IV.5 - Una bottega attiva e attenta alle novità ? Proposta per un « fil rouge » attraverso l’illustrazione editoriale veneziana del secondo terzo del Cinquecento

Abbiamo visto che, soprattutto per quanto riguardava le illustrazioni del classici della nostra cultura, a Lione si riproducevano, per non dire copiavano, i corredi veneziani, rielaborandoli secondo lo stile locale.

Ma quanto ritroviamo, invece, dei libri lionesi nelle pagine veneziane ?

Dal punto di vista iconografico non si può certo parlare di apporti francesi all’illustrazione veneziana, per una questione molto semplice, ovvero la mancata condivisione degli stessi generi editoriali “figurati”: se si escludono appunto le “accoglienze” lionesi dei best sellers italiani e alcuni testi d’argomento scientifico, di medicina o botanica, Venezia non conosce né il successo delle innumerevoli serie bibliche – abbiamo già visto quanto fosse stato difficile “amortizzare” la realizzazione dello splendido corredo giolitino – né delle raccolte di emblemi o di opere d’ispirazione emblematica in senso più largo, come i “prodotti derivati”delle serie bibliche o le “riduzioni” in pochi versi delle Metamorfosi di Ovidio. Se questo sia avvenuto perché gli scambi commerciali erano tali da scoraggiare gli editori veneziani a concorrere in una fetta di mercato già conquistata dal mercato d’oltralpe é difficile dire, soprattutto in mancanza di dati sicuri e precisi riguardanti la presenza – che supponiamo massiccia - di cinquecentine straniere nelle collezioni italiane485.

Dalle pagine dei libri d’oltralpe, Venezia sembra invece accogliere, a partire dal sesto decennio del secolo, alcuni aspetti di quella rilettura della maniera italiana, “façon Fontainebleau”, che ne avevano fatto gli xilografi lionesi, con la loro grande maestria nella miniaturizzazione e nella resa dei dettagli, nelle loro invenzioni svelte e nervose di corpi allungati, in un horror vacui, nonostante le dimensioni ridottissime delle vignette, risolto in un profluvio di particolari minutissimi.

In realtà sembrerebbe più corretto, più che di flusso e di riflusso, parlare di contemporaneità di gusto e di contaminatio tra la tradizione veneziana, stilisticamente connotata da una grande attenzione ai valori chiaroscurali e volumetrici di derivazione nordica e tizianesca, e quella lionese, che le si dimostrava invece particolarmente simpatetica nel suo amore per la natura, che ritraeva gioiosa, ridondante, sontuosa ed opulenta.

Entrambe condividevano poi lo stesso valore essenzialmente decorativo del ductus incisorio, leggero ed evanescente, quasi diafano nella declinazione francese, sensuale e rigoglioso, preziosissimo, al limite del niello o dello sbalzo delle contemporanee placchette padovane, quello veneziano.

Le xilografie del Decamerone e dell’Orlando furioso Valgrisi, chiaramente opera della stessa mano, sono forse gli esempi più belli di questo incontro tra due diverse interpretazioni degli stessi fermenti manieristi, quella veneziana, oscillante tra i poli estremi della potenza michelangiolesca e della grazia di Parmigianino, e quella lionese, specchio della composita scuola bellifontana, responsabile, nell’illustrazione del libro, della diffusione a scala ridotta e cesellata. In queste tavole, che s’impossessano della piena pagina, in un pittoricismo che prelude le imminenti finezze della calcografia, il paesaggio é spesso un fondale tutto da esplorare, un tracciato alitante, un sottofondo che sembra appartenere piuttosto ad una memoria ancestrale, magica e surreale, dove tutto sembra qualcosa che improvvisamente si trasforma in qualcos’altro, in una continua e possibile metamorfosi tra umano, animale e naturale, tra prati, acque, cieli nuvolosi, fatti tutti dello stessa materia. Una linea ininterrotta, sembra generare e al tempo stesso invadere completamente la superficie dell’illustrazione, in una trama decorativa che la rende tessuto, arazzo inserito in cornici che ne sembrano imitare le bordure. Non a caso, il Decameron come l’Orlando Furioso, offrivano una bussola per la scoperta di un paesaggio curioso, aperto alla magia e alla realtà degli equivoci, dei giochi, i più surreali e i più naturali: i profili di una realtà talmente formicolante si prestano dunque perfettamente ad essere lavorati attraverso i paradigmi esclusivi del manierismo più sofisticato, lo stesso che ritraeva il bagno segreto di ninfe sorprese da satiri e divinità immerse in una natura segreta e lussureggiante.

Illustrazioni, queste, che dimostrano dunque il puntuale aggiornamento del “Maestro Valgrisi” sulle ultime novità d’oltralpe - e non stupisce, dato il suo datore di lavoro... - ma che tuttavia conservano qualcosa di irrimediabilmente veneziano. Pur rappresentandone il prodotto più alto, e più autonomo, viste anche le dimensioni “eccezionali” rispetto a quelle dei contemporanei corredi composti da vignette inserite nel corpo del testo, le tavole valgrisine sembrerebbero infatti rientrare a pieno titolo nella tradizione di una “bottega”, o comunque di uno stile veneziano comune a tutta una serie di immagini libresche, “trans-editoriali”, che iniziano a corredare le pagine uscite dai torchi di diversi editori veneziani, a partire dalla seconda metà del quarto decennio e di cui si propone, riservandosi naturalmente il beneficio d’inventario, un primo percorso.

Si propone di identificarne il primo prodotto nella piccola vignetta raffigurante Il Petrarca e fra Girolamo Malipiero nel paesaggio d’Arquà, che compare, insieme ad un ritratto del Petrarca, nel Petrarca spirituale, un commentario alla poesia petrarchesca in forma di dialogo immaginario con il poeta, opera di Girolamo Malipiero e stampato dal Marcolini nel 1536 [Fig.73].

Il ritratto del Petrarca é rieccheggiato ben presto da quello che, affiancato dall’effigie dell’amata Laura – il primo ritratto della musa petrarchesca nella tradizione a stampa - appare su di un’urna cineraria sormontata dalla Fenice giolitina nelle Rime con il commento del Vellutello (1543) [Fig.74], sostituendo l’iconografia del Petrarca umanista e poeta laureato già apparsa nel frontespizio delle precedenti edizioni per i tipi Giolito-Zanetti, una soluzione che, tra l’altro, riscuoterà grande successo proprio in Francia486 [Fig.75].

Il monogramma che si legge alla base del paesaggio fu ricostruito come quello di Johannes Breit (Giovanni Britto), maestro di origine e forse anche di educazione tedesca487. Nell’impossibilità di verificare l’attendibilità di tale supposizione, sarà bene tenerla comunque a mente, soprattutto in associazione ad altre caratteristiche dell’immagine, quali l’attenta osservazione della Natura, il carattere del segno incisorio e una certa mancanza di sintesi nell’impostazione compositiva. Esse, insieme all’attenzione lenticolare per il dettaglio e alla precisione nella resa del tratteggio parallelo responsabile delle ombre e dei volumi, sembrano potersi riferire direttamente alla tradizione tedesca.

