Le edizioni del Dioscoride del Mattioli

Il corredo xilografico realizzato ad hoc per le numerose edizioni, in versione tanto italiana che latina, del commento del Mattioli all’opera del Dioscoride, vero e proprio work in progress cui si aggiunsero nuove tavole ad ogni successiva edizione, può essere considerato la vera e propria grande scommessa commerciale del Valgrisi.

In realtà, anche il questo caso, il rischio doveva esser stato ben calcolato, da chi, come Vincenzo, doveva aver acquisito una notevole esperienza in materia di commercio internazionale, in particolar modo in un campo in piena espansione come era quello dei testi di medicina e delle discipline ad essa connesse. Tra queste ultime, la principale era senza dubbio la farmacopea, per la quale lo strumento principale erano diventati sempre di più gli erbari illustrati: al momento, sul mercato erano disponibili quello del Brunfels, l’Herbarum vivae eicones,edito a Strasburgo tra il 1530 e il 1536, il De Historia Stirpium di Leonhart Fuchs del 1542 e il Kreüter Bůch del Tragus (al secolo Hieronymus Bock), nel 1546, opere nelle quali l’apparato iconografico risultava più importante del testo, finalizzato a ritrovare nella flora tedesca le piante descritte da Dioscoride, Plinio e Galeno518.

Se dovette essere certamente Vincenzo ad accollarsi le spese per gli onorari di Giorgio Liberale e degli incisori che realizzarono la prima serie di tavole e poi, una decina di anni dopo, nel 1563, quelli dell’equipe boema responsabile della seconda serie, un certo margine di sicurezza, se non, molto probabilmente, una vera e propria collaborazione economica, dovettero essere garantite dai munifici protettori del Mattioli: il cardinale Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento prima e addirittura il re dei Romani, Ferdinando I d’Asburgo, poi. Il rientro del capitale doveva poi essere assicurato dalla vasta rete commerciale di Vincenzo, che se poteva già assicurare una diffusione capillare del prodotto in Italia, Francia, Svizzera e Germania, si estendeva ora ad Est, in Boemia e Austria, e dalla vera e propria strategia editoriale destinata a quest’opera, che prevedeva continue riedizioni, (ognuna con tirature altissime, si calcola intorno alle tremila copie) con aggiornamenti e aggiunte di tavole. Il fiuto del Valgrisi fu ampiamente ricompensato: in base a testimonianze contemporanee, per il solo periodo anteriore al 1568, ne andarono vendute circa 32.000 copie.

L’autore, senese trasferitosi a Venezia da bambino, si era laureato a Padova nel 1523, aveva poi vissuto per oltre dieci anni a Trento, in qualità di medico, consigliere e amico del vescovo-principe Bernardo Clesio, ed esercitava a Gorizia, all’epoca in cui apparve, nel 1544, a Venezia, per i tipi del bresciano Nicolò Bascarini, la prima edizione della sua traduzione, dal latino in volgare, dell’opera di Dioscoride, completata da un ricco commento519. Riscossone un certo successo di pubblico e attenzione da parte dell’ambiente scientifico, il Mattioli ne licenziò nel 1548 una seconda edizione, migliorata e accresciuta, affidandone questa volta la stampa ad un editore di maggior prestigio, il Valgrisi, appunto. In quest’edizione i Discorsi cominciarono a diventare ciò che sarebbero stati per secoli: una referenza necessaria per gli studiosi di botanica, un manuale insostituibile per gli erborizzatori, un livre de chevet per i dilettanti di cose naturali e soprattutto il titolo grazie al quale Vincenzo avrebbe consolidato definitivamente la fama dell’Officina erasmiana 520.

. L’edizione del 1548 non presentava illustrazioni, ma il successo di quella pirata pubblicata a Mantova nello stesso anno da Giacomo Ruffinelli, in cui il testo era intercalato da numerose xilografie di reimpiego copiate da un erbario tedesco pubblicato due anni prima, convinsero il Mattioli e il Valgrisi della necessità di affrontare, il primo, l’impegno a collaborare con l’illustratore, le spese ingenti dell’intaglio e della stampa, il secondo. Se la versione latina si era resa necessaria per vincere la concorrenza delle innumerevoli traduzioni che continuavano a essere immesse sul mercato, bisognava infatti anche e soprattutto fare i conti con la pubblicistica botanica tedesca e con la superiorità che le derivava dall’originalità e dal pregio scientifico dei suoi apparati iconografici: senza figure il Dioscoride veneziano rischiava di vedersi preferito dalla maggio parte dei lettori, un qualsiasi Kraüterbuch.

