Simolachri, historie, e figure de la morte, ove si contiene, la medicina de l’anima utile, e necessaria, non solo a gli ammalati, ma a tutti i sani. Et appresso, il modo, e la via di consolar gl’infermi. Un sermone di S. Cipriano, de la mortalità. Due orationi, l’una a Dio, e l’altra a Christo de dire appresso l’ammalato oppresso da grave infermità. Un sermone di S. Giovan Chrisostomo che ci essorta a patienza, e che tratta de la consumatione del secolo presente, e del secondo avenimento di Iesu Christo, de la eterna felicità de giusti, de la pena, e dannatione de rei; et altre cose necessarie a ciascun Christiano, per ben vivere, e ben morire.
In Venetia : appresso Vincenzo Vaugris al segno di Erasmo, 1545
In –8; [216] pp.; segn.: A-N8, O4.
Cc. A2r-A4r: Al magnifico, et honorato signor mio, il signore Antonio Calergi (v. Appendice 5.4); cc. A5r-D1r: 41 xilografie tratte dalla serie della Danza macabra di Holbein, una per pagina, preceduta dal verso latino, con sotto la fonte da cui é tratta, e seguita da una quartina in italiano; c. D1v: “Rom. 5. Come per un homo il peccato entrò nel mondo, e per il peccato la Morte è parimente pervenuta sopra tutti gli huomini, inquanto che tutti han peccato”; cc. D2r-D3v: Prefatione de la medicina de l’anima; cc. D4r-I5v: De la medicina dell’anima testo con marginalia in cui sono indicate le fonti; cc. I6r-K8v: La maniera del consolar gl’infermi; cc. L1r-M4r: Sermone di San Cipriano intitolato, de la immortalità; cc. M4v-M6v: Oratione a’ Dio da dirsi appresso l’ammalato mentre si visita; cc. M7r-M8r: Oratione a Christo, quando l’ammalato e gravemente oppresso; cc. M8v-O4r: Sermone di San Giovan Grisostomo, Il quale ci esorta a pacienza, e tratta de la consumatione de’l secolo, e de’l secondo avenimento di Iesu Christo, de la gioia eterna de giusti, de la pena e dannatione de rei; e d’altre cose necessarie ad ogni Christiano, per ben vivere, e ben morire.
Illustrazioni
Quarantuno xilografie di cm. 6,4x4,9 circa, con cornice lineare, tratte dalla serie della Danza macabra di Holbein: c. A5r: Creation del Mondo, Gen. Iⅈ c. A5v: Il peccato, Gen. III; c. A6r: La morte, Gen. III; c. A6v: Maledittione, Gen. III; c. A7r: Scheletri musicanti, Apoc. VIII; Gen. VII; c. A7v: Il papa, Iosue XX; Psal. CVIII; c. A8r: L’imperatore, Esaiae XXXVIII, Esaiae XXII; c. A8v: Il re, Eccle. X; c. B1r: Il cardinale, Esaiae v; c. B1v: L’imperatrice, Danie. IIII; c. B2r: La regina, Esaiae XXXII; c. B2v: Il vescovo, Mat. XXVI; Mar. XIIII; c. B3r: Il duca, Ezechie. VII; c. B3v: L’Abate, Prover. V; c. B4r: La Badessa, Eccle. IIII; c. B4v: Il nobile, Psal. LXXXVIII; c. B5r: Il decano, Mat. XXVI; c. B5v: Il giudice, Amos II; c. B6r: L’avvocato, Prover. XXII; c. B6v: Il consigliere, Prover. XXI; c. B7r: Il sacerdote, Esaiae XV; c. B7v: Il prete, Sap. VII; c. B8r: Il monaco, Psal. CVI; c. B8v: La monaca, Prover. IIII; c. C1r: La vecchia, Eccle. XXX; c. C1v: Il medico, Lucae IIII; c. C2r: L’astronomo, Iob XXVIII; c. C2v: Il ricco, Lucae XII; c. C3r: Il mercante, Proverb. XXI; c. C3v: Il marinaio, I. Ad Tim. VI; c. C4r: Il cavaliere, Iob XXXIIII; c. C4v: Il conte, Psalm. XLVIII; c. C5r: Il vecchio, Iob XVII; c. C5v: La contessa, Iob XXI; c. C6r: La nobildonna, Ruth I; c. C6v: La duchessa, IIII. Reg. I; c. C7r: Il venditore ambulante, Matth. XI; c. C7v: Il contadino, Gen. I; c. C8r: Il bambino, Iob XIIII; c. C8v: Il giudizio finale, Matth. XXIIII; c. C1r: Blasone della Morte, Eccle. VII;
Reimpiegate in :
Imagines mortis. Hic accesserunt, epigrammata è Gallico idiomate à Georgio Aemylio in Latinum translata. Ad haec. Medicina animae, tam iis, qui prospera, quam qui adversa corporis valetude affecti sunt, maximè necessaria. Ratio consolandi ob morbi gra[v]itatem periclosè decumbentes. Quae his addita sunt, sequens pagina commonstrabit.
