Maniere veneziane

Le relazioni artistiche tra Venezia e Roma nel corso del Cinquecento erano già molto vivaci all’inizio del secolo : vari pittori veneziani si erano spinti fino alla capitale pontificia, da dove avevano riportato notizie e impressioni di quanto si stava realizzando nei cantieri vaticani : Lorenzo Lotto é presente nelle Stanze intorno al 1510 ; a Roma é anche Pordenone, tra il 1515 e il 1516, dove resta folgorato dalle realizzazioni michelangiolesche359. Contemporaneamente, copie e altri ricordi grafici delle opere dei maggiori maestri attivi nel centro Italia, e in particolare di Raffaello e Michelangelo – che, tra l’altro, aveva brevemente soggiornato a Venezia nel 1494-95, quando ancora giovanissimo, si era rifugiato nella Serenissima per sfuggire all’invasione delle truppe di Carlo VIII – circolassero con continuità nel vivacissimo ambiente veneziano : nel 1521, poi, giungerà in casa Grimani anche il disegno preparatorio per uno degli arazzi della Cappella Sistina, raffigurante la Conversione di San Paolo, mentre più tardi entreranno a far parte delle collezioni veneziane anche i calchi di alcune delle sculture eseguite da Michelangelo nel 1520 per la Sagrestia Nuova fiorentina360. Negli stessi anni, cioè alla metà del secondo decennio, Tiziano conosceva ed apprezzava le realizzazioni michelangiolesche, conferando come l’allora ancor giovane maestro cadorino fosse ben aggiornato su quanto andava maturando a Roma.

Tiziano aveva potuto ulteriormente avvicinarsi al mondo artistico dell’Italia centrale negl’anni immediatamente successivi, quando da Roma a Venezia giunsero contemporaneamente nel 1527 sia Pietro Aretino che Jacopo Sansovino, quest’ultimo sfuggito al sacco e sulla strada per la corte francese di Fontainebleau, inaugurando quella serie di significative presenze responsabili della “crisi”, della “svolta” o della “risposta” – a seconda delle interpretazioni critiche – manierista veneziana361.

All’architetto e urbanista Jacopo Tatti, detto il Sansovino, divenuto Proto di San Marco, venne allogata dal doge Andrea Gritti la più importante e ambiziosa commissione pubblica dell’intero Cinquecento, ovvero quella di fornire di un nuovo volto architettonico piazza San Marco, sede del governo della Serenissima, allo scopo di dar corpo all’idea di Venezia come “altera Roma”, erede cioé di quell’antico impero, egualmente capace di assicurare benessere e pace ai cittadini e ai territori sottomessi362. Jacopo aveva lavorato a lungo a Roma, dove era stato presente per due periodi piuttosto lunghi, dal 1506 al 1511 e dal 1516 al momento del Sacco. Aveva così potuto elaborare quella rigorosa sintassi architettonica legata al classicismo romano, che era diventata, una volta trasferitori a Venezia, la base stilistica per i nuovi edifici di Piazza San Marco – La Libreria, la Zecca, la Loggetta e le Procuratie – legandoli tra loro e con le fabbriche preesistenti in una sapiente concezione teatrale dello spazio363.

Ma soprattutto, Sansovino ebbe una notevole attività come scultore, in bronzo e in marmo, di opere di sicura matrice manierista, si pensi ai rilievi - in opera già dal 1537 - della tribuna destra del presbiterio di San Marco, raffiguranti, con un’estrema accentuazione dei toni patetici e della concitazione narrativa, episodi della vita del santo protettore di Venezia364. L’esame delle sue architetture e apparati scultorei documenta come l’artista avesse appreso, nel clima aperto ad ogni sperimentazione della Roma leonina – tra Raffaello, Peruzzi, Giuliano da Sangallo e Giulio Romano – la necessità di un equilibrio tra l’impianto strutturale e la componente ornamentale, ma, al tempo stesso, quanto, del ricco vocabolario dell’arte antica fosse attratto dall’aspetto più propriamente decorativo: risultato - questo svincolare la decorazione dalla struttura - della necessità di mediare il nuovo linguaggio architettonico con la realtà veneziana.

Ad un altro toscano, Bartolomeo Ammannati, giunto a Venezia nel 1529 e già nel 1537 aiuto del Sansovino alla Libreria Marciana, si deve poi la diffusione di un manierismo di dichiarata ascendenza michelangiolesca365.

Un procedimento tutto intellettualistico, atto a produrre artifici e complessità, quello del primo, imponenti tipologie allegoriche quelle del secondo, che sarà legittimo ritrovare in un continuo gioco combinatorio anche nelle arti minori contemporanee, decorazione e illustrazione editoriale comprese: si pensi ai tanti frontespizi architettonici popolati da statue e da ogni genere di armamentario classicheggiante che ornano le edizioni veneziane contemporanee [Fig. 28-29, 32-33].

Anche Pietro Aretino aveva vissuto a lungo a Roma, dove avuto modo di conoscere direttamente le realizzazioni raffaellesche e michelangiolesche – le “fonti” della maniera, insomma – oltre a quelle del veneziano Sebastiano del Piombo, di Giulio Romano, di Giovanni da Udine, di Marcantonio Raimondi e di tutti gli altri comprimari del grande palcoscenico romano, a molti dei quali era legato da stretti rapporti di amicizia. Giunto a Venezia, ben presto l’Aretino assunse un ruolo dominante - non soltanto nel campo culturale, d’altronde, ma anche in quello più propriamente politico - fino al punto di formare, assieme all’amico Tiziano e al Sansovino, inizialmente da lui protetto, quel “triumvirato” che impostò a lungo le regole della produzione artistica locale366.

Le convinzioni sull’arte dell’Aretino subirono notevoli sviluppi nel corso del suo soggiorno veneziano, tanto che egli divenne poi fedelissimo amico, acuto consigliere e infaticabile sostenitore di Tiziano, mostrando peraltro di apprezzare anche le opere del Tintoretto, del Lotto, di Paris Bordon e dello Schiavone e di farsi efficace propagandista dell’arte veneziana in Italia e all’estero. Al suo arrivo a Venezia, però, Aretino era un convinto banditore di quel decorativismo postraffaellesco che costituisce proprio una delle componenti più importanti del linguaggio manierista, e quindi, nei suoi rapporti con i pittori veneziani e in particolare con Tiziano, dovette indubbiamente costituire un tramite basilare e diretto per la conoscenza del mondo artistico tosco-romano: non a caso fu lui a convincere, nella primavera del 1535, il conterraneo Vasari a inviargli i disegni delle tombe medicee367.

In questo contesto dell’arrivo a Venezia di informazioni di prima mano dal mondo manierista, un ruolo preponderante, non tanto per quel che riguarda Tiziano, ma certo per quanto concerne gli sviluppi successivi della pittura lagunare, riveste la figura di Andrea Schiavone, giunto nel 1535 tra le lagune dall’Emilia, dove aveva avuto modo di conoscere le incisioni tratte dai disegni del Parmigianino e, probabilmente, anche i dipinti del maestro, divenendo così il principale veicolo per la trasmissione a Venezia di un’altra delle componenti fondamentali della cultura figurativa del Manierismo – quella emiliana – imbevuta di quella ridolfiana “grazia e leggiadria”, cui guarderanno con grande attenzione la maggior parte degli artisti che si formeranno nei secondi trenta e negl’anni quaranta, e tra questi Jacopo Bassano, Tintoretto e Alessandro Vittoria, che non a caso sarà il maggior collezionista di Parmigianino e Schiavone nel Veneto368.