Come si ricorderà, Giovanni Britto é stato infatti proposto, in tandem con un Tiziano “re-inventore” dei disegni, quale incisore di tre delle cinque iniziali figurate che compaiono nel De primi principi della lingua romana di Francesco Priscianese, pubblicato da Bartolomeo Zanetti nel 1540, e di almeno una parte della serie biblica realizzata in vista dell’edizione della Bibbia volgare che Gabriele Giolito non pubblicò mai, ma di cui aveva chiesto e ottenuto il privilegio di stampa fin dal 1543. Tanto le iniziali figurate che i legni biblici, come si é visto, erano ispirati alle Icones Veteri testamenti di Holbein, pubblicate a Lione nel 1538488 [Fig.8-11].

L’artista, anzi, gli artisti responsabili di questo corredo - dal momento che nel caso delle xilografie destinate alla Bibbia, sono distinguibili almeno due mani diverse – dimostrano di assimilare l’illustre modello attraverso uno stile proprio e autonomo: il risultato di questa reinterpretazione non é solo perfettamente in grado di rivaleggiare con la serie nordica in termini di espressività, integrità stilistica e virtuosismo, ma persino di superla nell’incisività drammatica, grazie ad una spiccata monumentalità delle figure, ad una maggiore espansione del gesto e soprattutto ad un sapiente uso del chiaroscuro, che, memore delle esperienze tizianesche, conferisce loro movimento e senso drammatico [Fig.76].

E’ lo stesso chiaroscuro – lo si noti - che contraddistingue la replica veneziana, rispetto a questa ben più fedele all’originale, dell’altra serie holbeiniana accolta nello stesso giro di anni tra le pagine di un’edizione lagunare: quella dei valgrisini Simolachri della Morte.

Come quelle holbeiniane, le figure occupano generalmente il primo piano e l’intera altezza della vignetta, ma ai loro corpi nerboruti o addirittura massicci, aderiscono ora abiti antichizzanti, ben diversi dalla vaga foggia medievale di quelli del maestro nordico, che ricoprivano membra più esangui, delicatamente chiaroscurate. I dettagli dei visi sono descritti con precisione e resi espressivi dall’ombreggiatura: le palpebre e gl’occhi, i nasi, gl’angoli della bocca, i menti rotondi, in particolare nelle fisionomie femminili; nei profili maschili invece la prominenza del mento é spesso sottolineata dalla barba, che, se lunga, si solleva verso l’alto, conferendo ai visi l’aspetto di una “mezza luna”. Le donne hanno generalmente i capelli morbidamente raccolti, mentre gl’uomini li portano spesso lunghi e sciolti a sfiorare le barbe. Le estremità sono descritte con precisione e l’atteggiarsi delle dita contribuisce all’espressione dei gesti.

I panneggi sono spessi e abbondanti: soprattutto nelle vesti femminili, composte da più strati di tessuto sovrapposti che, come se pesantemente inumiditi, si incollano qua e là al corpo, identificando inverosimilmente la posizione dell’ombelico, gli orli si sollevano in pieghe e rouches, a sottolineare ancor più il movimento. Gli accessori e i dettagli dell’abbigliamento sono indagati con precisione quasi maniacale: spille, borchie, fermagli, bordure “a piastrine” dei gonnellini “alla romana”, elmi e pennacchi, ricevono lo stesso trattamento a cesello delle barbe, dei capelli, del vello degli animali.

I musi di questi ultimi hanno l’espressione edulcorata dei loro equivalenti holbeniani, quasi da cartone animato, graziosamente assottigliati all’estremità, di forma un pò “a pera” con grandi occhi ben individuati ed espressivi soprattutto quando sono descritti nei primi piani. Cavalli, cervi e cammelli hanno corpi possenti e muscolosi retti da zampe sottili, scattanti e nervose.

L’elemento naturale é indagato con estrema attenzione: fuoco, nuvole, onde, acqua, cielo e terra, definiti da una linea di spessore variabile sembrano costituirsi della stessa materia, ombreggiata da un tratto più o meno fitto che ne rende i volumi e le densità. Le fiamme o le colonne di fumo si levano in aria come enormi matasse di filo o immense morbide piume. Le acque ferme sono rese da fitti cerchi concentrici, mentre le onde di fiumi e mari prendono la forma di chiome folte e distese. In cielo, la presenza di gruppi di nuvole come lunghi batuffoli compatti e gonfi, o di striature orizzontali, collabora alla sapiente distribuzione dei piani spaziali. I tronchi degl’alberi, ombreggiati da un fitto tratteggio perpendicolare alla linea del fusto, sottili e spogli nonostante qualche nodosità, percorrono una certa porzione di spazio verticale prima di lasciar esplodere un fogliame lussureggiante e compatto, in cui ogni foglia é però descritta quasi singolarmente.

Le architetture, costruite e descritte con precisione ed esattezza, anch’esse “modernamente” classicheggianti, con snelle colonne addossate, si aprono spesso a far indagare interni in cui ogni dettaglio decorativo e ogni supellettile sono cesellate fin nel minimo particolare: anse e becchi di brocche, piedi di letto, bracioli di poltrone, candelabri, tutti decorati da mascheroni, figure grottesche, bordi di perle. Spessi tendaggi ricoprono i baldacchini, suddividono ambienti, ricoprono pareti. Qua e là nel paesaggio affiorano anche le tende da campo, a cono, sotto cui personaggi d’alto rango siedono su savonarole intarsiate.

Le città e i paesi che spesso occupano gli sfondi sono resi da un insieme un po’ generico ma vivace di piccole costruzioni di foggia differente, spesso contornate da mura, da dove affiorano tetti cuspidati, torri e campanili affilati.

E’ il primo dispiegarsi di un vocabolario stilistico ed iconografico che, variando la resa dei particolari a seconda delle dimensioni delle vignette o, nella necessità di inserire in esse un maggior numero di figure, diminuendone la taglia (come avverrà ad esempio nelle illustrazioni d’impianto pluriepisodico), ci sembra caratterizzare molti altri corredi, nel corso del quinto decennio.

Il frontespizio utilizzato dai Giunta a partire dal 1541 per ornare la pagina del titolo della serie delle dieci superbe edizioni di Galeno, ornato da otto episodi della vita del medico greco, é uno dei migliori esempi di questo linguaggio489. Nelle vignette, due più ampie in alto e in basso e tre per ciscun lato del titolo, Galeno indossa, in modo del tutto anacronistico, l’alto cappello dei patrizi italiani del Rinascimento, ma altri personaggi sono invece abbigliati all’antica. Abiti, accessori, suppellettili, come il magnifico letto d’apparato in cui giace Marco Aurelio nel fregio in alto, sono descritti con precisione, fin nel minimo dettaglio; in basso, nella scena di dissezione della scrofa, si nota lo sforzo di inventare ritratti distinti, corrispondenti agli astanti, tutti famosi personaggi della corte imperiale [Fig.77].

Ritroveremo la versione di questo stesso frontespizio reincisa fra qualche anno, documento eccezionale dell’evoluzione di questa “maniera” veneziana che stiamo cercando di definire [Fig.78].

A questa fase proponiamo invece di far appartenere anche serie di dieci vignette per il Decamerone giolitino del 1542: sono figure floride, possenti, quasi pesanti, che occupano gran parte dell’intera superficie della vignetta, in una “ripresa” ravvicinata, ma vi si ritrovano gli stessi paffuti visi femminili, ora accompagnati da corpi nudi altrettanto “in carne”, gli stessi alberi, la stessa cura meticolosa del dettaglio [Fig. Scheda 2 / 6-15].