Venetiis : apud Vincentium Valgrisium, 1546
In –8; 92 c.; segn.: A-L8, M4.
Simolachri, historie, e figure de la morte, ove si contiene, la medicina de l’anima utile, e necessaria, non solo a gli ammalati, ma a tutti i sani. Et appresso, il modo, e la via di consolar gl’infermi. Un sermone di S. Cipriano, de la mortalità. Due orationi, l’una a Dio, e l’altra a Christo de dire appresso l’ammalato oppresso da grave infermità. Un sermone di S. Giovan Chrisostomo che ci essorta a patienza, e che tratta de la consumatione del secolo presente, e del secondo avenimento di Iesu Christo, de la eterna felicità de giusti, de la pena, e dannatione de rei; et altre cose necessarie a ciascun Christiano, per ben vivere, e ben morire.
In Vinegia: appresso Vincenzo Vaugris al segno di Erasmo, 1551
La Danza macabra
Il tema della Danza Macabra fu uno dei soggetti maggiormente in voga in Europa tra la fine del Medioevo e gli albori dell’Età moderna, in particolar modo in quelle zone geografiche in cui si radicarono le diverse confessioni protestanti. La persistenza dei temi macabri nei paesi del Nord accredita una sua origine tedesca; in effetti, la danza godette di egual fortuna in Germania come in Francia, in Inghilterra e in Spagna: soltanto nell’Italia del Quattrocento é più raro incontrarla.
Iconografia tutt’altro che dotta, teologica, intellettualistica o letteraria, ma al contrario, fenomeno naturalmente ed intrinsecamente legato al più spontaneo e naturale “amore per la vita”, essa conobbe un’imponente diffusione soprattutto grazie alle decine - anzi, probabilmente, centinaia - di affreschi, in chiese e altri edifici pubblici, e alle numerosissime edizioni illustrate di testi devoti ad uso quotidiano della comunità dei lettori del tempo560.
Derivando dal complesso rapporto che l’uomo ha instaurato con la Morte nel corso dei secoli, ognuno degl’elementi e delle varianti che caratterizzano quest’iconografia ha meritato analisi e commenti approfonditi che ne hanno sottolineato l’estrema fertilità semantica. L’idea della danza, che da gioiosa diventa macabra, trasmette, oltre ad una sensazione di sottile e diffusa mestizia, un messaggio di ironia corale, espressione di un’accettazione, collettiva anch’essa, disincantata - quasi distaccata e, al tempo stesso, vigorosamente coraggiosa - della Morte, presa di coscienza dotata di un’intensità che risulta analoga a quella che si manifestò, nella medesima temperie, tramite l’affermarsi della Riforma.
I “memento mori”, e gli “hodie mihi, cras tibi” pronunciati da scheletri beffardi impegnati in coreografie cui i partners – ancora per poco - vivi non sanno sottrarsi, trasmettono certamente un messaggio didattico-pedagogico e ammonitore, che però non si esaurisce nella sua portata moraleggiante. Queste carole infernali mostrano soprattutto il loro valore di “specchio” o di “controfigura” della comune sorte universale, non tanto, o non solo, nel tono della predica e del biasimo, o tanto meno della condanna, quanto, col proporre ad ogni tipologia umana il proprio alter-ego fissato nella calce o sulla pagina, nella dimensione della presa di coscienza singola, e al tempo stesso collettiva, non propriamente di una minaccia, ma piuttosto della necessità dell’incombere di un termine inesorabile, e dunque della necessità di un’introspezione necessariamente oggettiva.
Proprio per questo aspetto, l’ulteriore connotazione di fondo che sembrerebbe emergere dallo spettacolo dipinto, miniato o inciso cui lo spettatore é messo di fronte, é la comunanza della sorte umana, e quindi l’assoluta uguaglianza dinanzi al termine ultimo, capace di scardinare ogni gerarchia sociale, ogni divario d’età, ogni differenza di sesso o di professione. Quello che caratterizza la Danza Macabra é, insomma, la terribile attualità di un’eluttabilità vera per ognuno, ora e sempre, perennemente, e questo suo valore universale le attribuisce una grande capacità di adattamento a congiunture, contesti, epoche e persino confessioni differenti, tanto che si può parlare, senza diminuirne la portata e la risonanza, di versioni più o meno laiche o cattoliche, o protestanti, moderne o post moderne.