Delle incisioni del maestro emiliano, Schiavone si fece infatti interprete abile e originale: accanto alle originalissime copie, che datano almeno a partire dal 1538, egli non solo ne traduce in linguaggio veneto le creazioni ma, a partire da esse, crea una figurazione autonoma, con uno specifico e grandioso linguaggio. Intanto anche altri incisori d’origine veneta, come Gian Giacomo Caraglio e Agostino Veneziano, Antonio da Trento e Nicolò Vicentino avevano inciso le composizioni del Parmigianino, con più fedeltà, almeno apparente, di quella dello Schiavone, che se ne alterava, al tempo stesso ne esaltava e amplificava, la sostanza369.

La conoscenza diretta, in prima persona, delle fonti del Manierismo, d’altronde, era già stata sentita come esigenza imprescindibile, durante il terzo decennio, da alcuni pittori della generazione più giovane rispetto a quella di Tiziano, alcuni dei quali, si erano spinti fuori dai confini Serenissima: il veronese Battista Franco, il Semolei, nel 1535 risulta iscritto all’Accademia di San Luca a Roma e successivamente passa a Firenze e poi nelle Marche, per far rientro a Venezia solo dopo la metà del secolo370; Giovanni di Mio nel 1538 é in Toscana, per poi trasferirsi a Roma e quindi a Milano, diventando tramite della cultura manierista non solo in Veneto ma anche in Lombardia e il trevigiano Paris Bordon nel 1538 si spinge fino alla corte di Francia, visitando i primi fulgori della corte di Fontainebleau371.

Piuttosto che un D-day o inizio di una rivoluzione destinata a trasformare radicalmente il corso della cultura pittorica veneziana, allora, appare invece come una diretta conseguenza, quasi una “presa d’atto ufficiale” della progressiva conoscenza e del sicuro apprezzamento che riscuotevano già da qualche tempo i modelli figurativi tosco-romani tra le lagune - oltre che risultato dell’efficace propaganda artistico-politica dell’Aretino - l’arrivo di tre pittori di queste origini e cultura.

Francesco Salviati e il suo allievo Giuseppe Porta - detto anch’egli Salviati - approdarono a Venezia nel 1539, insieme a Giovanni da Udine, per soddisfare la richiesta del cardinale Giovanni Grimani – la famiglia, che con i Corner, rappresentava l’avamposto più influente della “romanità” fra i conoscitori veneziani - che aveva loro affidato la decorazione di alcuni ambienti nel palazzo di famiglia in prossimità di campo Santa Maria Formosa372.

“Cecchino” Salviati rimase a Venezia dalla fine del 1539 ai primi mesi del 1541

‘“Essendo poi venuto a fastidio il vivere a Venezia a Francesco come a colui che si ricordava di quel di Roma; e parendogli che quella stanza non fusse per gli uomini di disegno, se ne partì per tornare a Roma”373

ma nelle “storiette bellissime” concepite come fregi “all’antica” di Palazzo Grimani, aveva lasciato un esempio rivelatore della sua conoscenza delle opere di Michalangelo, tradotte però con un senso elegantemente decorativo, sciolto e fluente, che richiamava, oltre a Raffaello, al mondo parmigianinesco, che il pittore toscano aveva avuto modo di studiare ed apprezzare nel corso della sosta a Bologna compiuta durante il viaggio verso Venezia374.

Due anni più tardi fu la volta di Giorgio Vasari, chiamato alla fine del 1541 dai compagni della Calza dei “Sempiterni” a predisporre l’apparato scenografico di una commedia dell’Aretino, la Talanta, da rappresentare durante il carnevale dell’anno successivo375. Il Vasari aveva decorato i palchi per la commedia con “grottesche e fogliami” e dipinto tavole e tele popolate da imponenti figure in prospettiva, con pose disinvolte e dinamiche. Era il secondo esempio di decorazione di tipo tosco-romano, dopo quella di Palazzo Grimani, che faceva la sua apparizione a Venezia.

Qui, lavorando senza sosta, Vasari eseguì un numero di opere molto più considerevole rispetto a quanto fece Salviati, ma, nonostante il successo riportato presso amateurs e collezionisti, lasciò anch’egli la città il 16 agosto 1542.

Dei tre, l’unico che rimase a Venezia fu il giovane Giuseppe Porta, che divenne un pittore e frescante di ville patrizie veneziano a tutti gli effetti, capace di tradurre in “veneziano” appunto – pur semplificandoli e rendendoli più facilmente assimilabili anche ai più “duri d’orecchio” fra i veneziani - i moduli della pittura tosco-romana conosciuti durante la sua prima giovinezza376. Nel 1542, ad esempio, il Porta firmava e datava la decorazione ad affresco della villa Priuli a Treville, sulla cui facciata, secondo la testimonianza del Ridolfi (la villa non esiste più) rappresentò le figure allegoriche della Storia, della Fama e della Virtù: é uno dei primi esempi di quella che diventerà una sua specialità, ovvero la decorazione di facciate di palazzi veneziani, compartendo gli episodi desunti dalla mitologia e dalla storia romana con “ornamenti di cartelle, grottesche e festoni di varii frutti ed erbaggi”377.

Fecondi d’invenzioni disegnative e naturalmente portati ad adattare la loro fantasia ai supporti più svariati, i “tosco-romani”, accolti nell’ambiente veneziano dal conterraneo Aretino, furono da lui ben presto introdotti nell’effervescente attività dell’industria editoriale veneziana, impersonata in questo caso dall’editore più “ingegnoso” del momento, Francesco Marcolini da Forlì378.

Attivo a Venezia dal 1534 al 1559, con una pausa corrispondente ad un soggiorno a Cipro dal 1546 al 1549, Marcolini é, nel suo primo periodo d’attività, l’editore dell’Aretino, allora nel suo periodo più fecondo, e del Serlio, due dei più assidui frequentatori del suo “giardino di pensieri”, circolo intellettuale che poteva contare fra i suoi “compari” Tiziano, Sansovino e Tintoretto; e poi, dopo la cesura ciprota, a partire dal 1551, di Anton Francesco Doni e di Vincenzo Brusantino, membri dell’ancora piuttosto misteriosa “Accademia dei pellegrini” - di cui il Marcolini stesso era il presidente e il Doni segretario379.

Personalità poliedrica quella del Marcolini, autore di un progetto architettonico per un ponte di legno da realizzarsi a Murano, forse xilografo lui stesso, reintroduttore dell’innovativa tecnica di stampa per le partizioni musicali inventata da Ottaviano Petrucci, si presenta veramente l’editore “di punta” di questi anni380.