Data allo stesso anno anche la prima edizione dell’Orlando furioso, la prima di una lunga e fortunata serie di edizioni, 28 in 18 anni, tutte illustrate e di qualità eccellente, anche per l’eleganza dei caratteri, l’uso di iniziali xilografiche “parlanti” e i bei frontespizi in cui campeggia la marca della Fenice490. Se non vediamo difficoltà a far rientrare entrambi questi due ultimi (tanto la versione per i formati in-4 che quella per le edizioni in-8) nella produzione della nostra “bottega” [Fig.Scheda 4/3-4]- insieme a quello architettonico, bellissimo, con i quatto telamoni recanti le marche della società della Corona [Fig.79] e quello con cariatidi, putti e onusta ghirlanda creato per l’edizione del Petrarca [Fig.28] (entrambi del 1543) - ci riserviamo qualche dubbio per la serie delle 46 xilografie che ornano l’inizio di ogni canto del poema ariostesco [Fig. Scheda 4/6-10 e 13]. Il concatenarsi vertiginoso delle azioni del poema é reso con minuzia orafa tramite l’espediente della vignetta pluriepisodica: nella medesima scena vengono ora raffigurati più eventi separati nel tempo e nello spazio, senza eccessivo rispetto della successione cronologica. Le figurette, nervose e guizzanti, sono ora schizzate in maniera più impressionista, meno accurata, più corriva, perdendo la definizione dei volti; negli sfondi i paesaggi sono solo accennati, i dettagli architettonici si perdono, le ombreggiature sono rese da un tratteggio meno preciso, che, nelle piccole dimensioni della superficie si risolve spesso in macchia. Sono però le stesse nuvole, gli stessi paesetti dai tetti aguzzi, gli stessi tronchi d’albero, i medesimi cavalli dal muso affusolato e dalle membra possenti, forse resi da un incisore meno accurato e sicuramente costretto a dei notevoli tours de force per assicurare la leggibilità delle scene e la comprensione degli episodi. E’ certamente un tratto più secco, meno morbido, una linea che indugia più raramente nelle pieghe svolazzanti degl’orli, nell’incresparsi delle acque o nella definizione di ogni singola foglia, ma, se non sorelle, queste vignette ci sembrano almeno cugine di quelle dei corredi fin qui descritti.

Ritorniamo con certezza nel nostro percorso, invece, con l’affascinante corredo di 87 xilografie realizzato per l’edizione della Divina Commedia commentata dal Vellutello, stampata nel 1544 da Francesco Marcolini, in una fase della sua carriera ormai lontana dalle sperimentazioni tosco-romane491. Grazie alla novità del suo commento e alla bellezza e ricchezza delle sue illustrazioni, la Comedia marcoliniana si può realmente considerare come un’operazione culturale e commerciale insieme, finalizzata a conquistare un pubblico più largo attraverso un uso predeterminato delle lettere (testo dantesco e commento annesso) e delle arti (veste tipografica, impiego di casse diverse di caratteri tipografici, scelta e qualità delle immagini).

Queste ultime, per cui, ancora una volta, é stato fatto (ancora una volta su sole basi stilistiche) il nome del Britto, rappresentano il tentativo di evocare agl’occhi del lettore, seguendo progressivamente la narrazione e sotto il segno dell’astrazione geometrica, il sito e la forma dello spazio percorso da Dante: in una strutturazione grafica estremamente raffinata, esse rappresentano dunque una vera e propria integrazione visiva agl’altri due media presenti sulla superficie della pagina - il testo dantesco e quello del commento, stampati in caratteri tipografici diversi - e conquistano cosi una loro piena autonomia espressiva [Fig.80-84] .

Le illustrazioni dell’edizione del 1544 sono certamente l’opera cosciente e voluta del Vellutello stesso, come testimonia il seguente passaggio della Descrittione de lo Inferno:

‘“Ma quanto lunge esso Beninvieni con tutti glialtri de lacademia fossero da lintentione de lautore, chi leggera esso suo et il presente nostro trattato, legiermente lo comprendera, perche egli non cercò di seguitar lautore, e di provar per lui cio che diceva, come ragionevolmente doveva fare, ma intese di voler esprimere quella impressione, che di questa cosa, co suoi academici insieme shavea fabbricato ne la fantasia, dove che la nostra hora sestende solamente in voler discoprir questa occulta, e non per alcun altro dimostrata, ma per quello che ne crediamo, anchor intesa verita. Laqual se noi potessimo dipinger con la penna ne la forma che l’habbiamo scolpita ne la mente, non dubbitamo che noi saremmo tanto piu agevolmente intesi da tutti quelli che ne ponno esser capaci, quanto è molte volte minor la difficulta de lintendere che de loscrivere la cosa intesa. Questa adunche, quanto è possibile, cercheremo di superare, et in quello che potessimo mancare, cingneremo di suplir col disegno”492

Immagine e testo condividono dunque lo stesso carattere didattico, più schematico nelle illustrazioni intercalate al testo delle tre cantiche, soprattutto quelle relative all’Inferno, che rappresentano in sezione i diversi gironi in una prospettiva strutturale – a “volo d’uccello”, lo si noti - il cui obiettivo dimostrativo rinvia sempre ai propositi molto dettagliati e matematicamente rigorosi del Vellutello, maggiormente descrittivo nelle tre tavole a piena pagina che aprono ognuna delle tre sezioni del poema493. In queste ultime ritroviamo, miniaturizzate, - tanto da richiedere, anche qui particolare da tenere a mente, i titula dei personaggi principali a darne la giusta collocazione - le stesse cifre stilistiche dei personaggi del corredo biblico, ancor più eleganti e raffinate nella loro minor dimensione e nel sottile intellettualismo che le anima; in quelle, come nelle altre illustrazioni per il Purgatorio e il Paradiso, lo stesso trattamento delle acque dalle onde minuziosamente descritte, delle pareti rocciose, le cui asperità sono rese dal sapiente ed elegante uso del chiaroscuro, del fumo e delle fiamme, che ascendono in dense volute e dei manti erbosi, descritti con precisione.

E’ proprio in questo corredo che é suggeriamo d’individuare uno scarto stilistico interessante e significativo per gli sviluppi futuri: le fisionomie si allungano e si assottigliano, perdono qualche grammo della loro monumentalità volumetrica per guadagnare in eleganza e flessuosità, pur conservando la loro sodezza sono ora corpi impregnati di movimento in potenza espresso da una sorta di andamento curvilineo delle membra, le cui zone muscolari - avambracci, glutei, cosce, polpacci - accentuano le loro sporgenze saldandosi fra loro tramite giunture sottili, che evidenziano la nervosità degl’arti.

In proporzioni miniaturizzate é quello che accade al giovane aggraziato ma volumetricamente saldo che si presta a farsi bersagliare dalle più svariate armi e proiettili a beneficio della scienza del Tagault, nel manuale pubblicato per i tipi del Valgrisi nel 1543 [Fig.Scheda 1/3] 494.

