Se é legittimo cogliere nell’utilizzo dei sistemi decorativi nelle opere minori il riflesso del rapporto tra le arti maggiori e gli apparati ornamentali, certamente la decorazione editoriale veneziana di questo secondo terzo del secolo, riflette la storia del nuovo rapporto che si andava instaurando tra gli elementi costitutivi dell’ornato degli spazi interni in quello stretto giro di anni.
Già tra gli anni ‘30 e ‘40, il veneto aveva conosciuto alcuni importanti episodi di impianti con stucchi di decorazione raffaellesca e giuliesca – Falconetto e Tiziano Minio a Padova, Giovanni da Udine in Palazzo Grimani a Venezia, la decorazione in gran parte perduta della villa dei Vescovi a Luvigliano, la volta del refettorio nel convento veneziano di San Salvador – dove, entro partiti di piccolo formato e di ridotto rilievo, accanto al recupero archeologico dell’antico, emerge anche la dimensione del capriccio, del gioco, di quello spirito ludico, a metà strada tra arte e natura che caratterizzano la manifestazione fantastica della grottesca - nella sua assenza di motivazioni ideologiche - e le parti propriamente ornamentali di un apparato decorativo : un esempio eloquente sono gli ornati fantasiosi di alcuni ambienti in Palazzo Te a Mantova, come la Camera delle Aquile o la Camera dei Venti423.
Nella storia della decorazione delle ville e dei palazzi, che coinvolgeva maestranze prevalentemente di origine veronese, attive nei cantieri sanmicheliani e da qui passate in quelli di Palladio, sullo scorcio del quinto decennio si inserisce con prepotenza l’influenza di Michelangelo, probabilmente nella mediazione tutta bellifontana di Primaticcio, che stravolgeva la concezione ornamentale di matrice più propriamente classica424. E’ questo il mondo figurativo inscenato nelle stanze al pianterreno di Palazzo Thiene a Vicenza, arricchite da affreschi entro figurazioni a stucco dalle forme monumentali, anche imponenti rispetto allo spazio architettonico, eseguite da Alessandro Vittoria nelle volte del palazzo, nel 1552 circa, primo esempio in area veneta di accoglimento di queste novità. Valga su tutti l’esempio della Sala degli Dei con l’esuberanza capricciosa degli elementi ornamentali, le sagome bizzarre dei cartocci e i putti in pose scherzose e a volte impertinenti, e soprattutto con le divinità, sedute sulla cornice di imposta della volta, di proporzioni gigantesche, tanto più se paragonate alle piccole dimensioni dell’ambiente425. E’ questo uno dei documenti più precoci in area veneta di accoglimento, nei modi più complessi di accezione francese, con analoga funzione di stabilire una corrispondenza tra le parti minori della decorazione, di un importante elemento decorativo che, dal momento della sua prima introduzione, era presto evoluto in forme molto elaborate ed estrose, fortemente plastiche, di chiara matrice bellifontana, verso la metà del secolo : il cartoccio, appunto.
Diffusissimo in ogni genere di partito decorativo cinquecentesco, dagli affreschi agli stucchi, dalle stampe agl’oggetti di arredo o di oreficieria e, per quanto più ci riguarda, in frontespizi e cornici dei contemporanei “figurati”, il cartoccio é una sorta di cartiglio che si piega a volute fantasiose imitanti il cuoio, delimitando uno spazio simile a quello di uno stemma.
L’origine del motivo dalle insegne delle famiglie patrizie o dallo spazio riservato alle iscrizioni é degna di attenzione, ma é possibile chiaroscurare meglio le sue fonti ricercando le sue forme definitive nell’elaborazione che ne fece in Francia Rosso o più probabilmente Primaticcio, sviluppando suggerimenti della cultura giuliesca, appresi durante il suo apprendistato mantovano. Secondo la suggestiva ricostruzione di Anthony Blunt, Rosso sarebbe giunto ai monumentali “strap-work” di Fontainebleau elaborando l’idea dello scudo utilizzato nei monumenti funerari veneziani agli inizi del Cinquecento, “costituito da una pergamena che si stende tutt’attorno allo stemma stesso e comincia ad arrotolarsi ai lati”426. Se ora il ruolo di Rosso é stato ridimensionato, é vero che esempi di questa tipologia più semplice di cartoccio, derivata dai monumenti funerari, cominciano a diffondersi anche nei frontespizi librari, come attesta l’edizione del 1540 del Terzo Libro di Sebastiano Serlio, a indicare un primo passo per la diffusione del gusto per forme simili427 [Fig.25].