Il suo catalogo, alla marca della “Veritas filia Temporis”, emblema per eccellenza della sua attività editoriale, non si distingue tanto per la quantità di edizioni - centoventi circa, appartenenti, oltre che alla letteratura, alle discipline più diverse – ma, da un lato, per l’alta consapevolezza dell’aspetto materiale, tecnico (ma nel senso etimologico di tecne – arte - contrapposto alla mera pratica meccanica) del prodotto editoriale, testimoniata, oltre che dalla grande attenzione nella scelta dei corpi tipografici, dall’impaginazione, dalla marginatura, soprattutto dai corredi illustrativi, di cui cura particolarmente la qualità e il rapporto con il testo381; dall’altro per la “modernità” dei suoi titoli, per il suo carattere contemporaneo e “militante”, di produzione intellettuale alternativa tanto a quella della Chiesa ufficiale, quanto a quella della corte, simbolo di una via esclusivamente “veneziana”, strettamente connessa ai meccanismi stessi dell’industria tipografica382 [Fig.12].

Ma nella “fabbricazione” dei propri annali, Marcolini coinvolse non solo gli autori più in vista del momento, ma anche gli artisti più “novatori” di passaggio (o meno, nel caso del Porta) a Venezia.

Già nel 1537, l’Aretino aveva potuto sfoggiare, nel frontespizio delle Stanze in lode di Madonna Angela Sirena, pubblicate naturalmente dal Marcolini, una xilografia di probabile mano di Tiziano, che visualizzava le sue idee poetiche raffigurandolo in veste di pastore che si rivolge alla sua amata Sirena (alias Angela Tornimbena, moglie di Giannantonio Serena e oggetto involontario della “casta” passione aretinesca), raffigurata nella visione celeste sopra il calmo mare [Fig.13 ] 383.

Due anni più tardi, nel 1539, le figure zig-zaganti e graziosamente allungate delle tre xilografie che illustrano la sua marcoliniana Vita di Maria Vergine (una Nascita della Vergine, un’Annunciazione – nel frontespizio - e un’Assunzione) dimostrano tutta l’originalità inventiva di Francesco Salviati, cui l’Aretino rende omaggio proprio alla fine dell’opera, menzionando il disegno che l’artista gli aveva fornito per l’Assunzione [Fig. 14] 384.

Il ritratto dell’Aretino, sontuosamente abbigliato e decorato di una preziosa quanto massiccia catena, su cui il libro si apre, può d’altronde essere la riproduzione incisa di quello che lo scrittore aveva commissionato al pittore conterraneo per poi inviarlo a Francesco I [Fig.15] 385.

Ma il corredo xilografico più rappresentativo della “modernità” e dell’aggiornamento delle scelte del Marcolini é sicuramente quello della sua propria opera – in cui il suo nome appare sul frontespizio in qualità di autore, tipografo ed editore - emblematica sin dal titolo: le Sorti, o Giardino di Pensieri, diventate anche “ingeniose” nella seconda edizione, sorta di celebrazione del suo “giardino”, luogo della pratica intellettuale (“di pensieri”) socializzata (nel gruppo che dialoga e gioca) e nello stesso tempo “ingegnosa” e ludica386. Si tratta di un elaborato ed artificioso studio di preveggenza - “a mostrare l’arteficio della sorte” - basato sull’ars combinatoria delle carte da gioco ed espresso da un testo esplicativo in terza rima ad opera del Dolce: un gioco, insomma, un gioco di società, di moralità piacevole, ideato “per più intertenimento di qualunque spirito gentile”, variante altrettanto parlante – dal momento che risponde a cinquanta possibili (quanto elementari e quotidiani) quesiti – dei tanti ragionamenti, dei tanti dialoghi tenuti nella fresca quiete del vero giardino veneziano387.

In tale strumento di passatempo mondano, organizzato tutto in termini visivi, fondamentale appare dunque il corredo figurativo, che non ricopre certo una funzione solo esornativa, ma propriamente di produzione di uno specifico discorso morale-esemplare: le tavole del gioco presentano infatti cinquanta personificazioni di categorie morali astratte cui si correlano, tramite il passaggio obbligato attraverso percorsi incrociati - le “vie croci” - altrettante figure di filosofi, che forniscono le “ingegnose” risposte alle domande, frutto di quella verità, tutta relativa, dell’automatismo combinatorio e, come tale, completamente aleatorio388.

Dalle Sorti emerge così una sorta di enciclopedismo trasversale che prende corpo attraverso la socializzazione galante del sapere, evidente quest’ultima nell’esplicito riferimento agli uomini e alle donne che partecipano al gioco. Ne scaturisce a sua volta una poligrafia nutrita di erudizione umanistica, del tutto familiare alle ricerche sulla mitologia, ma che si presta senza troppe reticenze ad ammiccamenti e a letture semplificate, talvolta corrive, sempre funzionali però all’impostazione ludica del volume e al suo necessario successo editoriale, aspetto mercantile della produzione culturale – carattere quasi ontologico della stampa – che s’inserisce in un momento davvero sperimentale legato all’azione di un gruppo di letterati tra i quali primeggia, naturalmente, l’Aretino. Sotto questo profilo, le incisioni erotiche dei Modi, degli Amori degli Dei e, in campo letterario, i Sonetti lussuriosi del letterato toscano avevano anticipato il passaggio, eversivo, dagli orizzonti protetti della tradizione classica ad una sua contestualizzazione, dirompente e per certi versi non priva di pericoli389. Come là l’unione di Venere e Marte scivolava dall’Olimpo al lupanare, la dottrina allegorica e mitologica – impalcatura concettuale per le illustrazioni delle Sorti – si scioglie e viene offerta quasi senza filtri a soddisfare la curiosità implicita nel gioco e nel “libro di ventura”: il silenzio ermetico del simbolo e dell’immagine geroglifica diventano oggetto di scherzo e arguzia, rappresentando il tentativo di aprire ad una platea molto più ampia un mondo di parole ed immagini che fino ad allora era stato saldamente monopolizzato da circoli esclusivi ed elitari.

‘“E chi non vede senza meraviglia l’opere di Francesco Marcolini da Forli ? Il qual, oltre all’altre cose, stampò il libro di Giardino de’ pensieri, in legno, ponendo nel principio una sfera d’astrologi, e la sua testa col disegno di Giuseppe Porta da Castelnuovo della Garfagnana; nel qual libro sono figurate varie fantasie: il Fato, l’Invidia, la Calamità, la Timidità, la Laude, e molte altre cose simili, che furono tenute bellissime”390

Il corredo si apre infatti su di un sontuoso frontespizio, prima opera firmata da Giuseppe Porta a un anno del suo arrivo a Venezia: ispirata, al limite del plagio, ad un’incisione di Marco Dente, l’articolata composizione raffigura, immersi in un arioso paesaggio, tre gruppi di personaggi. Nello sfondo, un gruppo di filosofi si riunisce “in disputa” intorno ad un libro, non a caso sotto un portico; nel piano intermedio, discutono rivolgendo i loro sguardi ad una sfera armillare, mentre nel primo piano, una giovane donna invita un giovane “malinconico” ad unirsi a lei nel gioco delle Sorti – rappresentate, quasi in una mise en abyme, dal libro stesso - sotto lo sguardo di due filosofi391 [Fig.16].