Fu probabilmente questo aspetto “egalitario” che portò – almeno dal 1550 circa in poi – al rigetto e al tendenziale rifiuto di questa iconografia da parte di generazioni meno temprate e più edonistiche, sempre più disposte a dimenticare o rimuovere quello specchio dell’uguaglianza dinanzi al morire, e sempre meno a rinunciare alle attrattive della diseguaglianza nella vita.
In realtà, nella Danza Macabra, il punto non sta affatto, o almeno non soltanto, nella constatazione che tutti si é mortali, fatto che, anzi, in tempi, come quelli della prima età moderna, di crescente senso individualistico della Morte (e quindi della paura di essa in quanto prova - e termine – individuale) poteva suonare come una nota non tanto ammonitoria quanto consolatoria ; il particolare impianto di una tale iconografia, e il contenuto delle ammonizioni di ciascun morto - e di ciascun morente - al “suo” morituro, é infatti il medesimo delle prediche ad status caratteristiche degli ordini mendicanti, e funzionali ad una società diversificata, nella quale era necessario rivolgersi in modo adatto a ciascun ceto sociale, ma anche a ciascuna corporazione professionale, a ciascuna fascia d’età, a entrambe i sessi. La danza macabra assume quindi i toni di un affresco, di un panorama dell’intera società ma attraverso i suoi singoli protagonisti: a poco a poco la vicinanza del vivo e del morto non sta più a significare l’immane catastrofe collettiva, ma diviene una successione di singoli avvenimenti, non é più la società tutt’intera ad entrare nella danza, ma ogni suo membro.
Nelle Danze Macabre - e più ancora nei Trionfi della Morte e nel tema dell’Incontro dei tre vivi con i tre morti, altre due iconografie nate e diffusesi all’incirca contemporaneamente – la Morte compare – solenne genio funereo come nei versi del Petrarca, o terribile demonio a cavallo come nelle biccherne di Siena o negli affreschi di Subiaco, di Pisa e di Palermo, o ancora solenne presenza regale che, come a Clusone, occupa il posto che nella pittura e nella scultura romanica e gotica era tenuto dal Cristo Giudicante dell’Ultimo giorno – quale signora vincitrice di tutte le cose, regina del mondo terreno e trionfatrice di ogni manifestazione della vita, dalla quale ci si può difendere non già cercando di sfuggire ai suoi strali o alla sua spada, quanto piuttosto rivolgendosi, da un lato, all’Eterno e al Divino che, solo, é in grado di vincerla, dall’altro, imparando ad abbandonare gradualmente il morboso quanto inutile attaccamento alla vita terrena. Si rendeva allora necessaria tutta la forza didattica e mediatrice della Chiesa e dei suoi ministri per spiegare che l’apparenza non é la vera sostanza, e che la vittoria della Morte rimane sempre e comunque apparente e transitoria561.
Con la stampa e la xilografia, che avrebbero avuto un ruolo insostituibile nella diffusione dei temi macabri, si assisterà dunque alla fortuna di quei particolari manuali dedicati all’Ars moriendi, cristallizzazione iconografica della morte cristiana, “sacra rappresentazione” del momento estremo in cui l’uomo, vedrà ciò che ha aspettato o temuto durante tutta la sua vita : é tutta l’esistenza del cristiano ad essere messa in gioco nel suo ultimo istante ed é, paradossalmente, da come vivrà l’ultimo istante che lo separa dalla morte che dipende la sorte riservata alla sua anima. Conviene arrivarci preparati...562
E’ a questo punto che si coglie uno scarto: da una parte la tradizione ascetico-ecclesiale, rafforzata dalla predicazione mendicante, e, dall’altra, una cultura che si può propriamente definire laica : quell’ “amore per la vita” che ha nella “paura della morte” il suo limite e la sua controparte intellettuale, quel timore cui, se la Chiesa ricorre per richiamare i fedeli a pensieri che trascendano il vivere fisico e materiale, tuttavia, dovendone riconoscere l’invincibile forza naturale ed istintuale, non intende negare, bensì limitarsi a contenere, per non indurre alla disperazione. La paura della Morte, assente per lungo tempo dalla meditazione ufficiale della Cristianità, addirittura non-senso per il messaggio di un Francesco d’Assisi, diviene ora, paradossalmente, argomento per rafforzare o per recuperare la speranza nella vita eterna.
Siamo davvero alle soglie del mondo moderno.