Si può seguire l’evoluzione della forma del cartoccio nell’attività editoriale e progettuale del Serlio, che, del resto, aveva potuto assorbire sia le idee di Peruzzi che quelle di Giulio Romano428. Essa si risolve nell’accentuazione dinamica di un motivo mutuato dal linguaggio architettonico, come le volute ioniche che affiancano una specchiatura e che si arrotolano non più entro due ideali piani paralleli ma con la conquista della terza dimensione: cartocci così formati compaiono nei colophon del Libro Terzo, edito dal Marcolini a Venezia nel marzo del 1540, o della seconda edizione del Libro Quarto, per gli stessi tipi (febbraio 1540) [Fig.26-27] 429.
Introdotto nella cultura veneziana del quinto decennio del secolo forse attraverso i Salvati o forse proprio per il tramite dello stesso Serlio, il cartoccio deve inizialmente la sua fortuna alle sue potenzialità decorative, in un momento in cui si stanno facendo strada a Venezia le eleganze formali della cultura salviatesca.
Già nel 1542, nella cornice superiore del disegno raffigurante Venezia come Adria, preparatorio per le scenografie della Talanta dell’Aretino, Vasari aveva impiegato tra i dettagli decorativi degli scudi accartocciati430. Anche negli affreschi con storie romane di Giuseppe Porta sulla facciata di Palazzo Loredan in campo Santo Stefano, databili al quinto decennio del secolo, tra i motivi ornamentali ricorrevano “cartelle, grotesche e festoni misti di vari frutti et herbaggi”431.
La stessa descrizione potrebbe tranquillamente applicarsi ai due splendidi frontespizi delle edizioni giolitine del poema ariostesco - quello per le edizioni in-4 (1542) e quello per i formati in-8 (1543) - e a quello, altrettanto sontuoso, per l’edizione delle Rime del Petrarca con il commento del Vellutello, anch’esso apparso per la prima volta nell’edizione del 1543 [Scheda 3, fig.3-4 e Fig.28].
Un cartoccio racchiude il titolo de Le imagini con tutti i riversi di Enea Vico, serie di biografie dei dodici Cesari con la rappresentazione delle monete coniate sotto il loro regno (1548), e ancora a forma di cartouches sono i bordi delle sue incisioni di ritratti clipeati di personaggi celebri per le Medaglie di Anton Francesco Doni, edito dal Giolito nel 1550 ma già in lavorazione da qualche anno, stando alla lettera del Giovio al Doni, datata 1548, in cui esorta a proseguire nell’impresa432 [Fig.29-30]. La diffusione é rapida: nella prima edizione delle vite vasariane del 1550, intorno all’incisione con l’Allegoria delle Arti, compare un profilo con i bordi accartocciati arricchiti da mascheroni e figure femminili433 [Fig.31].
E’ proprio in questo momento centrale del secolo, come si diceva poco sopra, che - tramite la fitta trama di relazioni tra Fontainebleau e la cultura padana, propagate tramite gli arazzi, le numerosissime incisioni che, diffuse capillarmente vennero a costituire i fogli di un vero e proprio abecedario della nuova lingua e dai frequenti viaggi in Italia dello stesso Primaticcio - si verifica l’interferenza bellifontana con il suo stimolo ad interpretare motivi di origine diversa in senso decorativo, e ad arricchire le invenzioni di libertà e stravaganze che trovano espressione nella varietà dei movimenti e delle forme434. Ne sono prova più tarda le decorazioni delle due grandi scale, la Scala d’Oro in Palazzo Ducale (1558-59) e quella della Libreria di San Marco (dopo il 1559), e quelle di nappe di caminetti, altari e dei pannelli lignei intarsiati dei soffitti, dei cori e delle sagrestie delle chiese, oltre che delle cornici435.