Il libro prosegue con il ritratto – la “testa” - del Marcolini inquadrato in una cornice architettonica: anch’esso, sulla base della testimonianza del Vasari, opera del Porta, si rifà a quello dell’Ariosto su disegno tizianesco, che fu considerato quale modello per i ritratti degli autori dell’Accademia dei Pellegrini, pubblicati dallo stesso Marcolini392 [Fig.17].

L’attribuzione delle “varie fantasie” e dei filosofi é ancora questione aperta e dibattuta, un “nodo gordiano” per dirla con il Casali: sicuramente il corredo é frutto di un lavoro a più mani all’interno dell’officina marcoliniana, tra cui sono sicuramente da riconoscere quelle del Porta, probabile autore della maggior parte dei Filosofi e alcune figure allegoriche, di Lamberto Sustris, allora appena giunto in Veneto e cui sarebbero invece da attribuire molte delle Allegorie, e dello stesso Salviati - in particolare in figure di grande virtuosità anatomica, come il Sapere, la Frode, la Virilità e in alcuni filosofi - cui oggi si propone di associare, in alcune delle Allegorie, anche Francesco Menzocchi393 [Fig.18-20].

Molte delle xilografie delle Sorti furono reimpiegate, combinate ed accostate ad altre, pure di reimpiego, provenienti dal fondo fiorentino del Doni, in alcune sue opere tra cui la Zucca (1551), la Moral Filosofia (1552), e I Mondi (1552), che il Marcolini stampò nel suo ultimo periodo di attività, dando vita ad un’operazione intellettuale altamente raffinata, di vera e propria riscrittura visivo-letteraria394. Tanto la serie dei Filosofi che quella delle Allegorie, si ritrovano poi reimpiegate in numerose edizioni del secolo successivo395.

Se le xilografie delle Sorti rappresentarono, pur nella loro disparità qualitativa, un vasto repertorio di tipi manieristi, nei particolari fisionomici, nell’abbigliamento, nelle pose, nei gesti spesso forzati, esse, e in particolare le Allegorie fornirono uno straordinario catalogo di immagini che, sebbene destinato a breve fortuna almeno nel loro contesto originario (come gli altri libri di ventura furono inserite nell’Indice del 1559 e così condannate all’oblio), s’inserisce a pieno titolo nella fase nascente dell’emblematica cinquecentesca, alla quale il libro illustrato contribuì in maniera decisiva396. In questo processo, avviato con la pubblicazione dell’Hypnerotomachia Poliphili, della prima edizione greca degli Hieroglyphica (1505) e poi degli Emblemata dell’Alciati (1531) le immagini a corredo dei quesiti marcoliniani rivestirono un ruolo di grande importanza in quel dialogo e in quella simbiosi tra parola e immagine, elemento saliente della nuova “scienza”397. Precocemente trasformate in una serie allegorica dove il significato delle diverse immagini veniva ad essere fissato da iscrizione e commento, esse poterono servire da fonte d’ispirazione non solo per i pittori veneziani del “Manierismo di stato” del sesto decennio, ovvero l’équipe attiva nella Libreria Marciana in Palazzo Ducale, ma anche per i decori delle ville della terraferma - come quello veronesiano a Maser - e per una ricca produzione di trattati398.

Prima della sua partenza da Venezia, Francesco Salviati ebbe certamente modo di lavorare per altre tipografie - lo attesta la seconda marca tipografica di Michele Tramezzino, raffigurante la Sibilla e apparsa per la prima volta nei Commentaria R. P. D. Ludovici Gomes Episcopi Sarnensi (1540) – e a lasciare almeno una prova della sua abilità come miniatore nel cosiddetto “Missale Grimani”[Fig.21] 399.

Come Francesco Salviati, anche Giorgio Vasari fornì dei disegni per un’edizione marcoliniana : si tratta di due xilografie raffiguranti il Martirio di Santa Caterina e gli Angeli che trasportano il corpo della santa per la Vita di Santa Caterina di Pietro Aretino, pubblicata nel 1540400 [Fig.22].

Diventato veneziano d’adozione, anche Giuseppe Porta ebbe altre occasioni per firmare xilografie destinate all’editoria : portano la sua firma una Crocifissione e una Lucrezia per cui l’editore di probabile origine tedesca Giovanni Ostaus aveva ottenuto privilegio di stampa nel 1556401 [Fig.23], ricordate tra l’altro dal Ridolfi, che elenca

‘“altre cose disegnate di sua mano, tra le quali il Christo in Croce descritto della Sala del Doge, l’Historie della Bibbia, le figure de’ Filosofi nel libro delle vite loro, e Lucretia con le sue Damigelle poste a cucire”402

Quest’ultimo foglio costituisce tra l’altro un documento di primaria importanza, dal momento che doveva probabilmente riprendere la stessa composizione che compariva sugli affreschi perduti con cui il Porta aveva decorato la facciata del veneziano Palazzo Loredan in campo Santo Stefano, descritta dal Ridolfi come

‘“Lucretia in esercitio con le serve sopravenuta dal marito a da Tarquinio”403

Il Porta s’interessò anche di matematica e d’architettura, ottenendo il privilegio per una pubblicazione sul capitello ionico, naturalmente stampata dal Marcolini404.

Al di là di alcuni casi particolari, i tosco-romani non esercitarono un’influenza particolarmente incisiva sull’arte veneziana. Similmente, i libri alla marca della “Verità figlia del Tempo” alla cui illustrazione parteciparono i Salviati e Vasari e quelli che si fregiano dei diversi ritratti ispirati agl’illustri precedenti tizianeschi (si pensi ai sei diversi dell’Aretino, pubblicati in opere datate tra il 1534 e il 1542) rappresentarono degli episodi piuttosto isolati, quasi degl’eccezionali “libri d’artista”.

Un altro hapax, datato sempre 1541, risultano essere anche le sei vivacissime quanto - non per niente - “oniriche” xilografie del bizzarro Sogno del Caravia, episodio singolare in sé, quanto come edizione figurata nel catalogo di Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio405. L’originalità del disegno, il tratteggio incrociato, a creare ampie zone di densa ombreggiatura e a suggerire i volumi, insieme alla cesellata definizione dei dettagli, già tutta calcografica, fanno di queste xilografie la degna descrizione del sogno di un orafo [Fig.24].

Al di là di questi episodi di estremo aggiornamento, dunque, l’illustrazione editoriale veneziana continuerà a seguire una propria tradizione, pur accogliendo gli elementi di novità che sentiva maggiormente consoni alle proprie modalità.

Notes
359.

Per i rapporti artistici fra Venezia e Roma durante il corso del Cinquecento, cfr. Hochmann 2004.

360.

Per l’interesse e la conoscenza dell’opera di Raffaello e Michelangelo a Venezia durante il primo terzo del secolo, cfr. Hochmann 2004, pp. 163-242 ; per Michelangelo anche Furlan 1996. Per il “protomanierismo” del Pordenone, cfr. Pallucchini 1981, p. 13. Per il cartone di Raffaello nella collezione Grimani, cfr. Shearman 1995, p. 252.

