così Francesco Marcolini descriveva le Immagini degli Dei degli antichi di Vincenzo Cartari, nella prefazione alla prima edizione da lui stampata nel 1556.
L’opera del Cartari, significativamente in volgare, dati i destinatari cui si rivolgeva, rappresenta il punto di arrivo di una lunga tradizione mitografica, che, a partire dalla tarda antichità, passando attraverso il Medioevo, si era arricchita nel corso del tempo di testimonianze della provenienza più disparata. Responsabili delle caratteristiche del contenuto dell’opera sono le fonti alle quali Cartari si é rivolto per avere notizie sugli “dei degli antichi”, ed il dato che ne emerge con maggior evidenza é l’assenza totale di un criterio di scelta. Non solo non si é stabilita una priorità basata sulla cronologia, ma manca qualsiasi distinzione anche riguardo alla provenienza del materiale compendiato: tra le oltre cento auctoritates citate – in traduzione - a più riprese dal Cartari, si trovano, accanto ad Erodoto, Cicerone e Livio, Macrobio, Marziano, Boccaccio, Alciati e Calcagnini, dopo la testimonianza di Platone o Ermete Trismegisto, si cita Sant’Agostino o Lattanzio, Pausania é il nome che ritorna con maggior frequenza, ma seguono Virgilio, Plinio, Suida535.
Ed é proprio a queste fonti così eterogenee che si deve la presenza nelle Imagini di un numero ragguardevole di divinità esotiche, caratterizzate da attributi assai diversi rispetto a quelli degli dei olimpici di classica memoria. In fondo, infatti, lo scopo principale del trattato consisteva nel descrivere, nel modo più esauriente possibile, tutte le divinità conosciute, per aiutare artisti e letterati a rappresentarne la forma, figurativamente o con le parole: proprio per questa ragione venne rivolta un’attenzione particolare a quelle divinità la cui circolazione era ancora limitata, e soffermandosi con particolare attenzione su quelle figurativamente più complesse, il Cartari ha dato vita ad un compendio del mostruoso e del grottesco, che tanto aveva in comune con l’enciclopedismo dei secoli precedenti. Il carattere favolistico delle immagini e delle allegorie del Cartari, non risulta comunque tanto dalla lettura del testo – che anzi appare corretto da un punto di vista filologico e di ricostruzione della tradizione testuale - quanto proprio dal suo apparato illustrativo.
Nel 1571, infatti, Vincenzo Valgrisi e il genero Giordano Ziletti, cui sembra doversi attribuire l’iniziativa editoriale, se ne dividevano la tiratura della seconda edizione, questa volta arricchita da 88 tavole calcografiche, opera del veneziano, Bolognino Zaltieri, più noto come editore e tipografo. E forse non a caso, dal momento che le incisioni non mostrano un particolare talento artistico, ma piuttosto un costante impegno nel mantenersi fedeli al contenuto del testo, a ricostruirne le descrizioni alla lettera, trasponendole dal piano narrativo a quello figurativo. Zaltieri, insomma, si comporta nello stesso modo al quale si richiedeva di attenersi rivolgendosi agli artisti, e anche qualora avesse avuto sotto mano un concreto modello figurativo a cui rifarsi, egli mostra di non voler mai derogare al fermo principio della “fedeltà alle fonti”. Quello che ne risulta é una serie di immagini composite, spesso prive di coerenza e di armonia formale, a volte mostruose ed inquietanti, e la noncuranza nei confronti delle fonti iconografiche antiche dimostrata dallo Zaltieri é tanto più notevole e curiosa in quanto stride con un panorama, quello di metà Cinquecento, caratterizzato da ferventi ricerche atiquario-erudite e da un sempre maggiore interesse nei confronti delle opere d’arte classica e dei nuovi reperti archeologici da parte degli artisti. Nel suo caso, anche quando le sue creazioni sembrano rievocare iconografie classiche o antichi monumenti, o mostrare strette affinità e singolari concordanze con opere d’arte del XV e XVI secolo, ciò é spesso dovuto al tramite letterario o all’impiego di fonti analoghe. Questa fedeltà alle diverse e talvolta contradditorie descrizioni riportare dal Cartari nel testo, e l’ottima conoscenza delle fonti impiegate dal suo autore dimostrata dallo Zaltieri nell’illustrazione di parecchi “simulacri”, sembra da considerarsi la prova di una stretta collaborazione tra i due. E’ infatti molto probabile che il Cartari gli abbia direttamente fornito i riferimenti iconografici da cui trarre spunto per determinati soggetti, dal momento che non sono rare le situazioni in cui difficilmente l’incisore sarebbe stato in grado, da solo, di individuare le illustrazioni alle quali Cartari si era riferito per la redazione del testo.