Un innesto fecondo in una cultura figurativa, quella della decorazione editoriale veneziana, in cui tutta la panoplia di elementi disponibili alla combinazione - festoni, putti, cariatidi e telamoni, sfingi e mascheroni – viene dispiegata in soluzioni in cui l’elemento giocoso si affianca a una dimensione dell’artificio manieristico molto più pronunciata e a un’esuberanza decorativa in cui domina il gusto per la soppressione dello spazio attraverso il riempimento eccessivo e la sovrapposizione delle forme, come avviene, tra l’altro, in tanti degli studi per oggetti di varia natura, bordure di arazzi e cartigli attribuiti, proprio a Francesco Salviati e alla sua cerchia436.
Un ultima componente da evidenziare, proprio in rapporto alle tante figure allegoriche, che, insieme ai cartouche e ai più svariati elementi decorativi, popolano i frontespizi veneziani di questi anni é una sorta di “gigantismo”: certamente anche in seguito alla presenza in Laguna dei Salviati e del Vasari, é proprio tra il quinto e i primi anni del sesto decennio, infatti, che tutta la cultura veneta dimostra un profondo interesse verso l’arte di Michelangelo, in parallelo con il rinnovarsi della maniera centroitaliana che, per effetto dello svelamento del Giudizio Universale del 1541, sta cercando una via per la divulgazione del suo linguaggio437.
Se numerosi sono i debiti dei pittori, a cominciare dallo stesso Tiziano, l’idea di gigantismo tradotta nelle sculture di proporzioni colossali eseguite in quegl’anni – pur con gli inevitabili richiami a Giulio Romano – va vista in relazione con il risentimento plastico monumentale di Michelangelo, fino agli esiti ultimi della sua pittura: si pensi solo ai Feminoni di Alessandro Vittoria sulla porta di accesso alla Libreria Marciana, ai due giganti Marte e Nettuno del Sansovino per Palazzo Ducale, ma anche alle due cariatidi del frontespizio per i Trionfi petrarcheschi dell’edizione stampata dai Nicolini da Sabbio per G. B. Pederzano e compagni (1549), le cui forme “gigantesche” si estendono alle dimensioni dei frutti della ghirlanda, e alle magniloquenti Pallade e Vittoria del frontespizio giolitino per le Trasformationi del Dolce (1553), collocate su un basamento aggettante che permette loro, nel comune intento di rivolgersi verso Giove, di potersi liberamente muovere nello spazio438 [Fig.32-32]. In esse sembra lecito cogliere un significativo riflesso di quel tentativo di sfidare la natura stessa della scultura, girando intorno alle figure scolpite, ritraendole da diversi punti di vista, in modo da suggerire in pittura la contrapposizione di posture diverse e difficili che appartiene in principio all’arte “per via di levare” presente in tanti dei fogli dei pittori veneziani contemporanei, che guardavano al maestro toscano come ad una fonte imprescindibile per l’apprendimento del disegno o per la ripresa di talune soluzioni figurative.
L’importo diretto che Giovanni da Udine fa del modello raffaellesco in Palazzo Grimani e la presenza dei Salviati a Venezia determinò la svolta culturale indispensabile per la diffusione di questi principi ornamentali nella decorazione delle ville, dei palazzi e anche degli ambienti religiosi, come ad esempio la volta del convento di San Salvador, il cui tipo di compartimentazione costituisce un ponte tra Sansovino e Giulio Romano, prova delle relazioni intrecciate tra di loro già dagli anni romani. Sansovino d’altronde, continuava a rappresentare, come già da tempo, un punto di riferimento essenziale per lo sviluppo di questo genere decorativo. Cfr. Attardi 2002, pp. 66-67 ; per Giovanni da Udine, cfr. Dacos-Furlan 1987; per San Salvador, cfr. V. Mancini, Il convento di San Salvador : gli apparati decorativi, in Progetto San Salvador. Un restauro per l’innovazione a Venezia, a cura di F. Caputo, Venezia, 1988, pp. 155-199; per la villa Vescovi, cfr. Mancini 1993, pp. 44-46. Per la grottesca, cfr. Dacos 1969; Acidini Luchinat 1982 e Chastel 1989; per Palazzo Te, cfr. A. Belluzzi, Palazzo Te a Mantova – The Palazzo Te in Mantua, Modena,1998.