361.

La codificazione di tale concetto nasce da studi relativamente recenti : la prima concreta manifestazione é in Coletti 1941, ma fondamentale rimane Pallucchini 1981, completato dai numerosi interventi successivi dello stesso autore, e da Argan 1984. La ricostruzione della vicenda critica é chiaramente esposta ora in Rossi 2004 cui si aggiunga anche Benvenuti 1984, Hochmann 2004, pp. 245-359 e Pedrocco 2004.

362.

Per la situazione veneziana e il “mito di Venezia”, cfr. cap. I.3.

363.

Cfr. W. Lotz, The Roman Legacy in Sansovino’s Venetian Buildings “Journal of the Society of Architectural Historians”, XXII (1963), pp. 3-12, ora in Idem, Studies in Italian Renaissance Architecture, Cambridge Mass., 1977 e D. Lewis, Sansovino and Venetian Architecture, “The Burlington Magazine”, CXXI (1979), pp. 38-41.

364.

Per il Sansovino scultore, cfr. B. Boucher, The Sculpture of Jacopo Sansovino, New Haven-London, 1991 e Boucher 1984.

365.

Per l’Ammannati, cfr. M. Kiene, Bartolomeo Ammannati, Milano, 1995.

366.

Cfr. Acquilecchia 1980; Hochmann 1992, pp. 123-127.

367.

Sulle relazioni tra il Vasari e l’Aretino, cfr. D. Mc Tavish, Vasari e Pietro Aretino, in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, catalogo della mostra (Arezzo, 1981), Firenze, 1981, pp. 108-110.

368.

Per lo Schiavone, cfr. F. L. Richardson, Andrea Schiavone, Oxford, 1980 e bibliografia aggiornata in Callegari 2005, pp. 130-31; per il suo ruolo di veicolo della maniera parmigianinesca, cfr. Rossi 1984. Per Alessandro Vittoria, cfr. Ghersi 1998.

369.

Per i rapporti dell’arte di Parmigianino con quella figurativa veneta, cfr. Dillon 1980 ; Marinelli 1999 e 2002. Per la sua opera “tradotta” ad incisione, cfr. Parmigianino tradotto 2003.

370.

Per Battista Franco, cfr. Pallucchini 1981, pp. 44-46 e W. R. Rearick, Battista Franco and the Grimani Chapel, “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 1959, pp. 105-139.

371.

Per il di Mio e il Bordon, cfr. Pallucchini 1981, pp. 20-23.

372.

Per il ruolo delle famiglie papaliste dei Grimani e dei Corner nella committenza artistica veneziana, cfr. J. Schulz, Venetian Painted Ceilings of the Renaissance, Berkley-Los Angeles, 1968; Hochmann 1992.

373.

Vasari-Milanesi 1906, VII, p. 19.

374.

Per il soggiorno di Francesco Salviati a Venezia e la decorazione di Palazzo Grimani, cfr. Pallucchini 1981, pp. 15-17 ; I. Cheney, Francesco Salviati (1510-1563), Ph.D. Dissertation, New York University, Ann Arbor, Michigan, 1963, pp.81-9 ; Cheney 1963 ; M. Hirst, Three ceiling decorations by Francesco Salviati, “Zeitschrisft für Kunstgeschichte”, 26 (1963), pp. 146-165; Hochmann 1998 e 2004, pp. 255-268. Per la sua attività nel campo editoriale, cfr. infra

375.

Cfr. Pallucchini 1981, pp. 15-19; Schultz 1961; Hochmann 2004, pp. 269-282. Senza dubbio, la Talanta rappresentò per il milieu dei “fuoriusciti” fiorentini l’occasione per una sorta di dimostrazione del fasto e della grandezza della loro patria perduta e dei suoi artisti. Cfr. L. Venturi, Le compagnie della calza (sec. XV-XVI), Venezia, 1909, p. 111; F. Mancini-M. T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto. Venezia, t. I, Teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia, 1995, pp. 41-66.

376.

Nato a Castelnuovo di Garfagnana, il Porta aveva svolto il suo apprendistato a Roma presso il Salviati, che accopagnò appunto a Venezia. Cfr. Pallucchini 1975 e Mc Tavish 1981.

377.

Cfr. infra.

378.

Per il Marcolini, cfr. Servolini 1940 e 1950 e 1958 ; Casali 1953 ; Gentili 1980 e Quondam 1980, Van Hasselt 2004 e cap. I.

379.

Il Marcolini pubblicò 36 edizioni di 18 titoli dell’Aretino tra il 1534 e il 1545, 5 edizioni di due titoli del Serlio tra il 1537 e il 1544, 12 edizioni di 8 titoli del Doni tra il 1551 e il 1555 e 3 edizioni del Brusantino tra il 1551 e il 1554, cfr. Quondam 1980. L’Accademia dei Pellegrini appare come un sodalizio, fondato a Venezia nel 1550, che si era proposto di raccogliere, sotto il patrocinio di eminenti patrizi, un numero relativamente ristretto di associati anche non nobili, per lo più forestieri o residenti all’estero (donde il nome di Pellegrini). Lo statuto, che pare imponesse agli associati il riserbo (cioé la rinuncia a dichiararsi accademici quando firmavano con il loro nome), e l’obbligo stretto di celarsi scrupolosamente sotto i “cognomi” assunti tra i Pellegrini, nonché l’aria di mistero e il sospetto di mistificazione che affliggono le testimonianze del Doni sulle attività accademiche (o su qualsiasi altro argomento), non consentono di afferrare più precisamente il senso delle attività del cenacolo. Si sa soltanto che i Pellegrini dovevano avere interessi per i problemi delle arti figurative e dello spettacolo, come dimostrerebbero sia la parte che vi ebbero teorici o critici quali il Doni stesso, Francesco Sansovino e Ludovico Dolce e artisti quali Tiziano, Tintoretto e il Salviati, sia il grandioso e irrealizzato progetto di un teatro accademico da costruire nientemeno che presso la tomba del Petrarca ad Arquà. Cfr. Masi 1999; M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, 1926-27, IV, pp. 244-48. Acquilecchia 1980, pp. 61-98; G. Padoan, La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia “regolare”, in Storia della cultura veneta 3/III, pp. 377-465: 455; Di Filippo Bareggi 1988.

380.

La tecnica del Petrucci permetteva di velocizzare notevolmente il procedimento d’impressione. Nonostante siano molto poche le partizioni uscite dai torchi del Marcolini ad esserci pervenute, possiamo dedurre l’importanza di questo aspetto della sua attività dal privilegio accordatogli dal Senato veneziano nel 1536 che gli assicurava il monopolio decennale della nuova tecnica. Cfr. C. Sartori, Dizionario degli editori musicali italiani : tipografi, incisori, librai-editori, Firenze, 1958, p. 95. Fenlon, Musica e stampa nell’Italia del Rinascimento, Milano, 2001, p. 25. Per il Marcolini “forse” xilografo, cfr. infra.

381.

