitabilmente nuovi dubbi, ma .in alcuni casi, anche nuove iconografie : molti furono infatti gli artisti - Dürer, Hans Burgkmair, Urs Graf, Manuel Deutsch o lo stesso Holbein - che per mantenersi durante il viaggio iniziatico in Italia (e, come insegnavano ancora i nostri nonni, per ripararsi meglio dal freddo...), dovevano essersi foderati la giubba con i fogli disegnati in proprio o da altri e incisi a Norimberga, Basilea, Wittemberg, per barattarli poi con l’oste della locanda presso cui sostavano o per lasciarli ai colleghi meridionali in ricordo del loro incontro e a testimoni della loro arte324.

E tutto questo avveniva anche e soprattutto a Venezia, una delle più grandi città d’Europa, sede del Fondaco dei Tedeschi, leader dell’editoria europea, porto d’imbarco per Gerusalemme, importantissimo polo commerciale, economico, culturale, artistico, che, agl’occhi dei nordici soglia d’Italia come porta del Levante, sui banchi dei suoi ricchissimi mercati non offriva soltanto merci esotiche e splendidi manufatti ma anche nuove straordinarie idee ed invenzioni 325.

Certo, dagli anni della prima diffusione del passo misurato e “classico”, monumentale, dell’opera grafica düreriana alla “danza macabra” di Holbein, qualcosa era cambiato326.

Con il diffondersi della Riforma, che lo privilegiava come “mezzo di comunicazione di massa” nell’azione di apostolato della nuova fede, ergendolo a simbolo, oltre che a strumento, dello sforzo filologico volto alla ricostituzione del vero significato della parola divina, della cui corruzione si era macchiata la chiesa di Roma, il libro tipografico e le sue immagini acquistano un ruolo sempre più militante327.

E ciò é tanto più vero per l’Italia, dove, a causa delle convinzioni di fede spesso profondamente radicate, della situazione politica – con il Papato e la Curia Romana che esercitavano un’autorità indiscussa su tutti gli Stati della penisola, la condanna pontificia, rapida e totale, delle posizioni luterane - la diffusione dei nuovi fermenti e l’aggiornamento sui dibattiti in atto nel resto d’Europa, avvennero quasi esclusivamente attraverso edizioni straniere importate clandestinamente da città in cui fioriva la nuova fede, prima fra tutte Basilea328.

A supporto del messaggio trasmesso dal testo, e di una densità di significato ad esso non certamente inferiore, le illustrazioni che si ritrovano fra le pagine di queste edizioni - meno apertamente e violentemente polemiche dei fogli sciolti che caricaturavano il papa o la chiesa romana - non presentavano iconografie sacre di nuova creazione, ma attribuivano a quelle tradizionali, soprattutto tramite la diversa disposizione interna di personaggi e dettagli, una nuova carica semantica, che, per essere adeguatamente interpretata richiedeva, una lettura attenta e meditata, da cui scaturisse l’equivalente di una fervente arringa a favore della nuova fede329.

Queste incisioni “venute dal freddo”, inoltre, mettevano il pubblico meridionale a contatto con una nuovo modo di porsi di fronte all’illustrazione del racconto evangelico, con una diversa fruizione dell’ “icona”. Ce ne offre una testimonianza interessante, il Ruzante, che nutriva una viscerale antipatia verso tutti gli aspetti della germanità, considerando i tedeschi, in quanto invasori del Veneto, diretti responsabili delle Guerre d’Italia e del Sacco di Roma. Durante la Seconda Orazione in lode del neo cardinale Marco Cornaro, nello scenario del Barco, già sede degli eletti incontri fra la Regina di Cipro e il Bembo, il caustico Ruzante inveiva contro

‘“quel malvagio vendi-frottole di quel tedesco, Martinello da Liutolo. Ma lasci pure, che spero che, se egli suonerà il suo liuto, voi lo farete ballare ad un altro suono, lui e tutti quelli che gli vanno dietro, anche di questo paese [Padova, ndr], che ce ne sono assai che non si vogliono più confessare, che non fanno più veglie, che non vanno mai in chiesa e non guardano mai altre figure che quelle che sono sulle carte...”330

Se infatti la polemica iconoclasta era rivolta contro gl’idola, ovvero, dato il costante riferimento al vitello d’oro biblico, le sculture, la stampa, che nell’ottica riformata rappresentava appunto l’“illustrazione” del fatto evangelico, ne era esclusa, in quanto “antropomorfizzazione” del fatto divino, assumendo anzi un grande rilievo in funzione di quella strenua attività didattica di cui s’incaricarono tutti i seguaci della nuova dottrina.

Uno stretto rapporto con la carta stampata, dunque, per nuovi fedeli, che si allontanavano dal rutilante addobbo delle chiese per meditare, secondo i dettami che erano già quelli della devotio moderna, su poche immagini, severe ed essenziali nel loro asciutto e lineare monocromatismo, ma potenti ed esemplificative, evidenti come nero su bianco, dei simboli fondamentali della Riforma, prima fra tutti la centralità del Cristo e del suo esempio.

Sebbene sia quasi impossibile ricostruire la fortuna e la circolazione in Italia della grafica filoprotestante – polverizzata nella sua quasi totalità dalla furia tridentina diretta contro la produzione editoriale - lo studio della ricezione e della diffusione dell’opera a stampa di artisti impegnati a rappresentare il disagio (e il dissenso) religioso e sociale dei loro tempi, come Cranach e, appunto, Holbein può darci un’idea di come i lettori del tempo potessero appunto “guardare quelle carte”331.

Se é infatti noto che la letteratura religiosa cinquecentesca conobbe numerosi casi di libri “eterodossi” che ebbero tuttavia una notevole circolazione devozionale in quanto “ortodossi”, sotto le mentite spoglie di un titolo cambiato o di un nome censurato, allo stessa stregua dei testi, anche le immagini sono destinate a rinfrangersi, scomporsi e riaggregarsi all’infinito nella ricezione dei loro fruitori. Come si diceva, dunque, le idee eterodosse non andavano necessariamente visualizzate palesamente come tali - poiché quasi ogni immagine poteva in realtà fungere da supporto a un discorso eterodosso, soprattutto “in negativo” - ma si presupponeva, per la loro corretta lettura, almeno una semplice curiosità per il nuovo “verbo”, se non consapevoli scelte dottrinali332.

La ricezione italiana dell’arte grafica di Holbein, come d’altronde quella di molti altri artisti tedeschi, non é ancora stata studiata approfonditamente, ma alcuni libri pubblicati a Venezia registrano la conoscenza di almeno tre capolavori della sua attività di illustratore, rappresentando in sé altrettanti casi editoriali: le immagini dell’Apocalisse - che, a sua volta, Holbein derivò da quella di Cranach per il Nuovo Testamento tedesco di Lutero – e due cicli giunti significativamente in Laguna tramite edizioni lionesi: la serie di episodi tratti dall’Antico Testamento (le cosiddette Icones) e quella delle Figure della Morte che si fregiano della marca valgrisina333.

L’Apocalisse ci riporta in un contesto quanto mai significativo: l’edizione della Bibbia a cura di Antonio Brucioli, stampata a Venezia nel 1532 da Lucantonio Giunta, la prima traduzione italiana non basata sul testo della Vulgata, destinata nei successivi decenni ad alimentare l’identità dottrinale e la vita religiosa dei gruppi e movimenti ereticali pullulanti in ogni citta d’Italia334.

Quest’opera ha goduto degli onori della ribalta nell’attualità degli studi storico-artistici grazie all’iniziativa attributiva di Giovanni Romano, che ha proposto di riconoscere in Lorenzo Lotto l’autore del disegno del frontespizio del Nuovo Testamento, e da allora é stata fatta oggetto di numerosi quanto autorevoli contributi, centrati soprattutto a dimostrare o a smentire la presunta eterodossia del pittore veneziano335 [Fig.3].