Amicorum hortatu et typographi sumptu”, il Mattioli accantonò perciò le prevenzioni sul disegno botanico e scelse come illustratore della sua opera Giorgio Liberale, un giovane pittore di Udine, che aveva già qualche esperienza nel settore, dal momento che l’arciduca Ferdinando gli aveva commissionato una serie di disegni di pesci e animali521. In realtà, la collaborazione, tra lui e il Mattioli non fu delle più feconde: il Mattioli fornì al disegnatore le specie vive o disseccate, ma non i suggerimenti di metodo, né sorvegliò il suo lavoro, sicché il Liberale, aiutato da un altro pittore, ritrasse le piante più con eleganza e naturalismo che con attenzione ed esattezza. Non riuscì ad illustrare tutte le specie note al Mattioli ma preparò un corpus di ben 562 disegni, più di quanti ne fossero mai apparsi in altri libri, e ne eseguì l’intaglio su legno. Il De materia medica illustrato uscì nel 1554, procurando al Mattioli “gran lodi e allo stampatore gran guadagno”. Nel nuovo titolo, l’ormai famoso Discorsi trovò il suo parallelo in un Commentarii altrettanto efficace ed indovinato.

Nel gennaio del 1555 il Mattioli, ormai famoso, passò dalla condotta di Gorizia al servizio degli Asburgo, e si trasferì a Praga come medico personale dell’arciduca Ferdinando, conte del Tirolo e reggente della Boemia, figlio di Ferdinando I, come il padre grande mecenate e collezionista di arte e curiosità naturali. Il Dioscoride rimase però al centro dei suoi interessi: tra campagne di guerra e consilia per ricchi feudatari e regnanti, continuò perciò a rielaborare e ad ampliare l’opera della sua vita e ad affidarne nuove edizioni al Valgrisi. La lontananza non impedì infatti all’autore e al tipografo di conservare assidui legami e di sfruttare con oculatezza l’enorme successo del loro prodotto, come é testimoniato dalla corrispondenza, ora conservata alla Biblioteca Universitaria di Bologna, che il Mattioli tenne con l’Aldovrandi, il grande naturalista bolognese che lo rifornì di “semplici” erborizzati per quasi trent’anni (dal 1553 al 1571), della cui spedizione si occupava il Valgrisi, tramite i suoi agenti a Bologna522. L’apparato illustrativo che aveva trasformato in best-seller i Commentarii latini fu trasferito nel 1555 ai Discorsi volgari, ristampati poi nel 1557. Dopo di allora il Valgrisi realizzò tre nuove edizioni dei Discorsi, nel 1558, 1559 e 1568; l’edizione del 1559 fu ristampata nel 1560 e nel 1563. Anche i Commentarii ebbero tre nuove edizioni, nel 1558, 1565 e 1570, e tre ristampe, nel 1559, 1560 e 1570. E furono tutte edizioni illustrate: fino al 1565 il Valgrisi riutilizzò i legni del Liberale, aggiungendovi via via nuove figure nel frattempo realizzate dallo stesso artista, ma nel 1565 l’apparato illustrativo fu completamente rinnovato.

Per la traduzione in boemo del Dioscoride, il Mattioli aveva infatti messo a punto, a partire dal 1559, un corpus di 810 xilografie, molto più grandi ed eleganti della prima serie, le più belle che mai fossero apparse in un trattato di botanica. I disegni erano stati eseguiti sotto la sua guida dal Liberale e da Wolfgang Meyerpeck, un artista di Friburgo, coadiuvati da altri pittori della corte asburgica, e i due artisti ne avevano curato, insieme con altri, anche l’incisione523. In esse la tecnica xilografica era portata ad un virtuosismo di grado pressoché eroico nei minutissimi rilievi che riproducevano con incantevole naturalismo persino i più sottili aghi delle pinacee, le foglioline delle cupressacee, i vari intrecci delle radicette. In ogni figura, tuttavia, l’ambizione dell’arte sembrava sopraffarre il rigore della descrizione morfologica: più che l’esatta descrizione di una specie, il Mattioli desiderava una bella immagine di essa, più che conoscere la natura, pareva ormai teso a fissarne in modo impareggiabile le forme del disegno. Nei suoi ritratti di piante mancava l’amore del particolare morfologico che caratterizzava i contemporanei acquerelli, pure bellissimi, di Conrad Gesner: in essi la figura generale era circondata dai particolari dei semi, dei frutti, dei cauli, dei fiori, delle radici, cosicché nulla era esornativo, ma tutto funzionale alla descrizione scientifica. Ma se nel Gesner l’interesse principale era quello di osservare e conoscere, nel Mattioli era invece quello di trasporre in libro il mondo naturale: il suo Dioscoride dalle elegantissime xilografie praghesi si andava così differenziando da tutti gli altri erbari illustrati per assimilarsi piuttosto ai curiosa della Wunderkammer ferdinandea: il vasto resoconto del mondo naturale assumeva le forme dell’opera d’arte, la natura indagata nella sua profondità si fissava in splendida immagine524.