Se le prime fonti letterarie ad attestare il tema della Danza Macabra sono tardotrecentesche, il primo esempio iconografico é individuabile nell’affresco del cimitero parigino degli Innocenti, eseguito intorno al 1424563.
Qui, come in altre grandi raffigurazioni murali posteriori giunte sino a noi, un recitante, o un predicatore, in qualche caso impersonato da un monaco copista, precedeva la raffigurazione del corteo dei vivi e dei morti, come se stesse pronunciando (o scrivendo) un sermone, a sottolineare il particolare significato della danza. Sul finire del Quattrocento, accanto a questo personaggio, iniziarono talvolta a comparire alcuni scheletri musicanti, intenti a suonare l’arpa, l’organo da braccio, una viola o la cornamusa, come per accompagnare il suo discorso, ritmando al tempo stesso il passo del corteo che avanza. Ogni “vivo”, poi, dialoga con la Morte che gli ricorda come sia obbligato a rinunciare a tutto ciò che ama, mentre gli scheletri danzanti sembrano irridere e farsi beffe della cecità degli uomini incapaci di privarsi delle loro ricchezze e degli onori terreni.
Spesso, al di sotto degli affreschi, é riportato un dialogo in versi, una satira sociale che riprende il tema degli “Etats du Monde”, ma soprattutto lezione di morale indirizzata all’umanità intera: l’abate grasso e grosso sarà il primo a nutrire i vermi (la critica contro il clero é diretta però più contro l’incapacità a vivere secondo i dettami spirituali dell’ufficio divino, che contro l’ufficio stesso), l’amministratore dovrà presentarsi di fronte al giudice, il medico non saprà guarire se stesso, il borghese sarà costretto a rinunciare alle sue rendite, il menestrello non sarà più lui a far danzare...solo il contadino, il “lavoratore” sarà finalmente liberato dai suoi affanni...
In realtà, già fin dalla fine del Medioevo carole o farandole macabre avevano invaso i margini e le miniature dei manoscritti, in particolare quelli dei libri d’ore, che ne sanciranno il successo una volta riprodotti tecnicamente in migliaia d’esemplari.
Spesso raffigurata all’inizio dell’Offizio dei morti, la “danza macabra” accompagnava preghiere e sermoni a significare la subitaneità con la quale la Morte colpisce gli uomini, per ricordare la vanità delle ricchezze, la fragilità dei corpi e l’uguaglianza di fronte all’attimo estremo. Cadavere o già scheletro, talvolta armato di pala e piccone, altre volte con una bara sulla spalla (una sorta di prefigurazione del Nosferatu di Klaus Kinski), la Morte mostra agli uomini l’immagine terrificante della sorte che li attende: decomposizione del corpo e giudizio dell’anima. Posando poi la sua mano scheletrica sui vivi, dediti alle loro occupazioni, ignari e vestiti di abiti dai colori vivaci, li afferra e, ineluttabilmente, li trascina via con sé, dal papa all’imperatore, dal re al vescovo dalla dama al chierico, dalla madre al bambino, nessuno escluso, nessuno risparmiato.
Nei libri d’Ore della fine del Quattrocento e del Cinquecento, appaiono anche nuovi simboli a significare l’assalto che la Morte muove agli umani: essa li attacca ora con una freccia o una lancia ostentando le insegne del potere che esercita - una corona, o uno scettro, e un teschio – talvolta sporgendosi da un carro o a cavallo di un bue, brandendo una falce. Tutte queste immagini fanno eco alle raffigurazioni che, alla stessa epoca, e in particolar modo in Italia, si ritrovano negli innumerevoli Trionfi della Morte. L’ininterrotta ripresa di questi motivi é inoltre comprovata da numerose testimonianze letterarie contemporanee, testi edificanti quali la Danse aux aveugles di Pierre Michault (1465) e il Mors de la pomme, nella versione di Jean Miélot (1468)564.
Ad imitazione dei loro equivalenti manoscritti, i primi libri d’ore a stampa sono spesso riccamente illustrati, tanto da tavole xilografiche a piena pagina, che da rigogliosi margini ornamentali. E’ proprio da questi ultimi, elementi intercambiabili e componibili a seconda delle necessità della mise en page, che fanno dapprima capolino, in incunaboli e prime cinquecentine, numerose danze macabre.