Senza voler entrare nel merito né dell’attribuzione, né dell’interpretazione del frontespizio lottesco, e prima di voltare pagina, alla ricerca di ciò che più c’interessa, solo qualche considerazione. Innanzitutto di ordine iconografico: le prime tre scene in alto sono le stesse che aprono la serie delle Figure holbeiniane (Creazione, Peccato originale, Cacciata dal Paradiso); il Peccato originale, Mosé che riceve le tavole della Legge, e il Cristo risorto, compaiono poi anche nell’Allegoria dell’Antico e del Nuovo Testamento della National Gallery of Scotland di Edimburgo, terminato presumibilmente da Holbein dopo la sua partenza per l’Inghilterra e forse con interventi di bottega, ma interessante soprattutto per la sua dipendenza dalle numerose versioni della Caduta e Redenzione di Cranach il Vecchio, in sicura connessione con la predicazione di Lutero336; e poi di ordine stilistico: i Giunta, nello stesso giro di anni, utilizzano per le loro edizioni mediche un frontespizio – impostato sulla stessa struttura di quello “lottesco”, ovvero composto da una cornice di otto vignette attorno allo specchio centrale del titolo, un impianto molto più diffuso, tra l’altro in edizioni nordiche che italiane – decorato con scene tratte dalla vita di Esculapio. L’uso del chiaroscuro ottenuto da un fitto e sapiente uso del tratteggio e il vivace dinamismo accomunano la resa di queste composizioni a quelle “inventate” per la famigerata Bibbia del Brucioli337 [Fig.4].

Al di là degli aspetti più propriamente testuali, l’ispirazione eterodossa del volume appariva visivamente, infatti, non solo (o piuttosto, non tanto) nel dibattuto frontespizio, quanto nell’unica parte dell’opera dotata di illustrazioni, ovvero il testo dell’Apocalisse giovannea, con la serie di xilografie - realizzate in parte dal trevigiano Matteo Pagano, che si firma, e da un suo collaboratore, anonimo, ma dal tratto più felice - copiate da quelle realizzate da Holbein per l’edizione basileese del Nuovo Testamento di Lutero, stampata da Peter nel dicembre del 1522. Esse erano state a loro volta tratte dalla serie di Lucas Cranach per la princeps, il cosiddetto September-Testament, apparso a Wittemberg pochi mesi prima, per i tipi di Melchior Lotther338. In queste immagini, gli aspri riferimenti antipapali raggiungevano il culmine nel particolare del triregno che incoronava il capo della meretrice di Babilonia ebbra “del sangue de’ santi et del sangue de’martiri di Giesù” seduta “sopra una bestia rossa piena di nomi di bestemia”339 [Fig.5-6].

E’ allora interessante sottolineare il valore di una tale scelta iconografica - fortemente connotata ideologicamente - da parte del Brucioli (ma che necessariamente non poteva essere ignorata dagli stessi Giunti): il corredo illustrativo di un Nuovo Testamento, in mancanza, appunto, di una precisa volontà in diversa direzione, si sarebbe facilmente potuto uniformare alla ormai lunga tradizione delle “biblie vulgari istoriate” veneziane, fondata proprio da un “prodotto” Giunti datato 1490, ovvero la Bibbia Mallermi, caratterizzata da un copioso corredo di vignette e illustrazioni a piena pagina che si svolgevano uniformemente lungo le pagine del Vecchio come del Nuovo Testamento340; oppure, nel caso di una maggiore ricercatezza in fatto di novità artistiche – e di che qualità, tra l’altro ! – si sarebbe potuto attingere, proprio per le visioni giovannee, proprio alla fonte primaria di quelle di Cranach-Holbein, ovvero il ciclo düreriano dell’Apocalisse, che, come si é visto, era già stato interamente stampato a Venezia nel 1516 - impresa realizzata, tra l’altro, con la partecipazione dello stesso Matteo Pagano. Invece, proprio come era avvenuto nell’edizione curata da Lutero, Brucioli scelse di limitare le illustrazioni – ad esclusione del frontespizio e di alcune iniziali figurate – al solo libro dell’Apocalisse, che volle far “figurare” tramite le copie delle illustrazioni tedesche, particolarmente violente contro il papato.

Erano anni in cui a Venezia, non doveva essere ancora troppo difficile procurarsi un’esemplare della Bibbia luterana, ma potrebbe anche darsi che una copia dell’edizione “pirata” basileese, nella biblioteca del Brucioli, fosse, oltre che un esempio da seguire – anche filologicamente – un ricordo del suo primo esilio a Lione, e magari proprio il frutto di un acquisto all’ “Escu de Bâle”...341.

Il secondo episodio di diffusione delle invenzioni grafiche di Holbein in Laguna – quello della serie delle Icones dell’Antico Testamento – come d’altronde quello, di soli pochi anni più tardo, delle Figure della morte riproposte nell’edizione valgrisina, é da analizzare, come si diceva, in stretta relazione con la contemporanea produzione lionese342.

Le Iconesfurono pubblicate per la prima volta a Lione in due distinte edizioni, entrambe stampate dai fratelli Melchior e Gaspar Trechsel, stampatori di origine tedesca. La prima di queste era una Vulgata in folio stampata dai Trechsel per conto di Hugues de la Porte, il cui Antico Testamento era illustrato per larga parte da questa serie343; la seconda, dal cui titolo latino deriva la definizione di Icones, era un’edizione in-4 di tavole raffiguranti episodi dell’Antico Testamento (un cosiddetto Bilderbibel) accompagnate da citazioni dalla Scrittura e da un breve commento in latino, probabile opera di François Frellon, l’editore ad istanza del quale era apparsa la pubblicazione, autore anche del prologo: era la prima di una lunga serie di edizioni in diverse lingue, destinate al commercio internazionale, e a decretare il successo di un nuovo genere editoriale propriamente lionese344.

Nonostante nessuna delle immagini di questa serie sia firmata, e i due libri del 1538 non citino il nome del loro autore, la prova documentaria della paternità di Holbein é contenuta nell’edizione che dei legni uscì l’anno successivo, sempre stampata a Lione dai tipi Trechsel ad istanza dei Frellon: in essa é infatti incluso un poema in onore di Holbein del poeta Nicolas Bourbon, un grande ammiratore e amico dell’artista, che l’aveva ritratto per ben due volte, in un disegno ora a Windsor Castle e in una xilografia che il Bourbon fece inserire nella sua edizione delle Nugae poetiche del 1538345.

Sebbene la datazione di questa serie rimanga ancora una questione aperta, si tende a credere, come nel caso delle Figure della Morte, che Holbein l’avesse già terminata prima dell’estate del 1526, data della sua partenza per l’Inghilterra, e che dunque, l’esecuzione delle matrici lignee avesse potuto essere ancora affidato al suo intagliatore di fiducia, Hans Lützelburger, deceduto poi l’anno seguente. Come per la serie della “danza macabra”, invece, il ritardo di più di dieci anni prima dell’avvenuta pubblicazione resta senza un interrogativo cui non si é ancora riusciti a dare una risposta convincente346.

A Venezia, la qualità di queste immagini non dovette certo passare inosservata. Già due anni dopo la loro prima pubblicazione, nel 1540, tre delle cinque iniziali figurate che compaiono nel De primi principi della lingua romana di Francesco Priscianese, pubblicato da Bartolomeo Zanetti sono basate con tutta evidenza su alcune invenzioni delle Icones, sebbene, soprattutto per la diversa superficie disponibile, ne risultino liberi adattamenti347 [Fig.7].

Ma é nella Sacra Biblia pubblicata dagli eredi Giolito nel 1588, che ben 54 delle notevolissime 135 vignette che illustrano l’Antico Testamento sono direttamente dipendenti, per l’iconografia e la composizione, dalle invenzioni holbeniane348 [Fig.8]. La datazione ci porterebbe ben al di là dei limiti cronologici che ci siamo prefissati, ma in realtà la storia di queste xilografie é ben più lunga e più complessa.

Nel 1552, Gabriele Giolito, uno dei più prolifici editori di figurati veneziani e di cui Giovanni il giovane e Giovanni Paolo, futuri editori della Bibbia, erano gli eredi, aveva pubblicato un’edizione del Decameron, in cui erano comparse nove delle illustrazioni bibliche in questione349. L’anno seguente fu la volta della traduzione italiana delle Metamorfosi di Ovidio, a cura di Ludovico Dolce, le Trasformationi, a mescolare, tra le sue 94 illustrazioni, sei di soggetto biblico tratte da Holbein350. Queste 15 immagini - che ben poco hanno a che vedere con i testi di Ovidio e Boccaccio - erano dunque state create, insieme alle restanti, molto probabilmente disegnate ed incise dalle stesse mani, in un arco di tempo post 1538 e ante 1552, dunque almeno una trentina d’anni prima della loro giusta collocazione tra le pagine di un’edizione biblica.