Il passo successivo é quello leggero, di danza, arioso e gaio della brigata boccacciana del 1546, che fa sollevare tessuti di consistenza ben più primaverile, quasi liquida nell’incresparsi dei suoi orli come morbidi boccoli495. Il movimento pervade corpi umani, animali, fronde, acque, nuvole che sembrano scorrere davanti al lettore-spettatore in un piano sequenza da un punto di osservazione che lo mantiene sempre alla stessa distanza: l’altezza delle figure non supera mai la metà di quella della vignetta, permettendo allo sguardo di cogliere l’infilata di un porticato, un morbido prato, zone di bosco, colline verdeggianti o l’intricarsi della foresta [Fig.20-29].

E’ allo stesso ritmo saltellante che entriamo nel sesto decennio, accompagnati dalle carole fiorite delle minuscole figurette guizzanti dell’edizione-gioiello del Decameron giolitino in –12496 [Fig.30-40].

Come si é già indicato, alcune delle vignette della serie biblica “inutilizzata”, furono reimpiegate dal Giolito a completamento dei corredi di alcune sue edizioni degl’anni ‘50: in particolare, nove in quella del Decameron del 1552, che le affianca a quelle dell’edizione 1546, e, l’anno seguente, sei tra le 94 che decoravano la traduzione italiana delle Metamorfosi di Ovidio a cura di Ludovico Dolce. In particolare, con queste ultime, l’incongrità era certamente a livello di contenuto, ma non tanto, o almeno non troppo, a livello stilistico e neanche di dimensioni, essendo le vignette a soggetto biblico solo di poco più piccole497 [Fig.85-90].

E’ cambiato, questo sì, il “punto d’osservazione”: le figure sono di taglia ridotta e, anch’esse, più snelle, hanno ormai acquistato un dinamismo quasi formicolante, lasciando intravvedere maggiori porzioni di paesaggio, composto da città fortificate o paesetti, dolci colline dietro cui tramonta il sole, archietture classicheggiante e tempietti rotondi, ma soprattutto boschi in cui la fitta vegetazione crea ombre dense, a proteggere lavacri divini o amplessi esplicitamente erotici498.

Su quest’ultimo libro “pomposo di figure” merita soffermarsi un pò più a lungo499. Qualche settimana dopo la pubblicazione delle Trasformationi del Dolce, per anni annunciate dalla casa editrice come un grande avvenimento letterario e finalmente apparse nel maggio del 1553500, un collega del Dolce, il poligrafo Girolamo Ruscelli, collaboratore, tra gl’altri, del Valgrisi, aveva stroncato la traduzione con una veemenza inaudita, indicando su più di trecento pagine, innumerevoli errori di rima, di stile, di fraintendimenti dell’originale latino, che –diceva il Ruscelli con chiaro intento polemico – non sarebbero scusabili nemmeno per un sarto, un ciabattino o una lavandaia501.

Nella favola di Filemone e Baucide, per esempio, che Ovidio pone in bocca ad una figura del suo poema, Lelege, che la racconta a Teseo e Piritoo, si leggono in Dolce i seguenti versi:

‘“Mentre piangono il danno e’l grave scempio / E de la villa e de gli amici loro, / Vider la casa trasformata in tempio / Di bianchi marmi e ben fregiati d’oro; / Da cui cred’io, che poi togliesse essempioVitruvio, e gli altri che famosi foro, / Il qual, mercè del buon Ruscone e chiaro,Hor più che mai sarà pregiato e caro”502

Rusconi commenta in tono di scherno:

‘“Prendete un granchio, niente minore nell’esser suo, che tanti altri per tutti questi discorsi mostrativi [...]. Parvi dunque che voi non siate un miracoloso digressore, facendo un vecchio a’ tempi di Teseo, nominar Vitruvio, che fu tante centinaia e migliaia ancor d’anni doppo loro, e non solamente Vitruvio, ma ancora il gentilissimo e virtuosissimo m. Gio. Antonio Rusconi, il quale per dono di Dio vive, et non solamente ha onorato il vostro Ovidio con l’opera delle sue figure, ma honora ancora questa nobilissima patria e questa provincia d’Italia, e questa età nostra”503.’

Sembrerebbe proprio che grazie a questo “granchio” preso dal Dolce e alle conseguenti critiche del Ruscelli, potremmo dare un nome all’autore di queste pregevoli xilografie: si tratterebbe di Giovanni Antonio Rusconi, architetto veneziano. Nonostante in questa sede si sia propensi a rifiutare, ancora una volta, la paternità di un corredo così ampio, e – soprattutto, così simile ad altri, che contano altrettanto numerose xilografie - é comunque interessante notare come il Rusconi sia noto soprattutto per le illustrazioni destinate ad un’edizione di Vitruvio apparsa postume, alle quali il Dolce allude nella strofa citata e per le quali il Giolito, si era assicurato nel 1553 il privilegio di stampa504. Queste xilografie mostrano indubitabilmente una chiara affinità con quelle dell’Ovidio, che, d’altronde sappiamo essere state realizzate negli stessi giorni - ma anche con quelle della Bibbia, dei vari Decamerone, fino all’Orlando furioso valgrisino...- in cui sono numerose le raffigurazioni di architetture classicheggianti [Fig.91-94] 505.

Possiamo vedere in esse il frutto di una stessa bottega, cui senz’altro il Rusconi dovette dare indicazioni precise, senza forse esimersi dal disegnare (ma certamente non dall’incidere) le tavole di maggior contenuto critico-teorico ?

Il volgarizzamento ovidiano del Dolce attuava implicitamente una riscrittura del celeberrimo testo secondo il modello di un altrettanto celebre best-seller (e long-seller) dell’epoca: l’Orlando furioso. A questo scopo, il curatore, aveva infatti suddiviso i 15 libri di Ovidio in 30 canti e ne aveva fatto cominciare ognuno con un proemio, non esitando ad intervenire pesantemente nel testo506. Le illustrazioni – che sono tra le più significative dell’intera storia della traduzione a stampa del testo - erano inoltre poste in apertura di ogni canto, seguendo l’impaginazione delle edizioni giolitine del poema ariostesco, e poi distrubuite con una media di due-tre per canto507: si capisce perciò come questa edizione rappresentasse una significativa novità nella storia della lettura del testo ovidiano, visto per la prima volta attraverso la lente di un’opera volgare, ovvero di quel Furioso che aveva profondamente forgiato il gusto di un largo pubblico al punto di diventare addirittura testi di lettura scolastica508.

Significativamente la traduzione venne annunciata in un Avviso ai lettori (a firma del Giolito, ma molto probabilmente di mano dolciana), pubblicato nell’edizione del Furioso del 1542, in quanto ai lettori di Ariosto si intendeva indirizzare specificatamente tale traduzione ovidiana509. I due libri presentavano infatti lo stesso formato, la stessa composizione tipografica e la stessa mise en page, con due colonne di ottave per ogni pagina, e un analogo apparato illustrativo, anche se più fitto nel testo ovidiano. Sono libri che presuppongono lo stesso lettore (e, soprattutto, lettrice), lo stesso tipo di lettura, e, dunque, la stessa impostazione della traduzione illustrativa, perché non la stessa mano ?

Ed eccoci finalmente ritornati al nostro punto di partenza, ovvero alla proposta di considerare i corredi valgrisini del Decamerone e dell’Orlando Furioso come il risultato più alto di una tradizione xilografica veneziana giunta al suo akmé prima di cedere definitivamente il passo alla tecnica calcografica [Fig. Scheda 3/ e Scheda 4/.