Un buon numero di immagini, infine, deriva direttamente da altre illustrazioni “libresche” contenute in raccolte di emblemi, anticaglie e monete, che, al pari delle fonti letterarie del Cartari, per la maggior parte testi mitografici “moderni”, sono da ricercarsi nei repertori illustrati editi tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, di più larga e immediata diffusione: le Inscriptiones Sacrosanctae vetustatis di Pietro Appiano (Ingolstatdt, 1534), gli Emblemata dell’Alciati (Augusta, 1531), gli ormai canonici Hieroglyphica di Horapollo, le Symboliacae quaestiones di Achille Bocchi incise da Giulio Bonasone (Bologna, 1555) e la Theologia Mitologica di Georg Pictor nell’edizione del 1558 (Basilea). Anche in questo caso, appare evidente come lo Zaltieri non si sia dato troppa pena nel cercare tra i reperti antichi le fonti iconografiche per le sue incisioni: egli ha più semplicemente attinto, secondo il metodo già adottato dal Cartari, a repertori già esistenti, in cui gli dei avevano assunto un carattere spesso favolistico ed immaginifico; persino per le monete e le medaglie antiche, citate frequentemente dalla sua fonte, Bolognino guarda più volentieri, come già dovette fare l’autore del testo, alle opere di Augustin, Du Choul, Enea Vico e Sebastiano Erizzo, che, come abbiamo visto, di quelle monete avevano dato un compendio accurato e raffigurazioni incise. Quello che ne risulta sono immagini che devono assai più all’emblematica che ai repertori archeologici, nelle quali si assiste infatti ad una sorta di trasposizione in chiave “monumentale” di quelle figure, spesso bizzarre, ma talvolta anche ispirate a modelli classici, che popolavano i trattati sugli emblemi.
Tutte le incisioni, infine, appaiono accomunate dalle stesse caratteristiche formali: Zaltieri non distingue stilisticamente i soggetti ripresi da fonti classiche rispetto a quelli descritti sulla base di autori tardo-antichi o medievali, questo perché agli dei raffigurati nelle incisioni venne affidata una funzione puramente esplicativa: lo scopo per cui Zaltieri tradusse in immagini le notizie riportate dalle fonti, era quello di fornire ai lettori un insieme di esempi chiarificatori del testo; il suo compito, cioé, non consisteva nell’attribuire ai “simulacri” raffigurati un aspetto più o meno classico in rapporto alla fonte di provenienza, ma era indirizzato alla caratterizzazione dettagliata di ciscun soggetto attraverso la riproduzione dei particolari e degli attributi esposti nel testo. L’introduzione di un apparato illustrativo slegato dalle descrizioni avrebbe senz’altro limitato il valore esplicativo dell’opera: non vi potevano essere divergenze tra l’esposizione verbale e quella figurativa, se non a scapito dell’obiettivo principale per cui furono scritte le Imagini.