In effetti, esse sono la preziosa testimonianza di un progetto editoriale evidentemente non andato a buon fine, di cui é però rimasta traccia nelle fonti archivistiche : il privilegio decennale, richiesto e concesso al Giolito in data 21 aprile 1543, relativo ad “alcune espositioni, et intagli nella Biblia”351. Ciò prova non solo che il Giolito aveva in programma un’edizione della Bibbia - intenzione da lui stesso annunciata in una lettera au lettori pubblicata alla fine dell’edizione dell’Orlando Furioso del 1547 - ma che aveva già fatto realizzare gli appositi “intagli”, e che dunque una cospicua parte dell’investimento editoriale aveva già avuto luogo352. Inoltre, dal momento che il privilegio non la menziona, é certo che l’editore non aveva commissionato una nuova traduzione e numerosi sono gli elementi che fanno pensare che quella del Giolito dovesse essere la versione illustrata proprio del volgarizzamento biblico di Antonio Brucioli, che di una serie di Holbein, quella dell’Apocalisse, lo abbiamo appena visto, si era già in precedenza fregiato353.

Perché la Bibbia giolitina non sia stata pubblicata all’epoca della sua ideazione é impossibile stabilire: certo é che dal 1543 si interrompe ogni rapporto fra Brucioli e Giolito, e quindi una rottura dovette essere intervenuta a questo livello, ma forse sopraggiunsero altri fattori di peso maggiore a distogliere Gabriele dall’impresa, motivazioni legate all’ambiguità in cui poteva cadere, anche in epoca ancora non sospetta come questa fine degli anni ‘40, la sola idea di una traduzione della Bibbia354.

Resta insomma il fatto che la mancata realizzazione di quest’edizione biblica produsse il caso, più unico che raro a Venezia, di un intero pregevolissimo corredo illustrativo lasciato a giacere in bottega, per la sua maggior parte inutilizzato, durante almeno 45 anni.

Nel suo insieme, la serie biblica giolitina sembra essere il risultato dalla collaborazione di almeno due maestri che lavorano in notevole affinità tra di loro, pur con alcune differenze stilistiche e qualitative. Ciò convaliderebbe la più che probabile ipotesi, viste anche le dimensioni dell’impresa, di un prodotto “di bottega” frutto del lavoro congiunto di un più dotato “Venetian Bible Master” e uno o più disegnatori, formati sul suo tratto, a loro volta interpretati dalla mano di più incisori355.

Questo presunto “maestro”, sarebbe l’autore delle 54 illustrazioni più strettamente dipendenti dalla serie di Holbein, il cui tratto é reinterpretato secondo i migliori mezzi espressivi della xilografia veneziana contemporanea: se Holbein utilizzava un modulato e leggero chiaroscuro per rendere la plasticità delle forme, ora esso diventa ricco ed espressivo, notevolmente drammatico, ed impone alle figure, solide e parlanti, di emergere da uno sfondo reso da tratti paralleli e densi, squarciati da sprazzi bianchi risparmiati dal foglio, conferendo nel contempo un’impressione di forte unità atmosferica. Le figure guadagnano in monumentalità, sono più alte e sottili, ma al contempo ben più muscolose di quelle di Holbein, i gesti acquistano una maggiore potenza espressiva, le forme una maggiore ampiezza, senza per questo che i dettagli non siano resi con particolare finezza. Le teste sono molto più definite di quelle un po’ sfuggenti e delineate da pochi sottili tratti del modello transalpino, gli occhi descritti con precisione e gli sguardi penetranti; particolare attenzione, infine, é rivolta alla resa del paesaggio e al dato naturale [Fig. 9].

Come già era stato fatto per le tre iniziali della Lingua Romana e su paralleli esclusivamente stilistici, per questo gruppo d’immagini é stata proposta un’attribuzione al tandem “Tiziano (re)invenit – Britto sculpsit”356.

In mancanza di qualunque fonte documentaria, sembra ora però maggiormente utile, piuttosto che cedere alla tentazione di presupporre la necessità di padrini illustri per la reinterpretazione di un’opera dalla già altisonante paternità, tenerne a mente la notevolissima qualità e soprattutto le cifre stilistiche, che, a nostro avviso, come si possono cogliere nel resto del corredo biblico, costituiscono anche le caratteristiche di una vasta produzione xilografica contemporanea.

D’altronde, un più espressivo uso del chiaroscuro é proprio quanto si può cogliere nella copia - in questo caso molto più fedele - della serie delle Figure della morte dell’edizione dei Simolachri Valgrisi, diffusa a Venezia qualche anno dopo, nel 1545, e dunque realizzata proprio in questi stessi anni357.

Ci sembra di poter dunque proporre, già a partire da questi due esempi, l’ipotesi del frutto di una stessa – e, come si spera di dimostrare, attivissima - bottega a servizio dell’illustrazione editoriale veneziana del secondo trentennio del secolo358.

Notes
301.

La dipendenza dai modelli nordici é ravvisabile in alcune delle più antiche xilografie italiane, databili tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, di cui ci sono giunte scarsissime tracce. Analogamente, l’incisione a bulino con la Fontana d’Amore del 1470 circa del Museo Civico di Bassano del Grappa, é esemplata da un anonimo incisore veneziano su una piccola incisione del Maestro E.S. Cfr. Xilografie italiane del Quattrocento 1987, p. 32; Hind 1938-48, E.III.2.

302.

La storia del libro, come quella dell’incisione, sono i campi in cui la simbiosi tra Venezia e la Germania ha prodotto i frutti di più alto rilievo. A partire da Giovanni da Spira che nel 1496, insieme al francese Nicolas Jenson, rese nota a Rialto la rivoluzionaria invenzione di Gutenberg, i tedeschi svolsero un ruolo eccezionale nell’editoria veneziana, non solo fornendo manodopera, ma anche, e soprattutto, i capitali necessari ad impiantare una vera e propria produzione su scala industriale. Oltre che dalla situazione degli scambi, dai brevetti e dai privilegi di tutela prontamente concessi dalla Serenissima, gli stranieri erano attratti soprattutto dall’eccellente livello grafico raggiunto in poco tempo dagl’artigiani veneziani, e molti, quindi, venivano ad impararvi il mestiere e – come Erhart Ratdolt, per citare solo il caso più famoso dell’epoca degl’incunabli - a formare il loro gusto sulle raffinate realizzazioni tipografiche uscite dai torchi lagunari, che cercavano poi di riprodurre, una volta tornati in patria, ingaggiando i migliori artisti per la decorazione delle loro edizioni. Cfr. M. Lowry, The social world of Nicholas Jenson and John of Cologne, “La Bibliofilia” 83 (1981), pp. 193-218 e Lowry 2002; M. Zorzi, Stampatori tedeschi a Venezia, in Venezia e la Germania 1986, pp. 115-140. Per la politica veneziana in fatto di privilegi, cfr. Fulin 1882, che ne pubblica le petizioni dalla fine del ‘400 al 1517; Castellani 1888; Brown 1891, pp. 50-72.

303.