Si pensi ad esempio all’edizione del Quarto Libro del Serlio in cui le illustrazioni non sono subordinate al testo, ma in vera e propria simbiosi con esso. Le scelte tipografiche variano da pagina a pagina, per riprodurre sulle due pagine aperte, sul folio insomma, l’insieme completo dell’immagine e del testo cui si riferisce. Cfr. Van Hasselt 2004, p. 85.

382.

L’emblema della “Verità figlia del Tempo” – che appare per la prima volta nel Canter liber quinque missarum di Adrian Willaert del 1536, é strettamente in relazione con la trattazione che del tema della Verità fa l’Aretino nel Ragionamento delle Corti, di cui il Marcolini pubblica la prima edizione nel 1538: gli interlocutori del dialogo s’intrattengono appunto nel “giardinetto del Marcolino ventaglio de la state”, locus amoenus e “protetto” che garantisce loro la libertà, appunto, di criticare la corte, sinonimo di menzogna. Il “giardino” del Marcolini, la sua tipografia, insomma, é il luogo in cui la verità (tutta aretiniana) e la libertà veneziana possono regnare sovrane. Cfr. F. Saxl, Veritas filia Temporis in Philosophy and history. Essays presented to Ernst Cassirer, ed. R. Klibansky and H. J. Paton, Gloucester, Mass., 1936, pp. 197-202; G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Sansoni, 1940; Quondam 1980, pp. 76-77.

383.

La xilografia é a chiaroscuro, a due legni, nero e bruno e misura mm. 162x125. Cfr. Mauroner 1943, n. 12 ; Muraro-Rosand 1976, n. 53, p. 118.

“Et voluto che le lode della terrena Angela si formino dal canto d’un Pastore”,

poetava infatti l’Aretino:

Il Thoscano Pastor, che il vero tene / Sculto nel fronte, sopra un tronco assiso, / Gli occhi al ciel volti, a la sua Dea il pensiero / Cosi a dir move in suon piano, et altero. / Gloriose, soprane, amiche Stelle;/ Che infondete in altrui senno, e valore: / O lucerne del ciel viventi, e belle: / Di colui, che vi assese, eterno honore; / Gioite ne vostri ordini: che quelle Pioveste gratie, col divin favore / Ne la SIRENA angelica, son tali; / Che vi fanno conoscer da i mortali.

L’attribuzione a Tiziano é stata avanzata soprattutto in base ai confronti con la figura del mendicante della pala di S. Giovanni Elemosinario. L’intero progetto, la stampa, cioé, e la xilografia che la decora, può essere considerato come una testimonianza dei legami d’amicizia fra il pittore, il poeta e l’editore. Il blocco con il solo disegno fu in seguito reimpiegato dal Marcolini ne I Mondi del Doni pubblicati nel 1552.

384.

La Vita di Maria Vergine di Messer Pietro Aretino, Venezia, Marcolini, 1539 :

“La stupenda, la maravigliosa, e la ineffabil visione haveva rapiti in mon le fronti, le ciglia, le luci, le bocche, le braccia, e le menti di Pietro, di Mathia, di Giovanni, e de gli altri fratelli in Christo Giesu; che astratti nel miracolo parevano gli Apostoli commossi da quei gesti ammirativi, che dopo il grandissimo Michelangelo Buonaroti et il singular Titiano Veccellio sapria fare lo illustre stile del chiaro Francesco Salviati giovane celeberrimo”.

Cfr. Mc Tavish 1981, pp. 35-36 ; Hochmann 1998, la scheda di A. Cecchi in Francesco Salviati 1998, n. 135, p. 326 e Hochmann 2004, p. 257. La nascita della Vergine fu reimpiegata dal Marcolini ne la La zucca del Doni (1551).

385.

Cfr. Mc Tavish 1981, pp. 32-34. Al ritratto fanno allusione una lettera dell’artista all’Aretino del 20 agosto 1542 e una lettera del Marcolini all’Aretino del 15 settembre 1555. Il Marcolini reimpiegò il ritratto per la Vita di Catarina Vergine, nel 1540 e per l’edizione de I Mondi del 1552. 

386.

Le Sorti intitulate Giardino di Pensieri, Venezia, Marcolini, 1540, dedicato ad Ercole d’Este duca di Ferrara. Il titolo del 1550 diventa Le ingeniose sorti [...] intitulate Giardino di Pensieri. Cfr. Servolini 1953, nn. 54 e 76, pp. 119-130 e 175-178. La bibliografia su questo libro-gioco, così interessante sotto tanti aspetti diversi e soprattutto in relazione alle questioni iconografiche e attributive delle xilografie, é assai nutrita : cfr. Cheney 1963 ; Ballarin 1967 ; Mortimer 1974, nn. 279-280, pp. 408-414 ; Pallucchini 1975 ; Quondam 1980, p. 77 e Gentili 1980 ; le schede di G. Dillon in Tiziano a El Greco 1981, nn. 174-175, pp. 322-23 ; Mc Tavish 1981, pp. 64-122 ; Mancini 1987 e 1993 ; L. Nadin, Carte da gioco e letteratura tra Quattrocento e Ottocento, Lucca, 1997, pp. 35-85 ; M.-C. Van Hasselt 1997; ringrazio Enrico Parlato e Maria Cristina Misiti per avermi gentilmente fornito i loro testi inediti, Le allegorie del giardino delle ‘Sorti’ e La “diligenza” e i fogli “gentili”. Lettura “bibliografica” delle edizioni 500esche delle “Sorti” destinati ad accompagnare l’edizione anastatica del testo.

387.

Pur proponendosi in veste più dotta, ma senza perdere del tutto la loro più antica connotazione, le Sorti si inseriscono nella tradizione dei “libri di sorte”, “libri-gioco” rinascimentali, per cui, cfr. Van Hasselt 1997; C. Van Hasselt, Le cadre référentiel des “libri di sorti” de P. Danza (1536) et de G. Parabosco (1552): un système casual in Livre illustré 1999, pp. 51-76; C. Lastraioli, “Libri-gioco” e libri sul gioco illustrati del Rinascimento, in Lettere a Arti nel Rinascimento, atti del convegno (Chianciano-Pienza, 1998), a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, 2000, pp. 387-413; O. Niccoli, Guardare il futuro, libri di profezie e di pronostici di divinazione, in Vita nei libri 2003, pp. 179-185.

388.

Nell’edizione del 1550, le 50 allegorie (mm 78x78 circa) e le 50 vignette raffiguranti i filosofi (mm 63x92 circa) risultano alternate, mentre nell’edizione 1540 i Filosofi erano radunati in una sezione separata alla fine del volume. Sette xilografie della serie dei Filosofi, che appaiono ripetute nell’edizione del 1540, sono sostituiti da altrettanti legni inediti nell’edizione 1550. Cfr. Mortimer 1974, p. 499 e G. Dillon in Tiziano a El Greco 1981, p. 322.

389.

Cfr. B. Talvacchia 1999.

390.