Nonostante le caratteristiche del testo e delle illustrazioni dimostrino chiaramente che l’opera di Cartari fu spesso assai lontana dal proporre modelli figurativi ripresi dalla tradizione classica, questo non venne mai sentito come una mancanza da coloro che vi si rivolsero per essere informati riguardo alle caratteristiche iconografiche degli dei. Le Imagini, infatti, vennero continuamente ristampate fino alla fine del Seicento. Di esse si contano oltre trenta edizioni, di cui un terzo é costituito da traduzioni in latino, francese, inglese e tedesco, e proprio a causa di questa fortuna, l’opera di Cartari divenne ben presto una sorta di dizionario anonimo. Le incisioni dello Zaltieri, che ornarono sei edizioni pubblicate nel corso del Cinquecento, costituirono il modello di almeno altrettanti diversi apparati illustrativi, creati appositamente per le successive edizioni stampate in Italia e all’estero, tra cui le versioni italiana, latina e francese uscite contemporaneamente a Lione, nel 1581, per Etienne Michel e Barthélemy Honorat. Una nuova edizione dell’opera del Cartari a cura dell’antiquario padovano Lorenzo Pignoria, stampata a Venezia nel 1615 da Pietro Paolo Tozzi, fu arricchita da un nuovo corredo xilografico, opera di Filippo Ferroverde.
Come si diceva, nel caso di alcune edizioni illustrate che pur compiaono a pieno titolo nel suo catalogo, il ruolo di Vincenzo si limita a quello dello stampatore, che si occupa cioé della sola operazione di traduzione tipografica di un manoscritto che gli giunge in tipografia già completo del suo corredo illustrativo, di cui é responsabile l’autore stesso del testo – in prima persona o come supervisore - o un altro editore, privo del materiale o dei torchi necessari, o con cui Vincenzo condivide l’edizione.
Quest’ultimo sembra essere il caso dell’edizione del De re anatomica di Realdo Colombo (1559), il cui frontespizio, ornato di una bella tavola xilografica a piena pagina - unica illustrazione dell’intero trattato – reca l’indirizzo di Nicolò Bevilacqua, mentre il ruolo “secondario” di stampatore del Valgrisi sembra ricavarsi dalla presenza della sua marca nel colophon 536.
La xilografia coglie come in un istantanea, in evidente dipendenza dal frontespizio della Fabrica vesaliana, una scena di dissezione operata in prima persona dal Colombo - assistente dello stesso Vesalio nell’ateneo padovano e in seguito suo successore - in presenza di colleghi ed allievi, di un giovane disegnatore in attesa di “schizzare” organi, muscoli ed ossa che verranno ben presto alla luce, e persino di un bambino. Per l’autore di quest’immagine si sono fatti i nomi più disparati: dagl’improbabili Veronese e Tiziano, quest’ultimo probabilmente solo in nome dell’amicizia che lo legava all’autore, a un già più verisimile Giuseppe Porta, sulla base delle assonanze con alcune figure delle Sorti di Francesco Marcolini e del fatto che il Bevilacqua fu il continuatore dell’attività editoriale dell’editore forlivese, ma il tratto parrebbe comunque più rigido e meno felice, almeno rispetto al frontespizio dell’opera marcoliniana, firmato a chiare lettere dal Garfagnino.
Da notare, infine, che il Colombo dopo sei anni di brillante carriera a Padova, si era trasferito prima a Pisa e poi a Roma, in qualità di archiatra di Paolo IV. Qui aveva preso contatti con Michelangelo, cui aveva fornito dei disegni anatomici ricevendone la promessa della realizzazione delle tavole per un’edizione illustrata della sua opera, impresa che però il Buonarroti non portò mai a termine537.
Prima di affrontare due testi consacrati alla numismatica, bisogna ricordare che nel Cinquecento lo studio delle monete conobbe un enorme successo, essendo considerato un vero e proprio impegno intellettuale, degno di essere intrapreso da nobili e gentiluomini ma persino dagli stessi principi, per i quali la conoscenza della storia era naturalmente di grande importanza538.
In effetti, questa nuova scienza si distingueva dagli altri rami del sapere per una diffusione “interclassista”: se gli appartenenti alle classi più agiate potevano raccogliere ed assemblare sontuose collezioni, dilettanti di rango sociale inferiore erano ugualmente in grado di prendere parte ai dibattiti e alle controversie quasi sullo stesso piano degli eruditi e dell’aristocrazia. I numismatici costituivano dunque una sorta di “massoneria” europea di “studiosi e cacciatori di tesori”, in cui la classe sociale e la nazionalità avevano poca parte e spesso si riuscivano a superare anche i confini religiosi: gli scambi epistolari e le visite tra gli eruditi si svolgevano con una cortesia e un reciproco aiuto nelle ricerche, ben diversi da quanto accadeva tra gli adepti dello studio dei testi antichi.