Cfr. Urbini 2001 Tra gli esempi dell’influenza che il libro illustrato nordico ebbe sulla pittura italiana si può citare il caso di un gioiello dell’arte miniatoria tedesca come il Breviario Grimani miniato da Gerard Horembout per Domenico Grimani (ora alla Biblioteca Marciana di Venezia) il cui bas de page della c. 594r, raffigurante la Predica di Giovanni Battista, fu trasferito su grande scala da Amico Aspertini sull’anta d’organo di San Petronio a Bologna, cfr. S. Urbini, Amico Aspertini poligrafo dell’illustrazione libraria, « Nuovi Studi », 4/ II (1997), pp. 143-155: 149-150 ; la scheda al manoscritto in Il Rinascimento a Venezia 1999, p. 470 e B. Weijer, Titian en het Breviarium Grimani, in Rélations artistiques entre les Pays-Bas et l’Italie à la Renaissance, Etudes dédiées à Suzanne Sulzberger, Bruxelles-Roma, 1980, pp. 179-183. Al Virgilio illustrato pubblicato a Strasburgo (Brant, 1502) e di nuovo a Lione (Sachon, 1517) e al Livio stampato a Magonza (Schoffer, 1530) guardò Niccolò dell’Abate per gli affreschi del “camerino dell’Eneide” della rocca Boiardo a Scandiano, cfr. Nicolò dell’Abate 2005, pp. 263-271 e le schede nn. 55 e 56, a pp. 272-3. Tra le illustrazioni di Hans Schäufelein per il poema di Hans Sachs, Der Waldbruder mit dem Esel. Den agren Welt tut niemand recht, Jacopo da’ Bassano scelse i modelli per i contadini nello sfondo della Fuga in Egitto (Toledo Museum of Art). Cfr. Brown in Il Rinascimento a Venezia 1999, pp. 112-113. Sul precoce collezionismo e mercato di incisioni su fogli sciolti nell’Italia del Rinascimento, cfr. Landau-Parshall 1994., pp. 64-65 e 91-102.

304.

Il primo libro xilografico italiano allo stato attuale delle nostre conoscenze, la “Passio veneziana”, composto da una sequenza di immagini della vita di Cristo commentate da una breve didascalia, sarebbe opera del miniatore tardogotico Cristoforo Cortese, attivo a Venezia fino a poco dopo il 1440. Questo artista dimostra una conoscenza diretta della xilografia tedesca: l’assunzione di questa tecnica e l’uso di un’iconografia assai nordicizzante fa ovviamente pensare ad uno studio di modelli transalpini che certamente dovevano avere un valore esemplare per i primi xilografi veneziani. Cfr. Dillon 1984, p. 83.

305.

Il riferimento fondamentale e ancora attualmente insuperato resta il bel saggio di Essling 1896, da cui si citano, a titolo esemplificativo, la Crocifissione del Missale iuxta ritum Alme aquileyensis ecclesie, Venezia, Jacobus Pencius de Leucho, impenssiss Joannis Oswaldi, 1517, e l’Annunciazione del Missale Romanum, Venezia, Lucantonio Giunta, 1530.

306.

Cfr. W. Boatta, Bibliografia Liturgica. Catal. Missalium, London, 1928; Enciclopedia Cattolica, Firenze, 1952, VIII, pp. 831-842.

307.

Con buona probabilità l’incisore italiano ebbe il privilegio di conoscerle per intero proprio dalle mani del loro esecutore, dal momento che verisimilmente ambedue gli artisti furono presenti negli stessi periodi del 1506 sia a Venezia che a Roma. Cfr. Massari-Negri Arnoldi 1998, pp. 85-86 e la scheda di M. Faietti dedicata a Marcantonio in Faietti-Oberhuber 1988, p. 150-154. Da notare che tra il 1521 e il 1524 molte xilografie di derivazione raimondiana compaiono nelle edizioni veneziane di Nicolò Zoppino e Vincenzo Polo: cfr. Essling 1914, III, pp. 126-127, 417, 433, 446. Per l’attribuzione al Raimondi dei frontespizi di due edizioni pubblicate rispettivamente a Ferrara e a Roma, cfr. Urbini 1999. Sulle “triangolazioni grafiche” fra Dürer, gli artisti bolognesi e quelli veneziani, cfr. Agosti 2001, pp. 419-422.

308.

La storia del libro illustrato veneziano dell’ultimo decennio del Quattrocento é ancora oggi sostanzialmente quella tracciata da Essling e Hind, e comprende una serie di capolavori notissimi ma solo parzialmente studiati. Anche l’ordinamento proposto da Hind per la cospicua produzione che precede il Polifilo dovrà essere rivisto secondo più aggiornati criteri metodologici che permettano di superare, per quanto é possibile, le conclusioni provvisiorie di un’indagine fondata quasi esclusivamente sui dati stilistici. Allo studioso inglese si deve infatti l’individuazione di due indirizzi stilistici prevalenti nell’illustrazione del libro veneziano alla fine del secolo : un indirizzo da lui definito “popolare” che ha il suo modello nella Bibbia italiana tradotta e commentata da Niccolò Mallermi e stampata da Giovanni Ragazzo per Luc’Antonio Giunta nel 1490 e un indirizzo di “stile classico”, caratterizzato da un disegno e una composizione più rigorosi, la cui opera esemplare é la Bibbia italiana stampata da Guglielmo Anima Mia nel 1493. Questa impronta “classica” viene da Hind messa in rapporto con l’ascendenza di Mantegna e di Gentile Bellini, che gli sembra particolarmente palese nelle quattro grandi xilografie del Fasciculus medicinae del Ketham, aggiunte alla seconda edizione dell’opera (De Gregori, 1493) e in un gruppo di opere altamente rappresentative dello stesso momento, ricco di fermenti umanistici, fino a giungere al capolavoro dello “stile classico”, alla fine del secolo, ovvero il Polifilo. La distinzione di Hind é chiaramente di comodo, utile per un primo orientamento, anche se lo studioso la riteneva “vitale” per capire lo svolgimento dell’illustrazione veneziana. Cfr. Essling 1907-1914 ; Hind 1935 ; Dillon 1984 , pp. 93-96 ; Dillon 1999 e scheda 3.

309.

A conferire questo nuovo aspetto, in cui la xilografia non é più subordinata al testo ma segue un discorso a latere, attribuendosi un compito analogo a quello “intellettuale” svolto dalla scrittura, contribuì certamente anche l’inedito grande formato scelto per due dei quattro cicli (Apocalisse, cm 40x30; Grande Passione, cm 40x30; Vita della Vergine, cm 30x21 e Piccola Passione, cm 12x11) che venivano così nobilitati, e resi più assimilabili quasi ad “altaroli portatili” che a semplici incisioni. Nell’immensa messe bibliografica dedicata a Dürer, si rimanda ancora a Panofski 1967, e per i cicli xilografici a Landau-Parshall 1994, p. 42, Massari-Negri arnoldi 1998, pp. 51-56 ; Dürer and his Legacy 2002, n. 57, pp. 124-5 ; n. 114, pp. 170; n. 118, pp. 173-79 e pp. 239-40. Per le riproduzioni, cfr. Hollstein X, nn. 3-18, pp. 7-15 (La Passione) ; nn. 113-124, pp. 105-111, nn. 125-161 (La “Grande Passione” ), pp. 112-132, nn. 188-207 pp. 152-163 (la “Piccola Passione”), e nn. 163-178, pp. 134-143 (l’Apocalisse). Un curioso episodio di penetrazione dell’opera grafica di Dürer in Italia, é ricostruito da Urbini 2001, pp. 51-56.

310.

Questi album di grandi stampe a soggetto religioso, rappresentavano certamente per gli artisti in cerca d’ispirazione una pratica e completa collezione dell’immaginario düreriano: essi sono citate, insieme ad altre incisioni di Dürer, nell’inventario del 1574, della collezione di Battista del Moro: “38 pezzi de sfogli: la vita della Madonna con l’Apocalipse, la Passion de Christo in legno d’Alberto”. Cfr. B. Jestaz, Un fonds d’atelier de Battista del Moro (1573), in “Mitteilungen der kunst-historischen Institutes in Florenz”, XLIV (2000), pp. 292-304: p. 303.

311.

Cfr. Essling 1907-1914, n. 205.

312.