In un primo tempo, quella che vorremmo immaginare come un’attiva bottega pronta a ricevere commesse dai più importanti stampatori veneziani - tra le mura e i tavoli della quale fantasiosi disegnatori lavorano al fianco di espertissimi e scrupolosi intagliatori - guarda alle migliori creazioni tedesche, le assimila e reinterpreta tramite un uso del tratteggio più fitto e complesso che, se dona un maggiore risalto alle immagini, riesce soprattutto a rispondere, tramite la costruzione di ampie zone tonali, all’innata tensione veneziana – civiltà del colore anche nella xilografia, verrebbe da pensare – verso la resa del dato cromatico, rivaleggiando con i più alti risultati dei bulini contemporanei.

Nell’arco di un ventennio, questa tradizione si dimostra capace di aggiornare la sua cifra stilistica sulla base dei nuovi modelli di riferimento, quelli di una “maniera” che impone, a cavallo tra il quinto e il sesto decennio, figure eleganti, “svelte”, intrise di dinamismo, “graziose”, di una sottile capacità espressiva, di una duttilità sfuggente, in un universo miniaturizzato dove preponderante é il ruolo del paesaggio e dell’elemento naturale.

Libera d’intessere e far spaziare le sue creazioni sulla pagina intera, questa “maniera” crea allora i suoi raffinati capolavori per le tavole delle edizioni alla marca del Tau.

In esse le linee di contorno sono delicate ma accentuate da serie di tagli giustapposti che seguono le forme umane e animali come quelle naturali, entrambe turgide e tondeggianti, e gli angoli dei piani nei dettagli architettonici degli edifici, che acquistano nitore e consistenza. Grazie a questo effetto, il senso della tridimensionalità é particolarmente accentuato e, nonostante l’attenzione al dettaglio sia grande, l’artista non perde di vista la solidità delle singole forme e dell’intero modello grafico.

I corpi, allungati e flessuosi – “svelti”, appunto - danno l’impressione di essere completamente snodabili, ma tuttavia sodi, nervosi, agili e scattanti. Le muscolature sono rese con grande precisione, e la loro possanza s’intravede attraverso le corazze aderenti o i tessuti leggeri, quando non nei nudi, soprattutto quelli femminili, floridi, dalle cosce tornite e dai glutei rotondi. Le teste, allungate anch’esse e imperniate su colli altrettanto flessuosi, almeno quando hanno una grandezza che lo permetta, sono indagate nei particolari, con grandi occhi a mandorla, sopracciglia sottili e nasi piccoli e tondi (mentre nei profili sono dritti giusto sopra ai menti sfuggenti che si notavano già nella serie biblica giolitina).

Le figurette si muovono tutte in punta di piedi, snelli e sottili, come secondo un leggero passo di danza che trasmette vivacità e dinamismo ai panneggi e agl’orli; lo stesso fanno i cavalli, che, sollevati dall’energia accumulata sulle zampe posteriori, scattano in avanti come molle, librandosi in aria con quelle anteriori : é un senso continuo di movimento, che pervade lo spazio circostante e permea ugualmente il dato naturale e che non si perde negli sfondi : al diminuire delle dimensioni infatti i personaggi si risolvono in sapide figurine schizzate sommariamente ma piene di vitalità.

Il dettaglio é reso con una meticolosità quasi lenticolare: le ciocche di barbe e i capelli, i particolari delle pettinature sono resi con precisione, la stessa che definisce le criniere, le code, i pennacchi degl’elmi; i decori degli abiti, quelli dei mobili e delle suppellettili sembrano usciti da manuali di modelli orafi tale é la loro definizione; le dita delle mani definite ad una ad una da una linea precisa e conchiusa afferrano saldamente gli oggetti, o contribuiscono a veicolare, con il loro gesticolare, l’espressività delle figure.

Il punto di vista della “finestra visiva”, parzialmente o totalmente sopraelevato rispetto alla linea di fondo, a volo d’uccello come nelle xilografie “dantesche” per il Marcolini, lascia spazio ad ampi brani di paesaggio, sempre dolce nel suo declinare in orizzonti occupati da paesi o città cinte da mura da cui emergono appuntiti tetti nordici o piccole cupole, da colline o da bassi gruppi di montagne, da dove sorge o dietro cui tramonta il sole, o che, invece, sfociano nella distesa marina, talvolta puntinata da barche a vela.

Si ritrova il gusto per gli edifici classici già evidenziato nelle vignette delle Trasformationi ovidiane: sono templi o palazzi di foggia antichizzante, decorati da colonne addossate e dalle ariose loggette che si aprono su porticati a tutto sesto, accanto ai quali compaiono spesso eleganti fontane sormontate da statue, nelle quali l’acqua s’impenna in fantasiosi zampilli.

Co-protagonista tanto dei diporti della brigata che delle avventure mozzafiato di paladini e fanciulle innamorate é, infine, si diceva, l’elemento naturale: spesso uomini ed animali si ritrovano così aggrovigliati in veri e propri labirinti di alberi dai tronchi ombreggiati e dalle chiome a piccole foglioline minutamente descritte, si ritrovano presso la riva di laghetti dalle alte sponde erbose e dalle acque che si propagano a cerchi concentrici, o galleggiano su vascelli che solcano mari dalle onde dense e filamentose, immersi totalmente in una natura naturans in continua metamorfosi che tutto accoglie e tutto comprende.

L’evoluzione dello stile é chiaramente coglibile nella reincisione del frontespizio giuntino per le opere di Galeno, avvenuta probabilmente verso la metà del sesto decennio510. Le modificazioni iconografiche all’originale sono poche e di scarsa importanza, ma il trattamento delle figure ben dimostra il cambiamento: le figure, come sciolte, guizzano vivaci, rendendoci lo spirito da quadretto di genere delle “prodezze” al limite del miracoloso del dottor Galeno o quello un po’ teatrale dell vivisezione del malcapitato suino [Fig.78].

Vorremmo ora terminare il nostro percorso con tre episodi che ci paiono significativi per indagare lo scambio di cui hanno fatto oggetto le nostre ricerche.

Innanzitutto un ulteriore esempio di “traduzione” in cui ci sembra ancora una volta di poter scorgere le caratteristiche della “tradizione veneziana” fin qui evidenziate, naturalmente “falsate” dall’ingombrante presenza di un modello troppo importante da poter modificare a piacimento: nel 1557, Pietro Valgrisi, figlio di Vincenzo, e lo sfuggente Giovanni Ostaus pubblicano una Contemplatio totius vitae et passionis Domini Nostri Iesu Christi, che reinterpretava alcune delle vignette tratte dalle due serie düreriane della Vita della Vergine e della Piccola Passione, che ancora alla metà del secolo, dunque, riscuotevano un certo interesse in Laguna [Fig.95-96] 511.

E’ interessante notare come questo libricino presenti, in fondo, la stessa struttura dei Simolachri, o, se si preferisce, delle successive Figures de la Bible francesi: l’immagine, che occupa l’intera pagina, é infatti accompagnata in alto da una coppia di versi che riprendono il passo biblico, rappresentando dunque uno strumento di meditazione e riflessione religiosa personale piuttosto raro nella contemporanea produzione a stampa italiana.