L’erbario boemo uscì nel 1562 e i suoi legni furono riutilizzati l’anno seguente per la versione tedesca dei soli Commentarii senza il testo di Dioscoride, intitolata New Kräuterbuch. Il Valgrisi ne finanziò la stampa, e volle poi inserire le splendide xilografie nella sua edizione dei Commentarii del 1565, realizzata, con ambizioni e cura particolari, su carta verde. Un esemplare

‘“colorito et ornato tutto d’oro et d’argento di modo che in Venezia é stato tenuto come la cosa più rara che sia mai stata veduta in questa facoltà” ’

e che “é stato stimato da pittori valenti cinquanta scudi di sola manifattura” fu donato infatti a Ferdinando I, “grandissimo naturalista” e “miracoloso in ragionamenti di tutte le cose naturali”.

Il Valgrisi ripropose le stesse xilografie anche in quella che é considerata dai bibliologi l’edizione più bella dei Discorsi, quella del 1568, ma nelle successive preferì i legni meno decorativi ma anche meno ingombranti della prima serie del Liberale525. Il Valgrisi ristampò sia i Commentarii (1569) sia i Discorsi (1570) e in questo stesso anno realizzò una nuova edizione dei primi, riveduta nel testo ed arricchita di nuovi indici dei sinonimi: l’ultima sia per lui che per il Mattioli, che morì a Trento durante la peste del 1577, sebbene nel 1571, il “tandem” avesse ancora prodotto il Compendium de Plantis omnibus, illustrato con il corredo “piccolo”.

Alla morte di Vincenzo, i suoi eredi Giovanni e Felice continuarono a stampare testi di medicina e botanica, ma soprattutto coltivarono il “ramo d’oro” del Mattioli, di cui eseguirono altre sei tra ristampe e riedizioni. Nella dedicatoria all’edizione del 1585, in cui riproponeva le grandi xilografie boeme e suddivideva il testo in due, più pratici, volumi, Felice annunciava che

‘“perché siamo interamente disposti dar satisfattione a gli studiosi, acciò ciascuno possa dal vivo delineare et dipingere il presente volume [...] habbiamo fatteo stampare XXV di questi volumi in carta reale bellissima et attissima a ricevere senza trasparenze ciascuna sorte di colori, acciò i medici et altri studiosi possino adornare i loro studi et possino fare anco dono a quei principi che si dilettassero d’illustrarne le loro librerie”’

Da testimonianze contemporaneee, sappiamo che il Valgrisi stimava di aver venduto oltre 32.000 copie di quel libro che non per questo non cessava di essere richiesto. E le cifre del tipografo trovano conferma in quelle dell’autore, nella lettera dedicatoria del 1568526. Se i dati di entrambi sono veritieri, possiamo calcolare che le tirature medie delle dieci tra edizioni e ristampe del Dioscoride italiano anteriori al 1568 si aggirassero sui 3000 esemplari: una quantità enorme, se si pensa che a Venezia le tirature usuali erano di 1000 copie, e che nemmeno un Plantin ad Anversa si arrischiava a tirarne, anche per titoli più esitabili, più di 1500-2000. Solo un successo davvero straordinario ed impareggiabile poteva giustificare un’offerta tanto esorbitante.