L’attribuzione al Campagnola, avanzata per la prima volta da Essling, é stata accettata da Michelangelo Muraro e David Rosand (cfr. Muraro-Rosand 1976, pp. 86-87 con bibliografia precedente). Allievo di Giulio, che gli diede il suo cognome, il Campagnola, legato a doppio filo alla Germania – figlio di un ciabattino tedesco, sposerà una ragazza di Monaco – dimostrò negli anni giovanili di risentire di una forte ascendenza dell’arte tedesca, sia dal punto di vista stilistico che da quello dei contenuti delle sue opere, in particolar modo nella grafica a tema paesaggistico autonomo, importata da Dürer già al tempo del suo primo viaggio italiano (cfr. le schede di B. Aikema in Il Rinascimento a Venezia 1999, nn. 104 e 105, 410-13; Agosti 2001, p. 425 e Le Siècle de Titien 2003, schede II.11-13, pp. 82-5). Artista contraddistinto da uno stile particolarmente suggestivo, caratterizzato da un tratto incredibilmente sciolto e flessuoso, di estremo dinamismo, é forse il primo pittore veneziano che deve la sua notorietà soprattutto alla sua attività grafica. Nota é la sua collaborazione all’illustrazione editoriale negl’anni della sua maturità, quando eseguì i frontespizi di tre pubblicazioni del Mantova Benavides e, forse, collaborò alle anatomie per il trattato del Vesalio (cfr. Muraro, Tiziano e le anatomie, cit., p. 312). Silvia Urbini (Urbini 2001, p. 50-51) gli attribuisce con argomenti convincenti la figura di evangelista – derivante proprio dal San Giovanni del frontespizio dell’Apocalisse di Dürer – che compare nel frontespizio del Quatuor Evangeliorum Consonantia di Ammonius Alexandrinus, pubblicato a Venezia da Bernardino Vitali nel 1527. La bibliografia aggiornata sul Campagnola si trova ora in Callegari 2005, pp. 34-9 e 127-8. Per il controverso Zoan Andrea, forse da identificate con Giovan Andrea Valvassori, cfr. Essling-Ephrussi 1891, Donati 1959, Massari-Negri arnoldi 1998, pp. 66-67. Per Matteo Pagano, autore del ciclo dell’Apocalisse per l’edizione della Bibbia curata dal Brucioli, cfr. infra, nota 108.

313.

Per la serie düreriana, cfr. Hollstein’s X, nn. 125-161, pp. 105-111 ; Dürer and his Legacy 2002, n. 114, pp. 170. Per la sua traduzione romana a opera del Raimondi cfr. Faietti-Oberhuber 1988, p. 150-54..

314.

Privo di indicazione cronologica e pubblicato in quattro impressioni leggermente distinte una dall’altra, il libretto in-8 del Valvassore squaderna, lungo le sue 64 carte, 120 xilografie introdotte da una legenda in volgare impressa in caratteri gotici. Più propriamente si tratta di un block-book, ovvero di uno di quei libri in cui, come avveniva prima dell’affermazione dell’uso dei caratteri mobili, le immagini, il testo, o entrambi, venivano interamente stampati per mezzo di matrici lignee. Cfr. Reidy 1995. Per le fonti tedesche citate dal Valvassore, cfr. Essling 1907-1914, n. 206. Per la struttura interna di questa Biblia pauperum, cfr. Cattaneo 2001. Giovanni Andrea Valvassore detto Guadagnino, fu il capostipite del ramo veneziano di una prolifica e longeva famiglia di origine lombarda. Il suo esordio come incisore era avvenuto forse già all’insegna di Dürer – se si accetta l’ipotesi che il monogramma “ Z. A.”, “Zoan Andrea”, sia il suo - nella serie di illustrazioni tratte dall’Apocalisse düreriana, che, come abbiamo visto, registrerebbero anche l’ingresso nel mondo dell’arte del ben più dotato Domenico Campagnola. Giovanni Andrea, che, sebbene non se ne conosca nessun dipinto, risulta iscritto alla fraglia dei pittori di Venezia, licenziò un lungo catalogo di incisioni destinate all’illustrazione editoriale come alla stampa su grandi fogli sciolti (tra cui numerose carte geografiche, la Battaglia di Marignano e la quarta edizione del Trionfo di Cristo tizianeschi), di qualità discontinua e con frequenti interventi di bottega. Dal 1520 circa e fino al 1572 fu attivo anche come editore, pubblicando alcuni libri di modelli di ricami e cinque edizioni illustrate dell’Orlando furioso, cfr. infra e scheda I.5. Per Valvassore incisore, cfr. Essling-Ephrussi 1891; G.V. Dillon, ad vocem, in Dizionario dei pittori e degli incisori italiani, Torino, 1983, XI, pp. 264-5; Muraro-Rosand 1976, pp. 72, 75, 86, 91; A Marckham Schulz, Giovanni Andrea Valvassore and his family in four unpublished testaments, in Artes atque Humaniora, Warzsawa, 1998, pp. 177-225; Urbini 2001, pp. 49-51. Per la sua attività di editore, cfr. Ascarelli-Menato 1989, p. 363.

315.

La bibligrafia di riferimento di questo genere editoriale é ancora Lotz 1933, mentre la vasta bibliografia sui libri di modelli si trova in C. Bambach Cappel, Leonardo, Tagliente, and Dürer: ‘La scienza del far di groppi’, “Achademia Leonardi Vinci”, IV (1991), p. 72, nota 1. Cfr. anche C. Bambach Cappel, The tradition of Pouncing Drawings in the Italian Renaissance Workshop: Innovation and Derivation, Ph. D. Dissertation, Yale University, New Haven, 1988 ; Mottola Molfino 1986, pp. 72-98; Urbini 2001, mentre per il contenuto più squisitamente tecnico – afferente cioé all’esecuzione dei merletti – di questi modellari, cfr. da ultimo M. Abegg, Apropos Patterns. For embrodery lace and woven textiles, Riggisberg, 1973, con bibliografia precedente. Il primo libro dedicato alla particolare lavorazione “a fuselli” sarà Le Pompe, pubblicato da Melchiorre Sessa, sempre a Venezia, nel 1557.

316.

Ciò é indicato dalla presenza rivelatrice di tali modelli in certe collezioni, quelle Medicee, ad esempio, ma altre indicazioni ci vengono dai cataloghi degli editori e stampatori : a Roma “Libro di diversi compartimenti” e “libro di maschere”, vende il francese Lafreri nel 1572, mentre nel 1594, alla morte di Claude Duchet, stampatore, viene redatto un inventario delle sue carte e ricompaiono “di più libretti fini d’orefici, grottesche ed altre cosette, diciassette rami di fogliami di mezzo foglio “, cfr. F. Ehrle, Piante e vedute di Roma, Roma, 1932, pp. 48, 51 e 59. Per i modelli destinati alla decorazione orafa, cfr. Grafica per orafi 1975, con bibliografia e infra.

317.

Il tema del “groppo moresco” godeva già di una prestigiosa tradizione nel settore della grafica su fogli sciolti, si pensi ai disegni di Leonardo e alle sei incisioni su rame da essa ricavate, ora alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (cfr. C. Pedretti, L’ornato e gli emblemi, in Id., Leonardo architetto, Milano, 1978, pp. 296-303). Come motivo ornamentale esso godette di un’enorme fortuna presso i fabbri, gli armaioli, i lavoratori di cuoio e pellami come dei ricamatori, argentieri e orafi. Come riporta il Vasari (Vite, Firenze, 1568, I, p. 65) la moresca é anche detta ornato “a la Damaschina, per lavorarsi di cio in Damasco, & per tutto il Levante eccellentemente”. Per una breve ricostruzione, completa di bibliografia, della fortuna di questi soggetti, riscoperti in Italia a partire dal terzo quarto del Quattrocento, cfr. C. Bambach Cappel, Leonardo, Tagliente, and Dürer, cit., pp. 73-4, nota 5. Per il tema dei motivi astratti dalla grafica rinascimentale, manierista e rococò fino all’arte contemporanea, cfr. Ornament and Abstraction. The Dialogue between non Western, modern and contemporary Art, catalogo della mostra (Basel, 2001), Basel, 2001.

318.

Uomo curioso e poliedrico, Antonio Tagliente, é autore di una non vasta produzione editoriale costituita da manuali di uso pratico che dovettero risultare di grande utilità a Venezia stessa: libri di geografia, aritmetica, contabilità, abecedari, epistolari con ogni modello di lettere (un’edizione speciale fu dedicata alla composizione di lettere d’amore), libri di calligrafia, tra cui il suo libro più famoso, La vera arte dello excellente scrivere del 1524, ornato da illustrazioni « didattiche » di grande eleganza, eseguite dall’incisore udinese Eustachio Celebrino. Cfr. E. Casamassima, Trattati di scrittura del Cinquecento italiano, Milano, 1966, p. 47.

319.

Fin dal titolo, il Tagliente precisava che “ ...la detta opera sarà di grande utilità ad ogni artista, per esser a ognuno il disegno necessario...”. Sulla funzione didattica attribuita alla grafica nel Rinascimento, cfr. P. Emison, The art of teaching: Sixteenth-Century allegorical prints and drawings, New Haven, 1986.