Il fatto che nel frontespizio, al di sotto della marca dell’Ostaus - una Vittoria alata e coronata in un ovale con motto “Ego sum via et veritas” che rientra perfettamente nelle caratteristiche della nostra “maniera” – compaia la sottoscrizione “In officina Erasmiana venundantur” farebbe logicamente presupporre che, per la sola opera che produsse, la società Ostaus-Valgrisi, avesse utilizzato non solo i torchi, ma anche i canali di vendita di Vincenzo512.

La stessa marca della Vittoria, orna solamente un altro frontespizio, quello de La Vera perfettione del disegno per punti e ricami del 1561, l’ultimo, eclettico e più completo contenitore cinquecentesco di stili e generi figurativi dedicato agli artisti che si occupavano a vario titolo di decorazione che abbiamo già incontrato in quanto si fregiava della presenza della Lucrezia a firma di Giuseppe Porta513.

Nella parte più propriamente “tecnica”, ovvero tra le tavole dei modelli veri e propri, esso presenta una serie di interessanti xilografie che, loro invece sì, ci sembrano parlare veramente francese: si pensi a quel Giudizio di Paride così salomoniano o le scene di diporti o di banchetti immersi in una rigogliosa campagna rhonalpina [97-100] 514.

Notes
485.

A questo proposito, molto utile si rivelerebbe un censimento delle cinquecentine straniere nelle collezioni delle biblioteche pubbliche, un omologo di EDIT 16 “straniero” che desse imformazioni sulle marche di possesso e le provenienze.

486.

I ritratti di Laura e Francesco incastonati nell’urna funeraria, sormontano il sonetto Sopra le sacre ceneri (c. A3r). Tale raffigurazione, che incontrerà grande successo e si ritroverà anche nelle edizioni lionesi contemporanee - si pensi ad esempio a quelle del De Tournes (1550) o del Rouillé (1550 e 1551) in cui all’urna funeraria é sostituito addirittura un cuore–sostituisce l’iconografia del Petrarca umanista e poeta laureato, con il Petrarca poeta amoroso, innamorato di Laura. Cfr. Sharrat 2005, n. 6, pp. 274-75; A. Rieger, De l’humaniste savant à l’amoureux de Laura : l’image de Pétrarque dans l’iconographie française (XVe- XVIe siècle), in Dynamique d’une expansion culturelle : Pétrarque en Europe, XIVe au XXe siècle. Actes du XXVIe congrès international du CEFI, (Turin et Chambéry, 1995), éd. par P. Blanc, Paris, 2001, pp. 99-126. Il ritratto del Petrarca “umanista”, invece, apparve anche nelle edizioni del Petrarchista di Niccolò Franco, come ad esempio quella del 1543. Cfr. Bongi 1890-97, I, n. 7 e 53.

487.

Il monogramma fu anzi considerato la testimonianza per l’individuazione del primo stile dell’incisore dopo il suo arrivo a Venezia, ma prima dei suoi lavori per Tiziano, del quale firmò a chiare lettere la silografia raffigurante un Autoritratto. E’ quello di cui parla l’Aretino in una sua lettera del 1550, indirizzata appunto “Al Todesco che intaglia”. I rapporti del Britto con il Marcolini sono testimoniati anche da un libro privo di illustrazioni, pubblicato dal forlivese nel 1543 (La congiuratione de Gheldesi contra la città Danversa), nel cui colophon si legge : “In Vinegia per Giovanni Britto intagliatore anno MDXLIII nel mese di ottobre”, cfr. Casali 1953, n. 68. In realtà, l’identificazione del monogramma pone, come al solito in questi casi, più di un problema : esso é apparso in effetti per la prima volta in Germania nel 1531 in un ritratto di Johann von Schwartzenberg, che illustra la sua traduzione del De officiis di Cicerone (Ein Buch so Marcus Tullius Cicero der Römer zu seynemm Sune Marco...), pubblicata ad Augusta in quell’anno e alcune altra illustrazioni rivelano uno stile simile a quello del Petrarca spirituale, altre recano sigle diverse ; però é anche stato riconosciuto come la sigla di Jörg Breu o di Nicolò Boldrini, altro incisore di sfera tizianesca. Cfr. F. Borroni, ad vocem in DBI, XIV, pp. 351-52 ; Muraro-Rosand 1976, p. 116 e n. 54A e B, p. 118 ; Mc Tavish 1981, pp. 84-85 ; Callegari 2005, pp. 64-68.

488.

Cfr. supra e scheda 2

489.

Per la descrizione dei contenuti, cfr. Andreoli 2004, pp. 91-95.

490.

Cfr. scheda 4.

491.

Per quest’edizione, cfr. Casali 1953, n. 72, pp. 157-166; Fabrizio-Costa-La Brasca 1999. E’ la princeps del commento del Vellutello, ed é stata stampata a sua instantia dal Marcolini. Le illustrazioni furono riprese nelle tre edizioni (1564, 1578, 1594) della Divina Commedia curate da un altro poligrafo veneto, Francesco Sansovino per i fratelli Sessa e le ritroviamo, sempre a Venezia, riprodotte in parte nell’opera del canonico Giovanni Palazzi alla fine del Seicento (Compendio della Comedia di Dante, Venetia, Albrizzi, 1696). Marcolini aveva riutilizzato alcune tavole dell’edizione dantesca per abbellire l’edizione degli Inferni d’A. Doni (1555). Cfr. A. F. Doni, I mondi e gli Inferni, a cura di P. Pellizzari, Torino, 1994. Per la tradizione iconografica del poema dantesco, cfr. L. Volkmann, Iconografia dantesca, Venezia-Firenze, 1898; P. Veneziani, Dante dall’ “ars artificialiter scribendi” alla prima “Divina Commedia”, in Pagine di Dante. Le edizioni della Divina Commedia dal torchio al computer, catalogo della mostra (Foligno-Ravenna-Firenze, 1989), a cura di R. Rusconi, Milano, Electa, pp. 67-151 e Botticelli illustratore della “Divina Commedia”, catalogo della mostra (Roma, 2000), Milano, Electa, 2000.

492.

A. Vellutello, Descrttione de lo Inferno, in La Comedia di Dante Aligieri con la Nova Espositione di Alessandro Vellutello, Venezia, Marcolini, 1544, cc. AA4v. Il riferimento polemico a Beninvieni rinvia a una serie d’illustrazioni pubblicate nell’edizione fiorentina del 1506 della Commedia, Commedia di Dante insieme con uno dialogo circa el sito, forma e misura dell’Inferno, Firenze, Filippo di Giunta, 1506, che danno alla topografia infernale delle dimensioni totalmente diverse da quelle del Vellutello.

493.

Del racconto, le vignette offrono infatti solamente indicazioni molto generiche, riservandosi piuttosto il compito di richiamare l’attenzione del lettore sulla “topografia” di Inferno e Purgatorio. Nel Paradiso si perde addirittura anche questa funzione.

494.

Cfr. scheda 1

495.

Cfr. scheda 3

496.

Ibidem

497.

Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, Venezia, Gabriel Giolito De’ Ferrari e fratelli, 1552. Le illustrazioni si trovano a pp. 26, 34, 41, 43, 67, 99, 294, 459 e 479; Bongi 1895, pp. 364-5; Mortimer 1974, I, n. 72, pp. 100-101; scheda 3. L’edizione, e dunque il suo corredo, erano protetti da privilegio datato 12 dicembre 1551. Le Trasformationi di M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriel Giolito De’ Ferrari e fratelli, 1553. Le xilografie si trovano a cc. G2v; G4v, I4v, T1v, T2v e T6v della prima edizione, diversamente localizzate nella seconda. Cfr. Bongi 1895, pp. 395-401; Mortimer 1974, I, n. 342, pp. 494-6. Oltre che nelle edizioni del Decameron e delle Trasformazioni, almeno un’altra xilografia della serie delle Icones é stata inserita in successive edizioni della traduzione dell’opera ovidiana pubblicate dal Giolito nel 1555 e nel 1558. Successivamente alcuni blocchi biblici vengono reimpiegati ne La caccia di Tito Giovanni (1556) e ne l’Achille e l’Enea del Dolce (pp. 51, 120, 138 e 264), cfr. Mortimer 1974, nn. 159 e 211, pp. 227-28 e 303 e Bolzoni 1999.

498.

In molti esemplari, alcune di queste scene, in particolare quella raffigurante Salmace ed Ermafrodito, sono censurate da larghe macchie d’inchiostro. Ricordiamo che in questi stessi anni vedono la luce le varie edizioni lionesi delle traduzioni in versi del testo di Ovidio, dovute a Jean de Tournes e Guillaume Rouillé, con xilografie di Bernard Salomon - le 178 per il Metamorphose d’Ovide figuree del 1557, con cornici istoriate o arabescate é considerato il suo capolavoro – e Pierre Eskrich. Per le edizioni lionesi, quella giolitina non sembra però aver rappresentato in alcun modo un precedente stilistico di riferimento: le Metamorfosi subiscono in Francia la medesima rifuzione a “Figures” emblematiche, come era avvenuto per la Bibbia. Cfr. Caracciolo 2003 e Sharrat 2005, pp. 150-165

499.

Per le Trasformationi del Dolce, cfr. Guthmüller 1983, 1996 e 1997, pp. 251-274 (Immagine e testo nelle “Trasformationi” di Lodovico Dolce), la scheda di S. Benedetti in Immagini degli Dei 1996, pp. 290-91; Glénisson-Delannée 1999 e Nuovo-Coppens 2005, pp. 236-243.

500.

La traduzione del Dolce nacque in un clima altamente competitivo, dal momento che anche un altro grande letterato, Giovanni Andrea dell’Anguillara, era al lavoro sullo stesso testo, che pubblicò poi nel 1561, ma di cui erano già pronti alcuni saggi, tanto che nel 1554 ne uscirono a Parigi, per André Wechel, i primi tre libri. L’irritazione nei confronti dell’opera del ben più dotato rivale emerge in maniera evidente in una lettera che il Giolito (o il Dolce a nome suo) aggiunse ad un’edizione dell’Orlando furioso del 1551, quando Anguillara, secondo la testimonianza del Ruscelli, presentò a Venezia il suo primo libro (Delle Metamorfosi d’Ovidio libro primo di Gio. Andrea dell’Anguillara, Alberto di Grazia [s. d.], incontrando apparentemente il riconoscimento di “tutti i dotti e i giudiciosi”. In questa lettera il Dolce cerca chiaramente d’intimorire il rivale:

“Tra pochi mesi o giorni si daranno le Trasformationi d’Ovidio, le quali per aventura saranno di qualità che alcuni pedanti o simie si leveranno le occasioni (se essi haveranno giudicio) di affaticarsi [...] in perder carte”.

Il successo fu clamoroso: in quattro mesi furono vendute le 1800 copie della prima tiratura, e l’editore fu costretto a procedere a una nuova edizione nello stesso anno. Già in questa riedizione, il Dolce (che aveva persino già operato modificazioni sui cliché di stampa della prima tiratura, che infatti presenta delle varianti) iniziava a emendare alcuni errori segnalati da Ruscelli: operazione portata avanti nelle altre quattro riedizioni del 1555, 1557, 1558 e 1561, finché poi, scaduto il privilegio giolitino e morto il Dolce, la traduzione divenne testo libero per tutti e venne ripubblicata ancora dal Sansovino nel 1568 e dal Farri nel 1570. Fu la traduzione dell’Anguillara, di livello assai superiore, a mettere fine alla fortuna editoriale del volgarizzamento dolciano. In base alle richieste di privilegio da parte del Giolito si può far risalire l’inizio del progetto editoriale al 1546, e, fino alla definitiva pubblicazione, autore ed editore adottarono alcuni accorgimenti per stimolare il pubblico e rintuzzare la concorrenza: furono ad esempio fatti circolare due fogli di stampa, illustrati, con in primi canti, vere e proprie “mostre” del libro a scopi pubblicitari e per raccogliere le prenotazioni in libreria, come fin dalle origini della stampa si era fatto nel caso di edizioni molto costose. Cfr. Nuovo-Coppens 2005, pp. 236-37.

501.

Cfr. G. Ruscelli, Tre discorsi a m. Lodovico Dolce. L’uno intorno al “Decamerone” del Boccaccio, l’altro all’ “Osservationi della lingua volgare” e il terzo alla tradottione di Ovidio, In Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553, pp. 84 e 106. L’esame critico del Ruscelli sembra piuttosto assumere i toni di una vera e propria demolizione sistematica: Ruscelli puntava a smentire la difesa dolciana che i frequenti errori di traduzione (inescusabili in sé) fossero dovuti alla fretta di redazione del lavoro, che, al contrario, come egli dimostrava allegando una notevole serie di circostanze, era stata preceduta da una decennale preparazione e da ingenti investimenti. In particolare era facilmente dimostrabile che un’edizione per la quale si era preparata una serie completa di nuove illustrazioni (scudi d’investimento, anni di lavoro) e una collezione completa di privilegi delle massime autorità – Papa, Imperatore, Re di Francia, Duchi di Firenze, Ferrara, Mantova e della Signoria di Venezia – aveva avuto bisogno di parecchi anni di preparazione. Non era chiaramente credibile, dunque, che il solo testo, in definitiva la parte più importante, fosse stato affrettatamente composto in soli otto mesi. Per la polemica Dolce-Ruscelli, cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 354 ss; Di Filippo Bareggi 1988, pp. 296 ss; Borsetto 1989 e scheda 3

502.

Le Trasformationi di M. Lodovico Dolce, Venezia, Gabriel Giolito De’ Ferrari e fratelli, 1553, p. 185; G. Ruscelli, Tre discorsi [...], p. 273.

503.

G. Ruscelli, Tre discorsi [...], p. 274 ss.

504.

Presumibilmente il Rusconi (c. 1520-1587) eseguì le illustrazioni per una traduzione italiana di Vitruvio che doveva uscire per i tipi del Giolito, che ne aveva domandato privilegio al duca di Firenze. L’opera rimase incompiuta, forse perché Vitruvio apparve nel 1556 in un’altra traduzione, quella di Daniele Barbaro. Dopo la morte del Rusconi, la casa editrice pubblicò le illustrazioni con un breve riassunto in italiano del testo: Della architettura di Gio. Antonio Rusconi, con centosessanta figure dissegnate dal medesimo secondo i precetti di Vitruvio, e con chiarezza e brevità dichiarate, libri dieci, In Venetia, appresso i Gioliti, 1590. Una nuova edizione dell’opera apparve nel 1660, allora Antonio Visentini scrisse il trattato Il contra Rusconi o sia l’esame sopra l’Architettura di Giovannantonio Rusconi. Per il Rusconi, cfr. T. Temanza, Vite dei più celebri architetti e scultori vneziani che fiorirono nel secolo decimosesto, Venezia, 1778 (reprint, Milano, 1966), pp. 362 ss., 369 e 481; per le edizioni, cfr. Bongi 1890-97, II, pp. 445-46; Mortimer 1974, n. 551; F. Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, Vicenza, 1971, pp. 129 ss. e Bedon 1983.