Nessuna erborizzazione parve più possibile senza il riconoscimento nelle figure del Mattioli, e anche nei secoli successivi, quando le specie note passarono dalle sue 1200 alle 18000 di John Ray (1682) e il problema principale divenne la classificazione, e persino dopo il Systema naturae di Linneo (1735), i botanici continuarono ad usare quel testo e, soprattutto, quelle figure527. Ma i lettori del Mattioli non furono soltanto i botanici: i letterati del Seicento lo considerarono una miniera cui attingere “imprese” rare e meravigliose, perché decrittabili solo attraverso la conoscenza dei fatti della Natura. Nessun lettore animato in qualche modo dall’amor di libro seppe sottrarsi al fascino di quelle figure così belle, sia nella prima serie veneziana sia nella serie boema: nei cataloghi di grande e piccolo antiquariato librario, i Commentarii o i Discorsi sono ancora tra i titoli più ricorrenti ed apprezzati, mentre non c’é bottega di stampe antiche che non ne possieda almeno qualche foglio smembrato e ridotto a quadretto, o una qualche riproduzione in fac-simile.

Senza, in fondo, essere un grande botanico, il Mattioli realizzò il più importante libro di botanica del suo tempo. I contemporanei ne sopravvalutarono certamente il metodo, ma di certo non sbagliarono nel giudicarlo un’impareggiabile introduzione al mondo naturale. La bellezza della sua veste grafica ebbe certo il sopravvento sul suo valore scientifico, ma contribuì a renderlo un classico della scienza naturale e della bibliofilia. Parte del merito spettò sicuramente al suo tipografo ed editore: senza l’intuito e l’azzardo del Valgrisi, il Mattioli non avrebbe probabilmente mai affrontato l’impresa delle illustrazioni, e senza la sua vasta rete commerciale e la sua esperienza di libraio quel libro non sarebbe probabilmente mai riuscito ad affrontare la concorrenza tedesca e francese e ad affermarsi sul mercato europeo.

Il grande successo commerciale del titolo valgrisino conquistò alla trattatistica scientifica altri tipografi-editori veneziani, rappresentandone d’ora in poi la pietra di paragone in fatto di qualità e cura tipografica.

Il Valgrisi, infine, reimpiegò qualche legno del primo corredo del Dioscoride nell’edizione dell’Opera di Mesue, stampata nel 1561 e riedita l’anno seguente : le colonne del testo sono inframezzate da 61 xilografie, tra cui 58 raffigurano altrettanti “semplici” e tre degli strumenti di distillazione.

Durante il sesto decennio, almeno fino alla realizzazione e alla stampa, nel 1563, del secondo e magnifico corredo per il Dioscoride del Mattioli, Vincenzo non sembra aver il tempo né l’intenzione di scegliere un’altro testo su cui puntare e da valorizzare con un corredo illustrativo originale.

Anche le due edizioni, italiana, nella traduzione del Ruscelli, e latina, nella versione del Pirckheimer della Geografia di Tolomeo, stampate da Vincenzo rispettivamente nel 1561 e 1562, rappresentavano un titolo sicuro. Il centro di maggiore diffusione della Geografia tolemaica nella seconda metà del Cinquecento fu infatti Venezia, tanto che delle 12 edizioni stampate nella seconda metà del secolo, ben nove uscirono da torchi veneziani528.

Le due edizioni sono corredate da 64 tavole calcografiche, tanto le antiche, quelle di tradizione tolemaica, che le “moderne”: il testo del privilegio richiesto da Vincenzo nel 1561 (1560 more veneto) precisava infatti di riguardare

‘“...tutte le tavole della geografia di Claudio Tolomeo così nelle moderne come nell’antiche, et dappoi intagliate in Rame [...] Et medesimamente el testo di essa geografia tradutta dalla lingua greca, nella nostra italiana”.’

Esse erano però ricavate da quelle di Giacomo Gastaldi, realizzate per la prima edizione in lingua italiana, a cura del Mattioli, stampata a Venezia nel 1548529.

Notes
518.

Per l’illustrazione botanica, cfr. Blunt 1950; Immagine e Natura 1984; Battisti 1987, pp. 287-313; Landau-Parshall 1997, pp. 245-259; Natura-Cultura 2000, in particolare il saggio di L. Tongiorgi Tomasi, L’immagine naturalistica: tecnica e invenzione, pp. 133-151 e cap. III. Per l’importanza di Dioscoride nello studio della botanica e per la trasmissione delle sue opere dall’antichità all’età moderna, cfr. le schede dedicate a diversi manoscritti in Vedere i classici 1996.

519.