320.

Per una descrizione particolareggiata dei contenuti della Corona, cfr. Urbini 2002, p. 44-7, con bibliografia. L’altra raccolta di modelli per merletti pubblicata dal Valvassore é l’Esemplario di lavori (1546), che riscosse enorme fortuna, tanto da richiedere 22 edizioni in otto anni.

321.

Per Barthel Beham, uno dei kleine meister di Norimeberga, cfr. Massari-Negri Arnoldi 1998, p. 57, per il monogrammista “ GJ”, cfr Nagler 1860, 3116.

322.

Nel titolo, Valvassore prometteva modelli non solo per le donne, come sempre principali dedicatarie dei libri, ma anche per “dipintori e per orevesi”, aggiungendo che “ciascuno le potrà pore in opera secondo il suo bisogno”, cfr. E. Ricci, Avvertenza nell’edizione anastatica dell’Opera Nova Universale, da lei curata, Bergamo, 1910. Per il Maestro “F”, cfr. Abegg, Apropos Patterns. cit. p. 33; Per la raffigurazione dei tappeti nella pittura rinascimentale, cfr. R. E. Mack, Lotto: un conoscitore di tappeti, in Lorenzo Lotto 1998, pp. 59-67; L. E. Brancati, I tappeti dei pittori, Milano 1999.

323.

Per l’originale di Holbein, cfr. Hollstein’s XIVA, n. 39, p. 43 ; per la copia del Valvassore, cfr. Essling-Ephrussi 1891, p. 230. La Tavola Cebetis, una celebre opera morale del filosofo greco Cebete Tebano, é il soggetto di numerose opere grafiche e pittoriche cinquecentesche. La traduzione in italiano, ad opera dell’umanista aretino Francesco Angelo Coccio fu pubblicata a Venezia dal Marcolini nel 1538 e sempre a Venezia il soggetto venne raffigurato in particolare dal Sustris. Cfr. R. Schleier, Tabula Cebetis oders Spiegel des Meuschlichen Lebens/darin tugent und untugunt abgemaleist, Berlin, 1973, pp. 23-56; D. Pesce, La tavola di Cebete, Brescia, 1982; per il Sustris, cfr. infra.

324.

Urs Graf e Manuel Deutsch, oltre che per interessi culturali e commerciali, scendesero in Italia vestendo i panni dei soldati di ventura. Graf fu mercenario a Roma nel 1511, tutti e due combatterono per il duca di Milano nella terribile battaglia di Marignano del 1515, mentre nel 1522 furono coinvolti con l’esercito francese nella disfatta della Bicocca, fra Milano e Monza. Cfr. P. Thea, Gli artisti e gli “spregevoli”. 1525: la creazione artistica e la guerra dei contadini in Germania, Milano, 1998, pp. 71 e 83. Lo stesso facevano i pellegrini, che cucivano l’immagine sacra, il “santino” xilografico prova del raggungimento della loro meta, alla fodera del tabarro per propiziarsene la protezione durante il viaggio di ritorno verso casa.

325.

Cfr. Aikema- Brown 1999 e Roeck 1999.

326.

Per il rapporto di Dürer con la Riforma, cfr. Dillenberger 1999, pp. 53-78; per la “danza macabra” di Holbein, cfr. scheda 2.

327.

Per il rapporto tra libro tipografico e Riforma, cfr. Febvre-Martin 1958, pp. 400-455 ; Eisenstein 1995, cap. VI, pp. 161-200 ; La Réforme et le livre 1990.

328.

Per il traffico dei libri proibiti e le sue vie di penetrazione in Italia e a Venezia, cfr. Rozzo 1993, p. 33 e cap. II. Per Basilea, cfr. cap. I. 2.

329.

Per il rapporto di Lutero con le immagini, cfr. Wirth 1981; Dillenberger 1999, pp. 89-95.

330.

Angelo Beolco Il Ruzante, I Dialoghi [...] La Seconda Orazione. I prologhi alla Moschetta, testo critico, tradotto e annotato a cura di G. Padoan, Padova, 1981, p. 49.

331.

Cfr. Dillenberger 1999, pp. 79-114 e 149-156.

332.

Cfr. Firpo 2001, p. VIII-IX.

333.

Per un’interessante ipotesi d’influenza dei disegni eseguiti da Holbein a margine del Moriae Encomium di Erasmo sul pittore bolognese Amico Aspertini, cfr. Urbini 2001, pp. 60-65. Le influenze dell’arte italiana sulla pittura e grafica di Holbein – che presumibilmente deve aver compiuto un viaggio in Italia verso fra il 1518 e il 1519, ma del quale non resta alcuna testimonianza – sono state ultimamente approfondite da Bätschmann-Griener 1997, pp. 120-148.

334.

La Biblia quale contiene i sacri libri del vecchio testamento, tradotti nuovamente da la hebraica verita in lingua toscana per Antonio Brucioli. Co divini libri del nuov testamento di Christo Giesu Signore et salvatore nostro. Tradotti di Greco in lingua Toscana pel medesimo, Venezia, Lucantonio Giunta, 1532. Il Giunta, che aveva incoraggiato Brucioli nella sua impresa a portare a compimento la traduzione di tutto il testo biblico dall’ebraico, affrontandone lo studio con l’aiuto di Elia Levita, aveva già pubblicato, la sua edizione del Nuovo Testamento (1530) e quella dei Salmi (1531). Sul Brucioli, autore, curatore e traduttore di opere letterarie, filosofiche e teologiche, nonché direttamente coinvolto nell’attività tipografico-editoriale, cfr. Spini 1940 a e b; W. T. Elwert, Un umanista dimenticato: Antonio Brucioli, veneziano d’elezione, in Rinascimento Europeo 1967, pp. 75-96; R. Lear, ad vocem, in DBI, vol. XIV, pp. 480-85; Del Col, 1979 e 1980; Dionisotti 1980, pp. 193-226 ; E. Barbieri, ad vocem, in DTDEI 1998, 1, pp. 209-11; Barbieri 2000. Sulla traduzione brucioliana della Bibbia: cfr. Barbieri 1992 ,I, nn. 21, 22 e 23, pp. 107-127 e pp. 246-50 e per un inquadramento generale del problema, cfr. Del Col 1987; Fragnito 1997. Per Luca Antonio Giunti, cfr. Tenenti 1957b; Camerini 1962-3 ; Dionisotti 1980, pp. 177-192.

335.

Il problema dell’orientamento religioso del pittore “inquieto della mente” era già stato evocato da Bernard Berenson nella sua pionieristica monografia del 1895 (Lotto, ed. italiana a cura di L. Vertova, Milano, 1990), ma ha assunto i toni di una vera e propria querelle a partire soprattutto dalla mostra veneziana del 1953, che ha segnato un crescente interesse per l’artista veneziano. La questione storiografica, con i suoi protagonisti e la relativa bibliografia, é ricostruita e commentata da Firpo 2001; per un colpo d’occhio sul panorama completo dei riferimenti bibliografici, cfr. Firpo 1997, p. 72, nota 17. Per il frontespizio della Bibbia giuntina, poi reinciso e riutilizzato dallo stesso Giunti per le edizioni di un’altra traduzione, quella di Santi Marmochino, apparse nel 1538, nel 1545 e nel 1546, e fu fatto copiare da Francesco di Alessandro Bindoni e Maffeo Pasini per la ristampa di quella brucioliana del 1538, cfr. Romano 1976; Cortesi Bosco 1976; Gentili 1983; Id. 1985, pp. 209-226 e 1998, p. 40; Giacone 1999 e Firpo 2001, pp. 100-116, con bibliografia. Riproduzione dei frontespizi e commenti alle varie edizioni, in Barbieri 1992, II, tavv. A 9, A 15, A 16, A 17, A 28, A 31; I, pp. 246-50, 262-69; 291-94; 301-2. per la Bibbia di Sante Marmochino, cfr. Barbieri 1992, pp. 114-117 e L. Saracco, Aspetti eterodossi della ‘Bibbia nuovamente tradotta dalla hebraica verità in lingua thoscana di Santi Marmochino: risultati di una ricerca, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2 (2003), pp. 81-108.

336.