I pionieri in questo genere di edizioni, i primi che seppero associare con successo xilografia e tipografia, furono, a Parigi, lo stampatore Philippe Pigouchet e il libraio Simon Vostre, ben presto seguiti da numerosi colleghi, fra cui Antoine Vérard, Jean du Pré, Thielman Kerver, Gilles et Germain Hardouyn, Geoffroy Tory [Figura 1-2]. Alcuni di loro, come Kerver, si specializzarono in questo genere di edizioni, e ne stamparono anche fastosi esemplari su pergamena, riccamente miniati565. Contemporaneamente, e in particolar modo in ambito germanico, temi macabri cominciarono a comparire anche in altri generi di opere, come la Weltchronik (la cosiddetta Cronaca di Norimberga) di Hartmann Schedel (Norimberga, Anton Koberger, 1493) e Das Narreschiff - la Stultifera navis - di Sebastian Brant (Basilea, Johann Bergmann von Olpe, 1494) [Figura 3-4] 566.
Come si é detto, fu il libro a stampa a decretare il successo internazionale della “danza macabra”, e a diffonderne l’iconografia tramite la sua vasta circolazione567. L’editio princeps della parigina Danse Macabre di Guyot Marchant, di cui sopravvive un’unica copia, risale al 28 settembre del 1485. Le xilografie che ne formano il corredo illustrativo – 30 coppie formate da un morto e da un vivo, accompagante dal loro dialogo in ottave – riprodurrebbero le figure affrescate sulla parete del cimitero degl’Innocenti, e parrebbe testimoniarlo anche il fatto che il corteo rispetta la medesima sequenza : si apre con l’attore e termina con il re morto568. Il 7 luglio del 1486 é la volta della Danse des femmes, e le edizioni si moltiplicano fino alla fine del secolo: sempre dai torchi di Marchant escono una traduzione latina, nel 1490, due edizioni della Danse des hommes e una della Danse des femmes nel 1491 [Fig. 5] 569. Sempre a Parigi, Antoine Vérard dà alle stampe, verso il 1490, una versione completamente diversa della Danse des hommes, affidandone la stampa all’atelier di Pierre Le Rouge, autore delle xilografie570.
Sarà questa serie ad essere copiata dagli stampatori lionesi, che, insieme a quelli di Troyes, e nonostante se ne trovi traccia nella produzione parigina fino al 1550, si approprieranno di questo genere di edizioni durante il secolo seguente571.
Il primo stampatore lionese ad interessarsi a questo titolo, chiaramente stimolato dal successo di vendita che aveva riscosso sulla piazza parigina, sembra essere stato Martin Husz, che concluse la stampa della sua Danse macabre il 18 febbraio 1500. Rispetto alle edizioni precedenti, la sua si differenzia per due aspetti: combina per la prima volta la Danse des hommes e quella des femmes in un unico volume ed introduce nella serie due nuovi personaggi, ovvero il libraio e lo stampatore. La vignetta dedicata a quest’ultimo ha il pregio di trasmetterci una delle prime rappresentazioni di un atelier tipografico [Fig. 6] 572. Le medesime caratteristiche si ritrovano nell’edizione di Claude Nourry nel 1501, ma in un formato più ridotto, un in-4 decorato da xilografie che imitano le precedenti ma realizzate in uno stile decisamente più rozzo e semplificato, rivolto ad una destinazione più popolare, che prefigura gli esempi un secolo e mezzo più tardi della Bibliothèque blue di Troyes. Nourry pubblicò la Danse macabre almeno ancora in due occasioni (1519 e 1523), come il suo successore e secondo marito della sua vedova, Pierre de Sainte Lucie, che pubblicò il titolo nel 1548 e nel 1555 [Fig. 7]. Nonostante si possa segnalarne ancora un’edizione senza data dovuta ai torchi di Olivier Arnoullet, si può affermare che a Lione, a partire dalla metà del secolo, l’interesse per questo genere di edizioni andasse sciamando573.
In effetti, un’altra opera “macabra” stava subentrando sul mercato: Les Simulachres de la mort, decorati con xilografie realizzate su disegni di Hans Holbein il giovane e destinati a diventare uno dei più grandi successi dell’industria tipografica locale.
Le Figure della Morte di Holbein
Fino al XIX secolo, sul muro del cimitero della Predigerkirke di Basilea, si trovava affrescata una celebre Danza macabra. Dipinta dopo la peste del 1439, essa fu distrutta nel 1805, non senza aver lasciato traccia nelle opere di diversi artisti nel corso dei secoli, che l’immortalarono, é il caso di dirlo, soprattutto in disegni e stampe [Fig. 8] 574.