Vasari-milanesi 1968, V, p. 343. Vasari parla dell’opera marcoliniana nella Vita di Marcantonio Bolognese, parlando delle “molte carte in legno ed in rame bellissime” stampate a Venezia. L’elogio vasariano, anche perché inserito in un discorso sulle stampe e gli incisori, é stato spesso riportato per accreditare una presunta attività del Marcolini come intagliatore o anche disegnatore delle xilografie incluse nelle sue edizioni, e non si può escludere che abbia intagliato effettivamente alcuni frontespizi forniti da altri come lo stesso frontespizio delle Sorti o il proprio ritratto per l’edizione del 1540. Ma bisogna anche considerare che il Vasari ricorda subito sotto, e sempre per le sue lodevoli figure, Gabriele Giolito De’ Ferrari, che non svolse, per quanto ne sappiamo, alcuna attività artistica. In realtà, anche Pietro Aretino, nella sua Cortigiana, stampata dallo stesso Marcolini nel 1535, sembra alludere alla fama del forlivese come xilografo:

“Non niego che Marcantonio [Raimondi] non fusse unico nel burino, ma Gian Iacopo Caralio Veronese suo allievo lo passa, come si vede nelle opere intagliate da lui in rame. E ci è il pien di virtù, fiorito ingegno, il forlivese Francesco Marcolini”.

Cfr. Muraro-Rosand 1976, pp. 141-42; Pallucchini 1981, n. 175, pp. 322-23.

391.

Per il frontespizio, cfr. Muraro-Rosand 1976, n. 90, p. 145 ; Gentili 1980 ; G. Dillon in Tiziano a El Greco 1981, n. 174, p. 322 ; Mc Tavish 1981, p. 74-79 ; Witcombe 1983 ; Legni incisi 1986, n. 70. Sulla base di questa composizione si sono potute riferire all’inizio dell’attività veneziana del Porta la Caduta della manna, di collezione privata, e la Resurrezione di Lazzaro, della Fondazione Cini. Cfr. Pallucchini 1975. Per il rapporto con il frontespizio dell’opera, per molti versi analoga, di Sigismondo Fanti, cfr. D. Von Hadeln, A Ferrarese drawing for a Venetian woodcuts “Burlington Magazine”, 48 (1926), p. 301 e The frontispiece to Sigismondo Fanti’s “Triompho di Fortuna”, “Journal of Warburg and Courtaul Institute” X (1947), pp. 155-159; R. Eisler, The frontispiece to Sigismondo Fanti’s Triompho di Fortuna, in “Journal of Warburg and Courtauld Institute”, X (1974), pp. 155-159; Mortimer 1974, n. 180, p. 257; Gentili 1980, pp. 117-120 e Mc Tavish 1981, pp. 70-71.

392.

Cfr. Mauroner 1946, n. 7 ; Muraro-Rosand 1976, n. 89, p. 145, Mc Tavish 1981, pp. 79-86 L’edizione del 1550 si fregia di un ritratto diverso. Entrambe furono riutilizzati in altre edizioni marcoliniane e non : il primo, ad esempio, in tre opere del Doni, a p. 64 de La moral’filosofia (1552), a p. 33 de I Mondi (1552) e a p. 15 della IV parte de I Marmi (1552) ; il secondo, anch’esso ne I Mondi doniani e entrambe ne Il vago, & dilettevole giardino di Luigi Contarino, Venezia, Vecchi, 1619. L’inquadramento architettonico é quello già impiegato nell’edizione dell’edizione del Quarto Libro del Serlio (1537), reinciso per l’edizione 1550, cfr. Mortimer 1974, nn. 279-80, pp. 408-9 e M. C. Van Hasselt in Sebastiano Serlio 2004, pp. 90-91.

393.

Cfr. R. Pallucchini, La giovinezza del Tintoretto, Milano, 1950, pp. 41-46 ; Casali 1953, p. 124 ; Cheney 1963 ; Ballarin 1967, Pallucchini 1975 e soprattutto Mc Tavish 1981, pp. 93-108 ; per il ruolo del Sustris, cui sono attribuite ora molte delle Allegorie sulla base delle affinità tra di esse e le sue tele illustranti la Tavola di Cebete – pubblicata fra l’altro dal Marcolini nel 1538 nella traduzione di Francesco Angelo Coccio - nonché il ricorrere di citazioni palmari delle xilografie marcoliniane nella decorazione della villa Bigolin a Selvazzano, cfr. Ballarin 1962 ; Mancini 1987 e 1993, pp. 1-5 e 85-89. La partecipazione di Sustris all’illustrazione delle Sorti costituirebbe il legame fra gli anni romani, dove é documentato fino al 1536, e gli esordi veneziani. La comune esperienza nell’Urbe potrebbe aver reso più semplice la sua integrazione in un’équipe di illustratori per i quali iil Salviati era evidentemente un modello; ultimamente, per il Menzocchi, anch’esso assorbito nell’orbita dei tosco-romani e con contatti documentati con il conterraneo forlivese Marcolini, cfr. Bistrot-Ceriana 2003 ; per una disamina completa ed aggiornata delle varie proposte attributive il saggio di E. Parlato Le allegorie del giardino delle ‘Sorti’ di prossima pubblicazione, che offre anche un’eccellente analisi della costruzione iconografica delle Allegorie. Sarebbe da inserire nelle invenzioni salviatesche anche la figura della Verità, “reciclaggio” dell’emblema tipografico del Marcolini. Per evidenti motivi cronologici, l’allegoria non poté di certo essere disegnata dal Salviati a Venezia, ma l’ambito di riferimento rimane ancorato alla cultura figurativa fiorentina. Mancano al momento riscontri necessariamente più solidi, tuttavia se il precoce interesse di Marcolini per la cultura figurativa toscana si dimostrasse fondato, gli apparati illustrativi delle Sorti non sarebbero solo il risultato di una felice concatenazione di eventi conseguente all’arrivo dei Salviati a Venezia, ma piuttosto l’esito di un premeditato interesse coltivato negl’anni.

394.

Ne I Mondi, ad esempio, un buon numero di legni delle Sorti e l’Annunciazione della Vita di Maria Vergine aretiniana si trovano associate a xilografie già impiegate in altre edizioni marcoliniane e dello stesso Doni, cfr. Casali 1953, p. 177, Mortimer 1974, n. 165-66, pp. 233 ss.; G. Dillon in Tiziano a El Greco 1981, pp. 322-23, Mc Tavish 1981, pp. 108-122. Per il reimpiego “creativo” nelle opere del Doni, cfr. L. Bolzoni, Riuso e riscrittura di immagini dal Palatino al Della Porta, dal Doni a Federico Zuccari, al Toscanella, in Scritture di scritture 1987, pp. 190 ss.; G. Masi, “Quelle discordanze sì perfette”. Anton Francesco Doni 1551-1553, in “Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria”, LIII, n.s. XXXIX (1988), p. 29; Quiviger 1988, pp. 55-59; A. F. Doni, I Mondi e gli Inferni, a cura di P. Pellizzari, Torino, 1994; Bolzoni 1995; Masi 1999 e Plaisance 1999; Mulinacci 2000.

395.

Le xilografie dei filosofi si ritrovano nel Compendio delle Vite de’ Filosofi Antichi Greci et Latini, Et delle Sentenze, & Detti loro notabili. Tratte da Laertio […] di Gioachino Grugnolo, edito a Venezia nel 1598, e di nuovo in altre due edizioni veneziane, nel Delle vite de’Filosofi di G. F. Astolfi stampato dal Bertoni nel 1606 e nella Selva Rinovata di varia lettione di Pietro Mexia, stampata dai fratelli Dei nel 1616. Cfr. Mc Tavish 1981, pp. 115-118.