Per il Mattioli, cfr. G. Fabiani, La vita di Pietro Andrea Mattiolo raccolta dalle sue opere, con aggiunte e annotazioni per cura di L. Banchi, Siena 1872 ; Raimondi 1906 ; Pesenti 1985 ; I giardini dei semplici 1993 e ora Pietro Andrea Mattioli 1997 con bibliografia completa ed aggiornata.

520.

Per l’impresa editoriale dei Discorsi e del Commentarii, cfr. Raimondi 1906 ; Mortimer 1972, nn. 294-95, pp. 429-434 ; Pesenti 1985 che rappresenta ancora il titolo di rifermento; Pietro Andrea Mattioli 1997 ; Milanesi 2002. Per la bibliografia delle edizioni, cfr. Stannard 1969. Ringrazio John Bidwell della Pierpont Morgan Library di New York per avermi gentilmente comunicato il testo del suo intervento The Publishing Strategies of Pietro Andrea Mattioli, Botanist and Physician, letto in occasione del convegno annuale della SHARP tenutosi a Lione nel 2004. Molte delle matrici lignee sono ancora sul mercato antiquario, cfr. The Mattioli Woodblocks 1989.

521.

Per Giorgio (o Genesio) Liberale, cfr. Caracci-Rossitti 1967-68 , Coronini Cronberg 1971 e Tongiorgi Tomasi 1997.

522.

Cfr. Raimondi 1906.

523.

Cfr. Tongiorgi Tomasi 1997.

524.

Su questo aspetto del collezionismo Cinque-Seicentesco, cfr. bel libro di A. Lugli, Naturalia e mirabilia, Milano, 1989

525.

Per l’esemplare miniato da Gherardo Cibo per Francesco II Della Rovere, ora alla Biblioteca Alessandrina di Roma (RARI 278), v. il sito www.alessandrina.librari.beniculturali.it e L. Tongiorgi Tomasi, Gherardo Cibo : visions of landscape and botanical sciences in a sixteenth century artists, “Journal og Garden History”, 9, 4 (1989), pp. 199-216 e Eadem, Giardino segreto. Gherardo Cibo, un “dilettante” del Cinquecento, “FMR” 70 (1989), pp. 49-64 e Discorsi sulle Piante e gli Animali – Il Dioscoride colorito e miniato da Gherardo Cibo per Francesco Maria Della Rovere, Duca d’Urbino, a cura di A. Nesselrath, Roma1991

526.

Cfr. Appendice 6, in cui é riportata per intero.

527.

Numerose matrici del corredo “grande” dei Commentarii, acquistate dal celebre agronomo francese Henri Louis Duhamel de Monceau, furono da lui usate per la realizzazione di ben 150 tavole poste a corredo illustrativo dei due volumi del suo Traité des Arbres et Arbustes, pubblicato a Parigi nel 1755. L’autore ricorda nella prefazione che

“J’ai le bonheur de recouvrer presque toutes les planches de la belle édition latine du Matthiole de Valgrisi: les Imprimeurs de mon Ouvrage ont fait graver avec soin celles qui y manquoient”.

Cfr. H. L. Duhamel de Monceau, Traité des arbres et arbustes...I, Paris, Guerin & Delatour, 1755; M. Simonetto, Duhamel Du Monceau a Venezia, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi a cura di L. Antonielli, C. Capra, M. Infelise, Milano, 2000.

528.

La bibliografia sulla produzione cartografica nel Rinascimento é smisurata, un buon punto di partenza e di orientamento bibliografico é offerto da Woodward 2002 ; cfr. anche Alla scoperta del Mondo. L’arte della cartografia da Tolomeo a Mercatore, Modena, 2002; Per la tradizione del testo tolemaico, cfr. Vedere i classici 1996; A. Codazzi, Le edizioni quattrocentesche e cinquecentesche della “Geographia” di Tolomeo, Milano-Venezia, 1950; Cosmographia. Tavole della Geografia di Tolomeo, presentazione di Lelio Pagani, Bergamo, 1990 e la scheda di F. Benedetti in Vita nei libri 2003, pp. 280-82.

529.

Cfr. R. W. Karrow Jr. Mapmakers of the Sixteenth Century and Their Maps, Chicago, 1970, pp. 222-23; C. Fahy, The Venetian Ptolemy of 1548, in Italian Book 1993, pp. 89-115; Mortimer 1972, n. 404, p. 578; Witcombe 2004, p. 246. Il testo del privilegio é in ASV, Senato Terra, reg. 43, fol. 39v.