La prima pubblicazione in qualche modo collegata alla Danza basilese fu appunto quella delle xilografie, ad essa liberamente ispirate, di Hans Holbein, che, giunto a Basilea da Augusta nel 1515, vi si affermò presto come pittore di soggetti storici e ritrattista. Nonostante la sua giovane età - aveva appena diciassette anni -ed una certa predisposizione ai vizi terreni (soprattutto all’ira, a giudicare dalla collezione di denunce e ammende per rissa) l’augustano sembra dimostrare fin dalle sue prime creazioni, un certo interesse per le scene macabre, stimolato forse da un’esperienza estetica il cui ricordo doveva permanere intatto e indelebile nella sua mente, e che, tramite la sua arte, ebbe il potere di far rivivere ad altrettanto illustri posteri575.
Evidentemente, dunque, l’affresco del cimitero domenicano non poteva lasciarlo indifferente: fu così che tra il 1523 e il 1524, Holbein si cimentò nella sua propria interpretazione del soggetto, realizzando 58 tavole che, pur illustrando la stessa gerarchia di personaggi, vi includevano nuove figure di sua invenzione576. Come vedremo, l’incisore Hans Lützelburger traspose su legno 41 di questi disegni, che vennero pubblicati per la prima volta e a Lione, solamente nel 1538, corredati da brani scritturali in latino e versi in francese, con il titolo di Simulachres & historiees faces de la Mort [Figg. 9-48] Gli altri diciassette disegni, anch’essi giunti a Lione, furono invece trasposti sulle matrici lignee da incisori locali.
Non sappiamo esattamente a quale destinazione d’uso fosse originariamente destinata la serie della Totentanz holbeiniana, ma essa nacque certamente in ambito editoriale. A Basilea, paradiso dell’industria tipografica, uno dei centri di maggior diffusione delle idee della Riforma e soprattutto indirizzo di stampa delle edizioni e riedizioni delle principali opere di Lutero, la maggior parte degli artisti poteva guadagnarsi da vivere lavorando per editori e stampatori. Questi ultimi, a partire soprattutto dal secondo decennio del secolo, ricercavano affannosamente, disegni per xilografie che militassero in favore della nuova religione, attaccando nel contempo la corruzione di Roma-Babilonia577. Nonostante Holbein non dovesse avere convinzioni definite o particolarmente intransigenti in materia di dottrina teologica, certamente non poteva restare indifferente alle lotte religiose che insanguinarono la sua epoca. La Riforma, inoltre, portava naturalmente con sé la necessità di una critica radicale delle immagini religiose che dovette avere enormi conseguenze per tutti gli artisti contemporanei. Holbein non fece certo eccezione, e dopo aver attinto all’iconografia cattolica per molte sue opere, fin dall’inizio del suo secondo soggiorno svizzero (1519-1526), cominciò – come già aveva fatto suo fratello Ambrosius – a collaborare stabilmente con il mondo della stampa, fornendo disegni che potessero illustrare opere d’ispirazione riformata o dello stesso Lutero, stampate a Basilea da Johannes Froben, Thomas Wolff, Andreas Cratander, Valentinus Curio, Johann Bebel, e Adam Petri, responsabile, quest’ultimo, dell’edizione pirata del Nuovo Testamento dell’ex-monaco tedesco, apparsa a pochi mesi dalla princeps di Wittenberg578.
A Basilea, tra il 1521 e il 1529 visse anche Erasmo, uno dei più potenti oppositori della Riforma e, soprattutto, nel dibattito relativo alle immagini e al loro uso liturgico, propugnatore di un atteggiamento moderato: condannando l’idolatria e la confusione fra devozione e superstizione, egli sperava di poter salvaguardare la possibilità di un uso ragionevole dell’immagine sacra, posizione che, condivisa dal suo amico Thomas More e dallo stesso Holbein, era purtroppo destinata al fallimento davanti all’intransigenza invasata e alla furia iconoclasta di uno Zwigli o un Carlostadio. Sembrerebbe che Holbein, come Erasmo e – a maggior ragione, essendone un creatore - nella convinzione che le immagini detenessero un ruolo importante nell’afflato di rifoma religiosa in atto, avesse tentato di trovare un giusto equilibrio fra i due estremi, ovvero tra la condanna dell’adorazione degl’idola e una certa critica alla corruzione ecclesiastica da un lato e la negazione e cieca distruzione di qualunque raffigurazione religiosa dall’altro, rifiutando - lui come Erasmo, d’altronde - di lasciarsi trascinare nella polemica confessionale e di far conoscere apertamente le proprie posizioni579.
Prima di ricostruire l’intricata vicenda della pubblicazione di queste xilografie, é necessario fare qualche osservazione riguardo all’impianto iconografico generale della serie.