396.

Per l’Indice del 1559 cfr. Bujanda 1990, p. 285, n. 072 e cap. II.

397.

Cfr. F. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di G. Pozzi e L. A. Ciapponi, Padova, 1980 ; per le vicende editoriale degli Hieroglyphica del Valeriano stampati per la prima volta a Firenze nel gennaio del 1556 dal Torrentino e poi, in quella che si considera la vera princeps, a Basilea qualche mese dopo, cfr. P. Pellegrini, Piero Valeriano e la tipografia del Cinquecento : nascita, storia e bibliografia di un umanista, Udine, 2002, pp. 91-97 con bibliografia ; per l’Alciati, cfr. Andrea Alciato and the Emblem Tradition : Essays in Honor of Virginia Woods Callahan, éd. P. M. Daly, New York, 1989.

398.

Enea Vico, che intratteneva stretti rapporti con il Doni e quindi con la cerchia dell’Aretino, tradusse a bulino, traendole dal libro, 42 delle 50 xilografie, fatto che emerge in maniera indubitabile dalla posizione in controparte. Cfr. Bartsch XV, nn. 50-91, pp. 306 ss. ; Bodon 1997, pp. 26-29 ; Nova 1998, p. 68, n. 34. La sua serie fu a sua volta venne incisa in controparte da Jacques Androuet du Cerceau, mentre alcune immagini vennero copiate da Luca Penni e da Virgil Solis, probabilmente traendo il modello dal Vico, cfr. Linzener 1932, nn. 44-49, Fontainebleau et l’estampe 1985, p. 46. Sull’influenza delle Sorti, cfr. C. Hope, Veronese and the Venetian Tradition of Allegory, in “Proceedings of the British Academy”, t. 71 (1985), pp. 389-428, Hope 1990 e Idem, Classical Antiquity and Venetian Renaissance subject matter, in New Interpretation of Venetian Renaissance Painting, ed. F. Ames-Lewis, London, 1994, p. 58.

399.

Il Tramezzino era un grande ammiratore di Michelangelo e in stretti rapporti con i Grimani e i Corner. Pubblicò infatti un Tractatus de jurisditionis episcopalis defensione dedicato a Marino Grimani (1544), lo stesso anno i Commentarii di Giovan Candido giuresconsulto de i fatti d’Aquileia, dedicato a Vettor Grimani, e, nel 1547, L’historia ecclesiastica d’Eusebio Cesariense, dedicato a Giorgio Corner, cfr. A. Tinto, Annali tipografici del Tramezino, Firenze, 1968, pp. 8, 11, 19 e 26. Come é stato dimostrato ultimamente, anche sulla base di confronti stilistici con le opere realizzate a Palazzo Grimani, Francesco sarebbe l’autore delle iniziali ornate in camaïeu popolate di figure che ornano questo Pontificale, eseguite dunque molto probabilmente durante il soggiorno veneziano. Cfr. A. Stabile, Miniature di Francesco Salviati, “Prospettiva”, nn. 75-76 (1994), pp. 153-160, la scheda di M. Hochmann in Francesco Salviati 1998, n. 132, pp. 320-21 e Hochmann 2004, pp. 263-64.

400.

La Vita di Santa Caterina é un’opera ricordata più volte nelle lettere dello scrittore dal febbraio al dicembre 1540, preceduta da una lettera dedicatoria indirizzata, da Venezia, al marchese del Vasto, Alfonso d’Avalos, il 25 dicembre 1540. La composizione del Martirio é molto vicina a quella dell’Allegoria dell’Immacolata Concezione, che Giorgio eseguì lo stesso anno per Bindo Altoviti, cfr. la scheda di G. Dillon in Tizano a El Greco 1981, n. 178, p. 324 ; Nova 1998, p. 66 e n. 3, p. 69, Hochmann 2004, p. 270 e n. 91.

401.

In data 30 giugno 1556 Giovanni Ostaus richiedeva un privilegio per un “Disegno del Crucifixo de Joseph Salviati con alcune scritture intorno” che fa pensare che originariamente la Crocifissione – che corrisponde ad un dipinto già in Palazzo Ducale - fosse accompagnata da un testo, come del resto risulta da una copia pubblicata un anno più tardi da Sigismondo Feierabend che reca appunto un testo in lingua tedesca. Nel testo del privilegio, poco dopo si faceva cenno a un “libretto di disegni et recami”, ovvero La vera perfettione del disegno di varie sorti di ricami, in cui compare la Lucrezia, al v. della c. 2, pubblicato dall’Ostaus nel 1557. La scelta del soggetto della xilografia non dipende solamente dal nome di Lucrezia Contarini, cui il libro era dedicato, ma anche dal significato più largo che s’intendeva dare, sia all’immagine che alla materia del libro. Con questa pubblicazione evidentemente si voleva incoraggiare un’attività che avrebbe contribuito a garantire le virtù domestiche delle donne veneziane, delle quali la virtuosa Lucrezia costituiva il più classico esempio. Ciò, del resto, é dichiarato dal testo che commenta l’immagine:

“Modo bellissimo di trattenere le sue figliuole in opera, come faceva la casta Lucretia Romana le sue Damigelle. Cosi come da Tarquinii insieme col suo marito Collatino, fu trovata in mezo d’esse a lavorare. Nel primo libro delle Deche di T. Livio”

Cfr. Muraro-Rosand 1976, p. 142 e schede nn. 91 e 92, pp. 145-46 ; Mc Tavish 1981, nn. 4 e 5, pp. 369-71. Per le tavole dei modelli veri e propri di questa raccolta, cfr. infra.

402.

Ridolfi 1648, I, p. 244.

403.

Ibidem I, p. 241. All’Ashmolean Museum di Oxford é conservato un disegno che rappresenta lo stesso soggetto, a rovescio e in formato verticale, che sembrerebbe far pensare che lo stesso Salviati sia intervenuto a ridurre in forma orizzontale il soggetto ad uso dell’intagliatore della xilografia. Cfr. K. T. Parker, Catalogue of the Collection of Drawings in the Ashmolean Museum, II, Italian Schools, Oxford, 1972, n. 687, ill. CLIII.

404.

Regola di far perfettamente col compasso la voluta et del capitello ionico et d’ogn’altra sorte. Per Iosephe Salviati pittore ritrovata, Venezia, Marcolini, 1552. Cfr. Casali 1953, n. 90.

405.

Cfr. Gentili 1991 con bibliografia precedente ; Sul Caravia e sul processo inquisitoriale a suo carico del 1557-59, cfr. Benini-Clementi 2000 ; Firpo 2001, pp. 180-212 con bibligrafia aggiornata. Proporrei di vedere la stessa mano responsabile di queste incisioni nelle xilografie che illustrano l’ormai rarissima edizione veneziana dei Sonetti lussuriosi dell’Aretino, per cui, cfr. Talvacchia 1999, Appendix B, pp. 198-227.