Lotto riprese lo stesso modello nei disegni – all’epoca non ancora tradotti su legno da Giovan Francesco Capoferri – per il Mosé e il Noé nelle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Cfr. Romano 1976, p. 85; F. Cortesi Bosco, Il coro intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo, Milano, 1987, p. 383, n. 297. Le diverse versioni datene dai due Cranach e quella di Holbein, databile al 1535, sono bipartite dall’albero centrale in due zone: la sinistra, della Legge e della sua infrazione, dunque del Peccato e della Morte, e la destra, della Grazia e dunque della Redenzione tramite il sacrificio di Cristo e della Resurrezione alla vita eterna. Lo stesso soggetto era stato trattato dallo stesso Cranach il Vecchio, in una xilografia anteriore al 1530, Il perdono del peccatore devanti alla Legge per intercessione della Misericordia e della Grazia e ricomparirà con la medesima struttura nel frontespizio della cosiddetta  “Medianbible” o “Bibbia mediana” di Lutero stampata a Wittemberg da Lufft nel 1541. Per il prototipo di Cranach, ripreso i suoi significati e le sue varianti, cfr. Lukas Cranach, Gemälde Zeichnungen Druckgraphik, catalogo della mostra, a cura di D. Koepplin e T. Falk, 2 vol., Basel, 1974, II, nn. 353-54, pp. 505-510 e soprattutto Wirth 1981, pp. 17-20 e Dillenberger 1999, pp. 96-109; per il dipinto di Holbein cfr. Rowlands, 1985, n. 56, pp. 93-4; Bätschmann-Griener 1997, p. 119, fig. 161. Ce ne torneremo ad occupare in Appendice 2 Per le edizioni della Bibbia di Lutero cfr. infra.

337.

Riproduzione in Andreoli 2004, p. 96.

338.

Cfr. Wirth 1981, p. 12. Come é noto, la fonte di Lutero é la seconda tiratura dell’edizione greca del 1519 accompagnata dalla sua traduzione latina e dalle Annotationes di Erasmo. Già nel 1520, il consiglio municipale di Basilea, prevedendo gli ovvi pericoli che avrebbe provocato la produzione e diffusione delle opere di Lutero, aveva emesso un decreto autorizzandone la riedizione, ma rifiutando qualunque forma di protezione agli stampatori in caso di azioni giudiziarie mosse da altri membri della confederazione elvetica. Visti i lauti profitti che prevedevano di ricavarne, gli editori e stampatori basileesi non esitarono a correre il rischio. Nel tentativo di non provocare gli animi e per evitare di attrarre troppo l’attenzione, Petri pubblicò però il testo senza il nome di Lutero e richese a Holbein un frontespizio d’impianto in tutto e per tutto ortodosso: datato 1523, esso é ornato dai simboli degli Evangelisti ai quattro angoli e, perdipiù, dai Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma ai due lati del titolo. L’incisore delle figure del frontespizio come delle vignette dell’Apocalisse sembra essere stato anche in questo caso Hans Lützelburger Cfr. Hollstein’s XIVA, nn. 48a-i, pp. 68-72. Per Matteo Pagano da Treviso, xilografo presente in edizioni datate dal 1520 al 1558, ma soprattutto prolifico nell’arco degli anni ’30, cfr. Romano 1976, pp. 84-5 e supra, nota 115. Per la sua attività di editore e stampatore, cfr. Ascarelli-Menato 1989, p. 383.

339.

Apoc. XVII, 3-6; Biblia, cit. p. 86r (Nuovo Testamento). Cfr. Barbieri 1992, I, p. 247. Nel September Testament di Lutero la lingua metaforica della traduzione é interpretata da 21 illustrazioni dell’atelier di Lucas Cranach che si rifanno a loro volta alle quattordici xilografie di mano di Dürer dedicate all’Apocalisse di Giovanni, ma modificate in dettagli iconografici cruciali e maggiormente modellate sul tenore del testo. Esse denotano una violenta tendenza anti-romana che culmina nell’identificazione di “Babilonia, madre delle prostitute” (ovvero l’Anticristo), con il papa. Per una visione d’insieme sulla Bibbia di Lutero con ampi riferimenti bibliografici, cfr. S. Fussel, Introduction au contexte historique in La Bible de Luther de 1534, edizione fac-simile, Taschen, 2003. E’ dunque probabile che furono proprio riserve di natura religiosa a causare l’improvvisa rottura tra il Brucioli e i Giunti, che nel 1536 avrebbero pubblicato un’altra edizione del Nuovo Testamento brucioliniano “nuovamente corretto” da fra Zaccaria da Firenze, e nel 1538 la “nuova” traduzione di Santi Marmochino (in realtà basata per l’80% sul testo brucioliniano), in cui, come si é detto, viene reimpiegato il frontespizio lottesco, che, a quanto pare, non sembrava invece destare sospetti. Cfr. Barbieri, 1992, I, pp. 114-115 ; Giacone 1999.

340.

Cfr. Essling 1907-14, n. 133.

341.

Il Brucioli fu esule a Lione tra il 1522 e il 1526. Apparentemente, nessuna copia delle Bibbie di Lutero, né dell’edizione di Wittenberg con illustrazioni di Cranach, né di quella basileese con le copie di Holbein, é giunta in una biblioteca pubblica italiana, cfr. G. Mazzetti, Le prime edizioni di Lutero (1518-1546) nelle biblioteche italiane, Firenze, 1984.

342.

Per la quale cfr. infra.

343.

Biblia utriusque Testamenti iuxta Vulgatam translationem, Lugduni apud Hugonem a porta, 1538 (Excudebant Lugduni Melchior et Gaspar Trechsel fratres 1538). L’Antico Testamento contiene 88 illustrazioni, la prima delle quali, La Creazione di Eva, é tratta dallo stesso legno dei Simulacres. I legni relativi al Nuovo Testamento sono invece opera di un diverso artista. La serie pone diversi problemi per una datazione precisa - ancora fluttuante fra un post 1523 e un ante 1531, e dunque sulla paternità della traduzione incisoria, che sembrerebbe potersi assegnare alla felice mano di Hans Lützenburger, alla cui sgorbia Holbein aveva affidato numerosi dei suoi disegni. Per le varie edizioni delle Icones e l’analisi delle scelte iconografiche: Cfr. Mortimer 1964, I, nn. 279-283, pp. 344-49, con bibliografia e Hollstein’s XIVb H. Green, note al fac-simile dell’edizione Lyon, Frellon, 1547, London, 1869, pp. 81-86; G. Duplessis, Essai bibliographique sur les différents éditions des Icones Veteris Testamenti d’Holbein, in “Mémoires de la Société nationale des antiquaires de France”, Vème série, vol. 4 (1883), pp. 45-64; P. Hofer, Holbein’s Old Testament woodcuts, “The New Colophon”, I, p. 2 (April 1948), pp. 161-174; un riassunto delle ricerche precedenti in Basler Buchillustration 1984, pp. 498 ss. Lo studio più completo é sicuramente M. Kästner, Die Icones Hans Holbeins des Jüngerer. Ein Beitrag zum graphischen Werk des Künstler und zur Bibelillustration. Ende des 15. und in der ersten Hälfte des 16. Jahrhunderts, 2 t., Heidelberg, 1985; da ultimi, cfr. Bätschmann-Griener, 1997, pp. 60-63; Michael 1990, 1992 e 1999. La serie delle Icones, come quella della “danza macabra” sembra essere giunta a Lione tramite i traffici commerciali che Trechsel intrattenevano con Basilea. Essi, in realtà, stamparono entrambe le serie su istanza di altri due fratelli, i Frellon, che ne proseguirono le edizioni una volta dotatisi di un loro proprio atelier. Per i Trechsel e i loro rapporti con Basilea e per i Frellon, cfr. cap. I.2 e scheda 2.

344.

Historiarum veteris Instrumenti Icones ad vivum expressae, Lugduni, sub scuto Coloniensi, 1538 (Excudebant Lugduni Melchior et Gaspard Trechsel fratres, 1538), con 92 illustrazioni. Le prime quattro illustrazioni, La Creazione di Eva, Il Peccato, La cacciata e Adamo ed Eva accompagnati dalla Morte, sono anch’esse tratte dai legni dei Simulacres, pubblicati lo stesso anno. Per le Figures o Quadrins hisoriques della Bibbia, cfr. infra.