Intensificandone il carattere umoristico e satirico, e rafforzandone al tempo stesso la drammaticità, Holbein si allontana dall’iconografia tradizionale: la separazione delle coppie, che caratterizzava l’impaginazione precedente del tema, arriva infatti alla negazione della danza trasformandola in una serie di singole scene, di drammi individuali. La morte giunge sempre a sorprendere il vivo nel contesto della sua vita quotidiana, ma ora la scena é abitata da numerosi personaggi, inscenando persino una piccola storia580. Il realismo meticoloso con cui l’artista definisce e popola lo spazio, da virtuoso della prospettiva qual’é, provoca la verisimiglianza figurativa e, senza la fisionomia immediatamente riconoscibile dello scheletro, si crederebbero dei bozzetti di genere. La “vivacità” della morte deriva senza dubbio dalla sua apparizione incongrua nel quotidiano: questa contraddizione crea una tensione bizzarra tra l’illusione e il simbolo allegorico, che contribuì senza dubbio al vasto successo dell’opera. Si potrebbe credere che l’effetto sia casuale, mentre é calcolato: l’intenzione simbolica é piuttosto sentita che avvertita coscientemente come tale.
L’intenzione di Holbein di rendere la morte incongrua e perciò meno inquietante, di spingere ai limiti estremi un’intenzione che esisteva già nella danza macabra medievale non é un effetto di stile: implica allora l’incongruità della morte stessa. Sviluppando questo tema più dei suoi predecessori, Holbein si collega alle correnti riformatrici, a San Paolo e soprattutto a Sant’Agostino che, nel libro XIII della Città di Dio, sviluppando l’idea paolina e per meglio mettere in rapporto la morte e la caduta, nega alla morte ogni causa “naturale”581. “Invitabile fatum”, la Morte, che le azioni umane non possono ritardare e nemmeno ricevere come castigo, diviene arbitraria e trascendentale: giudica le opere invece di esserne l’esito. E’ proprio in questo contesto di paolinismo e agostinismo radicali che occorre considerare le Immagini della Morte e la loro apparente incongruità: non hanno forse inizio con una rappresentazione della creazione, della tentazione e della caduta a cui assiste uno scheletro ?
La serie comincia infatti con un preludio dedicato all’esistenza della Morte, conseguenza della Creazione e della caduta dell’Uomo. L’originalità di Holbein é individuabile nella scelta di far cominciare la macabra marcia trionfale proprio a partire dal momento del Peccato originale: Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso sono preceduti nella loro fuga dalla Morte, che, imbracciando la sua viola da braccio, esprime la gioia di assistere all’atto che suggellerà il suo infinito potere.
Oltre che arbitraria, la morte diviene cangiante e personale. Lo scheletro si adatta al proprio partner: voluttuoso con la bella, irato di fronte al papa, con la mitria se deve portar via un grosso monaco: diviene un superiore in gerarchia. L’ordine gerarchico della società é sconvolto : uomini e donne, vecchi, giovani, adulti e bambini si alternano nell’estrema dipartita, Holbein arriva così ad esprimere iconograficamente la compenetrazione della morte nella vita, la sua innafferrabile presenza, volutamente ignorata, ma di cui si avverte sempre il possibile manifestarsi. Ma – si badi bene - a ciascuno é destinata la propria, personale, morte: Holbein rinuncia totalmente all’ “egalitarismo” della danza macabra medievale: la morte non é più la stessa per tutti, quella del povero non é quella del ricco ed ogni immagine, sviluppando l’ambientazione specifica a ciascuna scena, diventa il processo ad una categoria sociale582.
Ogni particolare é denso di significato: la raffigurazione del papa, in cui si potrebbe riconoscere Leone X, mostra chiaramente come essa non voglia proporsi solamente un esempio della natura effimera dell’uomo, quale che sia il suo rango nel mondo: egli é rappresentato nell’esercizio della sua più alta responsabilità temporale, ovvero l’investitura di un imperatore. Davanti alle più alte cariche ecclesiastiche, il papa regge la corona al di sopra della testa dell’eletto, inginocchiato ai suoi piedi. La Morte é doppiamente presente in questa scena: si aggrappa al mantello di un cardinale dietro il quale si nasconde, e, facendo capolino accanto al pontefice, pietrifica con il suo sorriso il momento sacro. Nel contempo un diavoletto si sporge dall’alto del baldacchino, mentre un altro, reggendo una bolla papale, plana al di sopra dei presenti. La xilografia di Holbein non giustappone semplicemente le più alte autorità della Chiesa alla Morte, ma, conformemente alle concezioni riformate, dipinge il papa come sottomesso a Satana, facendogli impersonare quindi l’Anticristo583.