505.

La traduzione – e le figure – del Rusconi erano certamente pronte nel 1552, come attesta una lettera di Ludovico Dolce al Varchi, del 3 dicembre 1552, che parla della contemporanea realizzazione delle due serie xilografiche e, tra l’altro, della sua soddisfazione per l’investimento del Giolito nella realizzazione delle illustrazioni: “Il Giolito ci ha fatto per honorare questa mia fatica di molta spesa, come d’intorno a figure, che ve ne sono per ciascuna favola o poco meno”. A conferma, la lettera al Rusconi di Pietro Lauro del 1553, dove si congratula per l’opera e le pagine de I Fiori della Zucca del Doni sull’Accademia Peregrina, di cui faceva parte il Rusconi “che di Vitruvio ha l’impresa”, sempre del 1552. Cfr. Bedon 1983, p. 85.

506.

Per la canonizzazione a “classico” dell’Orlando Furioso, cfr. Javitch 1981e scheda 4.

507.

L’edizione più completa e corretta é quella del 1561, corredata di “argomenti” e “allegorie”, che contiene 85 xilografie (63x90 mm), di cui una sola ancora estranea al corredo (é una delle bibliche) e due illustrazioni usate due volte. Nel corso della rielaborazione del testo, infatti, anche le 94 vignette di partenza furono sottoposte a revisione: furono eliminate le bibliche e parecchie ripetizioni, spostate nella giusta posizione alcune illustrazioni che prima erano collocate nel punto sbagliato e fu aggiunta una serie di nuove immagini, oltre a delle cornici ornamentali. Fino al XXIII canto numerose illustrazioni inframezzano il testo, dal XXIV in poi i canti presentano tutti una sola illustrazione. Alcuni miti vengono illustrati con più di un’immagine, mentre ad altri non ne viene dedicata nessuna; mentre alcune vignette evocano miti differenti nel medesimo spazio, altre si limitano alla raffigurazione di un solo momento: non é lecito, insomma, scorgere un piano preciso per la disposizione delle immagini. Come ha dimostrato Bodo Guthmüller, poi, esse sono realizzate non sulla base della lettura del testo del Dolce, ma di quello ben più antichi e incongrui dell’Ovidio Methamorphoseos vulgare di Giovanni Bonsignori, che compose il suo volgarizzamento tra il 1375-77 e la cui prima edizione fu pubblicata nel 1497 da Lucantonio Giunta con un corredo di 53 xilografie che costituirono il riferimento obbligato per le successive edizioni veneziane e per molti pittori famosi, o di Nicolò Agostini, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue allegorie in prosa, Venezia, Zoppino e Polo, 1522, entrambi più o meno dipendenti dalla parafrasi trecentesca di Giovanni del Virgilio, l’Expositio che riprendeva numerosi miti ai quali Ovidio accennava solo brevemente o che non comparivano affatto nella sua opera. Nei confronti della tradizione iconografica l’illustratore della giolitina sembra comunque comportarsi con disinvoltura e creatività, rileggendo da capo il testo (piuttosto diverso però da quello che é chiamato a corredare), per principio: molto probabilmente l’illustratore aveva lavorato in anticipo rispetto alla stesura del testo. Il fatto, infine, che miti molto popolari, collocati negli ultimi canti, non siano stati illustrati sembrerebbe dovuto ad un fattore esterno, forse alle disposizioni dello stesso Giolito che non intendeva aumentare ulteriormente il numero dei legni. Cfr. Guthmüller 1997. Per la tradizione iconografica delle Metamorfosi a stampa, cfr. anche Huber-Rebenich 1992, Gentilini 1993 e le schede nn. 5-20, pp. 59-85 in Istoriato 1993; sull’Ovidio 1497, cfr. Pozzi 1981, Guthmüller 1997 e scheda 3.

508.

Cfr. Grendler 1991, pp. 312-322.

509.

“Speriamo di darvi similmente fra pochi mesi le dilettevoli Trasformationi d’Ovidio tradotti del [...] Dolce in questa ottava rima”. Il Ruscelli, a proposito dell’Avviso, scriveva al Dolce: “Queste parole di quella lettera, fatta (come credo che sappiate, che ogn’un conosce) da voi stesso a nome di Messer Gabriello”. Cfr. Ruscelli Tre discorsi [...], p. 83-84 e 87.

510.

Non sono purtroppo riuscita ancora a stabilire con precisione la prima edizione in cui é stato utilizzata tale “nuova” versione.

511.

. Ioannes Ostaus, che firma la dedica dell’opera alla “Reverendae Matri Abbatissae Sancti Laurentii, Dominae Ciprianae Michaeli”, é personaggio piuttosto misterioso quanto intrigante: l’unica altra edizione a fregiarsi del suo nome e della sua marca “alla Vittoria”, ma non di note tipografiche, é La Vera perfettione del disegno per punti e ricami, una raccolta di modelli pubblicata anch’essa a Venezia nel 1557, per la cui importanza nel panorama della contemporanea illustrazione editoriale veneziana, cfr. infra. Della Contemplatio é registrata anche una rarissima versione italiana, la Contemplatione di tutta la vita, et passione del nostro signor Iesu Christo, pubblicata sempre nel 1557, di cui l’unico esemplare che sembra pervenuto é conservato a Milano, alla Biblioteca Trivulziana. Rara é comunque anche l’edizione latina, se nelle collezioni delle biblioteche pubbliche del nostro territorio nazionale se ne registrano solo cinque esemplari (Vaticana, mutilo; Lucca, statale; Roma, Angelica e Alessandrina; Venezia, Fondazione Cini). Di quest’opera intendiamo tornare presto ad occuparci in altra sede.

512.

Sebbene la sola iniziale decorata presente nel testo della dedica dell’Ostaus non sembrerebbe appartenere al corredo tipografico di Vincenzo, é logico supporre che i due avessero utilizzato per la stampa i torchi dell’impresa che successivamente si sarebbe incaricata della vendita. Stessa ipotesi si potrebbe avanzare per la raccolta di modelli, cui molte delle tavole sono di chiara provenienza francese. Cfr. infra.

513.

Cfr. supra.

514.

La vera perfezione del disegno di varie sorti di ricami, & di cucire ogni sorte di punti, a fogliami, punti tagliati, punti a fili & rimessi, punti incrociati, punti a stuora, & ogn’altra arte, che dia opera a disegni. Fatto nuovamente per Giovanni Ostaus, Venezia, Giovanni Ostaus, 1561. Le tavole che sembrano di stretta derivazione lionese sono quelle dalla XLIII alla LI. Ci si propone di tornare sull’argomento prossimamente in altra sede. Già Elisa Ricci, nella Prefazione all’edizione anastatica, Roma, 1909 aveva notato l’ascendenza francese. Sono io stessa ad averla suggerita ad Urbini 2002.