345.

Historiarum Veteris Testamenti icones ad vivum expressae, 1539. In quest’edizione le immagini sono accompagnate dal testo latino in testa alla pagina e da quartine francesi di Gilles Corrozet al di sotto. Per i rapporti tra Holbein e Bourbon, cfr. Woltmann 1876, I, pp. 404-7 e scheda 2.

346.

Cfr. scheda 2.

347.

Si trattta delle iniziali “ T”, “H” e “D” (cm 3,5x3,5), ispirate rispettivamente alle illustrazioni per Salmi, I (Re Davide che scrive); Deuteronomio, I (Mosé parla agli Israeliti) e per Croniche, I (Narrazione della genealogia di Adamo) Cfr. Pignatti 1980; Michael 1990.

348.

Sacra Biblia, acri studio, ac diligentia emendata, Rerum, atque Verborum permiltis, et perquamdignis Indicibus aucta, Venetiis, apud Iolitos, 1568, in-4. Cfr. Bongi 1895, I, pp. 425-6. Le 135 xilografie dell’Antico Testamento (che comprendono 24 ripetizioni) misurano cm 57x80, sono dunque leggermente più piccole di quelle delle Icones. Le 54 illustrazioni direttamente dipendenti da quelle di Holbein si trovano alle pagine: 6 (in alto), 8, 19, 27 (in alto), 27 (in basso), 35, 38, 40, 41, 47, 51, 54, 57, 65, 70, 88, 90, 92, 98, 101, 104, 115, 127, 147, 156, 173, 182, 188, 198 (ripetiz.di quella a p. 27), 203, 208, 231, 235, 240 (ripetiz. di quella a p. 235), 241, 248, 255, 258, 267, 273 (ripetiz. di quella a p. 203), 277, 281, 282 (ripetiz. di quella a p. 203), 289, 295 (ripetiz. di quella a p. 248), 302 (ripetiz. di quella a p. 255), 303 (ripetiz. di quella a p. 258), 307 (ripetiz. di quella a p. 289), 310, 318 (ripetiz. di quella a p. 258), 324, 326, 338, 349 (ripetiz. di quella a p. 57), 366, 368, 397, 460, 465, 468 (ripetiz. di quella a p. 248), 478 (ripetiz. di quella a p. 281), 506, 577, 604, 607 e 616. Altre tre, alle pp. 12, 222 e 611 sono anch’esse probabilmente derivate dal medesimo modello. Il corredo completo della Bibbia giolitina fu reimpiegato in due altre edizioni veneziane della Vulgata: una Sacra Biblia Vulgatae editionis, in-4, pubblicata nel 1607 da Evangelista Deuchino e un’edizione in-folio dell’anno seguente, la Biblia Sacra vulgatae editionis, stampata dal medesimo Deuchino in società con Giovanni Pulciani. E’ molto probabile che la serie di illustrazioni, insieme ad altro materiale tipografico dei Giolito, che cessano la loro attività nel 1606, sia passato nelle mani del Deuchino, che nell’edizione 1607 riutilizza infatti anche il frontespizio xilografico con la marca editoriale della Fenice. Cfr. Michael 1990, fonte di riferimento per l’intera questione e ora anche Nuovo-Coppens 2005, pp. 226-30.

349.

Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, Venezia, Gabriel Giolito De’ Ferrari e fratelli, 1552. Le illustrazioni si trovano a pp. 26, 34, 41, 43, 67, 99, 294, 459 e 479; Bongi 1895, pp. 364-5; Mortimer 1974, I, n. 72, pp. 100-1. L’edizione, e dunque il suo corredo, erano protetti da privilegio datato 12 dicembre 1551. Cfr. sheda 3.

350.

Le Trasformationi di M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriel Giolito De’ Ferrari e fratelli, 1553. Le xilografie si trovano a cc. G2v; G4v, I4v, T1v, T2v e T6v della prima edizione, diversamente localizzate nella seconda. Cfr. Bongi 1895, pp. 395-401; Mortimer 1974, I, n. 342, pp. 494-6. Oltre che nelle edizioni del Decameron e delle Trasformazioni, almeno un’altra xilografia della serie delle Icones é stata inserita in successive edizioni della traduzione dell’opera ovidiana pubblicate dal Giolito nel 1555 e nel 1558.

351.

ASVe, Senato Terra, Registri 32 (1542-43), c. 164v., identificato e pubblicato da Nuovo-Coppens 2005, p. 395.

352.

Al fine delle Espositioni del Furioso si legge infatti :

“Et perché niuna cura é in noi maggiore, che di giovare alli studiosi delle buone lettere, et agli amatori della lingua volgare, speriamo di darvi similmente fra pochi mesi le dilettevoli trasformationi d’Ovidio, tradotte dal sovradetto Dolce in questa ottava rima, le orationi di M. Tullio, et il vecchio et nuovo Testamento, pur in questa nostra lingua, affine ce niuno in cotal materia abbia più che a desiderare”.

 Cfr. Nuovo-Coppens 2005, p. 226.

353.

Il privilegio che proteggeva l’edizione Giunti, risalente al 1532, era infatti ormai scaduto. Brucioli, inoltre, vantava un lungo rapporto di collaborazione con Gabriele, per il quale aveva curato o tradotto ben tre edizioni fra il 1538 e il 1543, tra cui il Decamerone, opera per il quale Giolito richiese il suo primo privilegio. Due di queste tre edizioni, inoltre, erano state realizzate dai torchi di Bartolomeo Zanetti, stampatore entrato nell’orbita giolitina sin dal 1538 ed ugualmente legato al Brucioli, di cui ristampò il volgarizzamento della Bibbia nel 1541, per conto di Federico Torresani. Cfr. Nuovo-Coppens 2005, p. 228-29.

354.

E’ significativo che già nel 1544, quando nulla avrebbe ancora fatto prevedere il divieto di lettura dei volgarizzamenti biblici ai fedeli cattolici, promulgato solamente nel 1559, Ambrogio Catarino Politi - già autore del catalogo giolitino fin dai tempi di Giovanni, padre di Gabriele, ma che diverrà autore di punta della scuderia di quest’ultimo soprattutto negl’anni 1547-48 - avesse denunciato nell’operetta Compendio d’errori e inganni luterani (Roma, Girolama de’ Cartolari per Michele Tramezino), gli accenti eterodossi dei volgarizzamenti brucioliani. Gabriele, che mai si distolse dal solco della più tradizionale ortodossia cattolica, dovette interpretare le chiare parole del “suo” autore come un vero e proprio ammonimento per accorgersi – evidentemente a sue spese ! – che la Bibbia non era un libro che potesse essere offerto “agli amatori della lingua volgare” senza prendersi pericolose responsabilità. L’idea poi di riutilizzare il corredo di legni per un’edizione latina, doveva essere davvero estranea al suo programma editoriale, centrato sulla promozione della lingua e letteratura italiana contemporanee. Cfr. Nuovo-Coppens 2005, pp. 229-30. Per il Politi, “focoso polemista cattolico”, come lo defini il Bongi, di cui stampò alcune opere anche il Valgrisi, cfr. J. Schweizer, Ambrosius Catharinus Politus (1484-1553), ein Theologe des Reformationzeitalters. Sein Leben und seine Schriften, Münster, 1910 e A. Duval, ad vocem, in Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, doctrine et histoire, Paris, 1986, vol. XII, coll. 18446-58.

355.

Cfr. Michael 1990 p. 244-47 e infra.

356.

Cfr. Pignatti 1980, che giustificava la paternità tizianesca-breitiana sulla base delle qualità stilistiche del bel ritratto del Priscianese nel frontespizio dell’edizione in questione e della familiarità che il grammatico romano aveva con l’Aretino e la sua cerchia, cui faceva parte, come é noto, lo stesso Tiziano e Michael 1990 p. 244-7, che invece fonda la sua attribuzione sulle caratteristiche stilistiche della maniera incisoria del Britto. Per Giovanni Britto, cfr. Muraro-Rosand 1976, pp. 116-122; Oberhuber 1980; F. Borroni, ad vocem, in DBI, XIV, pp. 351-2.

357.

Cfr. scheda 2.

358.

Cfr. infra.