Questi studiosi cercarono innanzitutto di determinare la vera natura degli oggetti che tanto li interessavano: i preziosi oggetti metallici che loro stessi, i loro amici e i loro governanti collezionavano con tanta avidità, erano monete fatte per essere usate nelle transazioni commerciali, secondo quanto sosteneva Enea Vico, oppure erano, come invece sosteneva Sebastiano Erizzo, medaglie coniate esclusivamente per scopi celebrativi ?
Questa fu la prima grande disputa relativa alla nuova scienza, che vide protagonisti proprio due autori entrambi pubblicati dal Valgrisi, in una Venezia di metà Cinquecento, terreno fecondo per il collezionismo privato e il mercato, in particolare proprio di antichità e monete539. Comune ai due autori, infatti, era senz’altro la tendenza a considerare le monete inserite nel più vasto insieme delle immagini, visioni della gloria degli antichi e modello per gli occhi dell’umanista. In questo campo primeggiavano solennemente i reperti della statuaria, protagonista delle più ricche collezioni veneziane, come quella dei Grimani, che porterà alla costituzione dello Statuario Pubblico, come anche delle minori, attraverso busti e piccoli rilievi. Tuttavia, le monete non avevano certo, per questi autori, parte di minor rilievo, rivestendo il valore di vere e proprie “imprese”, dell’antichità, grazie alla compresenza dell’elemento testuale (l’iscrizione) e iconico (l’immagine raffigurata sui “riversi”).
Se poi il Valgrisi doveva offrire a questi autori garanzie di qualità ed accuratezza nella stampa - soprattutto nel caso del trattato del Vico che richiedeva l’impiego di torchi adatti alla tiratura delle tavole calcografiche di cui si componeva il volume – e di diffusione, visto l’interesse internazionale della materia, possiamo supporre che, dal canto suo, Vincenzo accettasse di buon grado la commissione, soprattutto sulla scorta dello strepitoso successo di pubblico e di vendita che godeva questo genere di pubblicazioni, per la maggior parte prodotte a Lione, principale centro editoriale del “settore”, o nel Nord Europa, e di cui Vincenzo, naturalmente, doveva essere il primo ad essere al corrente540.
Per un profilo biografico sufficientemente accurato del Cartari, dove sono raccolte le scarse notizie e le incerte illazioni possibili sulla sua vita, cfr. M. Palma, ad vocem in DBI, XX, 1977, pp. 793-796. Per le Imagini, cfr. Mc Grath 1962; Gentili 1980; Volpi 1992 e Eadem Le fonti delle “Immagini degli dei degli antichi di Vincenzo Cartari”, in Der antike Mythos und Europa, a cura di F. Cappelletti, Berlin, 1997, pp. 58-73; Decroisette 1999, oltre all’introduzione di M. Pastore Stocchi all’edizione fac-simile, Vicenza, 1993.
Cfr. Mortimer 1974, n. 129, pp. 183-84.
Per il Colombo, cfr. Ongaro 1981, pp. 108-112, per il progetto del trattato illustrato da Michelangelo, cfr. A. Parronchi, Opere giovanili di Michelangelo, Firenze, 1975, II, pp. 191-222.
Per la numismatica e la produzione di trattati o ad essa dedicati nel Cinquecento, cfr. R. Weiss, The Study of ancient numismatics during the Renaissance (1313-1517), “Numismatic Chronicle” e Idem, The Study of Ancient Numismatic, in Weiss 1969, pp. 167-179; Haskell 1984 e 1997, pp. 13-23.; Cunnally 1999; Casini 2004 e Andreoli 2006
Per la controversia “monete o medaglie”, cfr. Missere Fontana 1994-95 e Cunnally 1999, per le collezioni d’antichità a Venezia, cfr. Franzoni 1981, Collezioni di antichità 1988 e Fortini-Brown 1996.
Per il collezionismo, gli studi e l’editoria numismatica a Lione, cfr. Cooper 1988 e Guillemain 1993 e supra, nota 161.