Cfr. Romani 1997.
Per il Vittoria e la decorazione a stucco di palazzo Thiene, cfr. Blunt 1968, p. 159 ; Ghersi 1998, pp. 49-79 e L. Attardi, La decorazione all’antica nella Vicenza di Palladio. Alessandro Vittoria in Palazzo Bissari-Arnaldi, Vicenza, 1999.
Il termine strap-work designa un tipo di decorazione ornamentale consistente in una serie di cartocci, linee dritte, rettangoli e scudi intagliati o modellati in basso-rilievo. L’intera composizione é generalmente formata da entità figurative susseguentesi tutte su uno stesso piano. L’effetto prodotto é dunque simile a quello che si ottiene applicando una striscia elaboratamente intagliata e traforata su un piano di base. Di qui l’origine del termine (strap=striscia). Cfr. Blunt 1968.
Per l’impiego di cartocci da parte di Primaticcio, cfr. W. Mc Allister Johnson, Les débuts de Primatice à Fontainebleau “Revue de l’Art”, 6 (1969), pp. 8-18. Lo stesso studioso é il primo ad aver avanzato per primo l’ipotesi che i cartouche siano d’ispirazione mantovana e siano un apporto originale di Primaticcio a Fontainebleau, immediatamente accolto dal Rosso, cfr. W. Mc Allister Johnson in Fontainebleau 1972, nota 47, p. 169. Per Primaticcio a Fontainebleau, cfr. ora anche Primatice 2004. Che, a questa data, Serlio non si fosse ancora appropriato del cartoccio dai contorni arrotolati, é dimostrato dall’uso del termine nel testo del 1537 (Quarto Libro, I ed. Venezia Marcolini, 1537; ed. Venezia, De’Franceschi, 1584, f. 168r), in cui intende il ricciolo ionico che chiude, parallelo alla parte, la trabeazione del camino di quell’ordine. Cfr. Attardi 2002, p. 75. Per l’edizioni dei trattati Serlio, cfr. ora Sebastiano Serlio 2004, p. 81 per il Libro Terzo.
Ricordiamo che Serlio fu “professore d’architettura” a Venezia dal 1528 al 1541, cfr. Deswarte-Rosa 2004, pp. 35-36.
Come quelle che decorano la facciata corinzia del Quarto Libro (Quarto Libro, I ed. Venezia Marcolini, 1537; ed. Venezia, De’ Franceschi, 1584, f. 178v). Cfr. Sebastiano Serlio 2004, p. 79-81. Questa sorta di cartouche é presente in molte varianti nel Libro Extraordinario, pubblicato a Lione da Jean de Tournes nel 1551, ma preparato negl’anni precedenti, dopo che l’architetto bolognese si era stabilito in Francia, e nel Libro Settimo, pubblicato a Francoforte nel 1575 ad opera dello Strada. E’ importante tenere presente che il Libro Extraordinario, nato sotto il segno della libertà ornamentale, è indirizzato anche al pubblico italiano, dato che il Serlio lo pubblica nel 1551 in edizione bilingue. Chiaramente più vicino ai cartocci del castello di Fontainebleau é poi quello del frontespizio del Primo Libro tradotto da Jean Martin uscito a Parigi per i tipi di Jean Barbé nel 1545. Ibidem, pp. 145-46; 177-184 e 133.
Cfr. il disegno conservato ad Amsterdam, Rijksmuseum, Prentenkabinett, inv. 1958 :421. Cfr. Schulz 1961 ; C. Monbeig Goguel, Chronique vasarienne, “Revue de l’art”, 56 (1982), pp. 65-80.
Ridolfi 1648, I, p. 312; Mc Tavish 1981, pp. 210-12. Anche Andrea Schiavone subisce la suggestione del motivo del cartouche nello Studio per l’antependium con Antonio Grimani coronato doge da Venezia alla presenza dell’Innocenza, della Prudenza e della Fede (Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. 1938-12-10-2) databile entro la metà degli anni ’40, in cui il movimento del cartoccio nella bordura é assimilato alla fluidità del tratto dell’intero disegno. Cfr. Ballarin 1967, pp. 89-90.
La lettera del Giovio, datata 14 settembre 1548 é pubblicata in G. Bottari-S.Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, scritte da’piu celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII, 8 voll., Milano, 1822-25. Per Vico, cfr. scheda ??
Cfr. ora C.M. Simonetti, La vita delle “Vite” vasariane. Profilo storico di due edizioni, Firenze, 2005, pp. 49-89.
Cfr. ROMANI 1997.
La decorazione a stucco é in entrambe i casi opera del Vittoria, anche se sotto la probabile supervisione del Sansovino. Nella Scala d’Oro, ad elementi decorativi appartenenti ad una fase stilistica precedente, si affianca uno stile nuovo, direttamente influenzato da Fontainebleau : le volte quadripartite al di sopra dei pianerottoli contengono cartigli con cornici a strap-work, e la porta di legno del primo pianerottolo é decorata con pannelli che sono imitazioni dirette dello stile di Fontainebleau. Nella Libreria di San Marco le cupole dei pianerottoli sono decorate con pannelli che rivelano chiaramente la conoscenza dei modelli bellifontani. Cfr. Blunt 1968, p. 156 ; Schulz 1968, p. 101 e 93 ss. ; Ghersi 1998, pp. 125-133. Per i camini, cfr. Attardi 2002. Per i pannelli lignei, si pensi agli stalli della sala dell’Albergo nella scuola di San Rocco, probabilmente posteriori alla metà del settimo decennio e alle due file di S. Giorgio e della sagrestia di SS. Giovanni e Paolo. Questi due ultimi, esempi di come lo stile bellifontano, a partire dalla fine del secondo terzo del secolo, cominciasse ad essere trasmesso attraverso le incisioni di artisti fiamminghi. Per la cornice veneta, cfr. Cornice italiana 1992, pp. 46-51.
Cfr. Francesco Salviati 1998, pp. 243-317 e in particolare si pensi ad oggetti quali la “Cassetta Farnese” del Museo di Capodimonte, in cui putti, ghirlande, mensole e cariatidi sono concepiti secondo i principi decorativi dei fregi ad affresco e a stucco. Cfr. Ibidem, nn. 95-6, pp. 248-251; C. Robertson, “Il Gran Cardinale”. Alessandro Farnese Patron of the Arts, New Haven and London, 1992; la scheda di L. Martino in I Farnese, catalogo della mostra (Napoli-Monaco di Baviera), Milano, 1995, n. 149, pp. 358-361; E. Parma in Perino del Vaga 2001, pp. 302-7.
Se nel giro di pochi anni gli ambienti veneti cominciarono a contrastare l’artista toscano e la chiusura nei suoi confronti raggiunse il suo vertice nel 1557, con la pubblicazione del Dialogo della Pittura di Ludovico Dolce, la recente riconsiderazione della fortuna di Michelangelo a Venezia nel corso degli anni ’40 ha dimostrato che la condanna non é stata né unanime né coerente, soprattutto considerando che l’ammirazione di Pietro Aretino per Michalangelo rimase costante e si adoperò per un’appassionata diffusione del culto del maestro anche attraverso la richiesta di stampe e copie delle opere. Cfr. Furlan 1996.
Per le cariatidi del Vittoria, databili tra il 1553 e il 1555 cfr. Ghersi 1998, pp. 125-28 ; per il Marte e Nettuno del Sansovino, collocate sullo scalone solo nel 1567, cfr. Boucher 1984.