Nella maggior parte delle vignette, né le vittime designate né coloro che assistono alla scena sembrano essersi resi conto dell’avvicinarsi della Morte, dal momento che essa riveste numerosi volti: quello del cardinale in presenza del papa, di un coppiere al banchetto del re (alias Francesco I), o ancora quello di un ladro in agguato contro un ricco ; appare come un mezzadro rivoltso al proprietario terriero, esercita il pungolo sulle reni dei magri cavalli da tiro di un contadino impegnato ad arare il campo, infilza con l’asta un elegante cavaliere cui fa lo sgambetto e via dicendo. Raramente é raffigurato il momento preciso in cui la vittima, in preda al terrore, é letteralmente strappata alla vita: accade al vescovo, rappresentato come il pastore del gregge, all’abate, tanto grasso quanto terrorizzato, e alla regina; il ratto di quest’ultima é rappresentato come un evento decisamente drammatico: i domestici si oppongono alla Morte, personificata qui dal buffone di corte, una dama disperata leva le braccia al cielo, mentre un cortigiano tenta di separare la vittima dalla presa inesorabile della mano scheletrica. Invano: la Morte trionfa brandendo una clessidra in cui non vi é più nemmeno un granello di sabbia.
Numerose raffigurazioni trasmettono il tono di una requisitoria, di notevole violenza, contro la gerarchia ecclesiastica. Nella vigna di un nobile, la Morte strappa il cappello dalla testa di un cardinale che approfitta abusivamente delle rendite in cambio di indulgenze, e la corona da quella dell’imperatore (molto somigliante a Massimiliano II); si serve della borsa piena di elemosine di un frate mendicante per strangolarlo, e spegne la fiammella della vita di una religiosa il cui l’amante, seduto sul letto, sta suonando il liuto ; mostra la clessidra al canonico che , nonostante sembri immerso nelle sue preghiere, non si rassegna a rinunciare al suo corteo mondano, falco e falconiere compresi.
La satira anticlericale si attenua nella raffigurazione dei sacerdoti: mentre scende il tramonto, il vescovo, sebbene sorpreso, si rimette serenamente nelle mani della sua aguzzina nonostante il fuggi-fuggi generale, il prete non si rende conto che l’estrema unzione che sta andando ad impartire é destinata a lui stesso, annunciata dalla campana che la Morte sta suonando camminando davanti a lui; il predicatore appare concentrato ed impegnato a guidare l’attenzione del suo attento uditorio, nonostante essa scimmiotti alle sue spalle un gesto retorico ridendo della grossa, ma l’effetto d’insieme é più ironico che satirico584.
Affiorano le tensioni sociali: il mercante non soffre tanto dell’ultima ora quanto della perdita del suo denaro, che lo scheletro raccoglie; il giudice corrotto é raffigurato mentre richiede il pagamento del suo prezzo; il consigliere, con il diavolo che gli alita già sul collo, ignora altezzosamente il poveri che gli tende la mano, mentre la Morte affila le proprie armi, in questo caso la pala con cui scaverà la prossima fossa; con una corazza leggerissima, batte un nobile ben difeso ed armato. Nella tavola che raffigura il conte, essa, sotto le spoglie di un contadino ribelle, brandendo uno scudo, leva le braccia per colpire il suo signore, che, in un gesto disperato, tenta di fuggire585.
In tal modo lavora lo scheletro giustiziere, non per l’eguaglianza, ma per la vendetta, poiché tratta gli umili e gli oppressi in modo molto diverso, quasi facesse parte di loro, come quando batte familiarmente sulla spalla alla povera vecchia che non può più vivere.
La serie si chiude con l’immagine del blasone della Morte: due nobili, un uomo e una donna – in cui dobbiamo forse riconoscere Holbein e la moglie - reggono uno scudo su cui campeggia un teschio, sormontato da un elmo ; l’uomo guarda al di fuori della cornice, mentre indica con la mano sinistra la macabra composizione al centro della scena, ovvero due braccia scheletriche che sorreggono una pietra sommariamente sgrossata al di sopra di una clessidra. Una citazione della Bibbia e alcuni versi invitano il lettore a contemplare l’idea della morte e gli assicurano che una vita senza peccato sarà ricompensata con una fine indolore. La pietra sospesa minacciosamente al di sopra della fragile clessidra e il teschio da cui fuoriesce un verme, suggeriscono l’idea che la Morte stessa dovrà sottomettersi al Giudizio finale, raffigurato nella pagina precedente, e invitano quindi alla speranza della vittoria cristiana sull’inderogabile termine della vita terrena586.
Le edizioni lionesi
La storia della pubblicazione di questa serie di tavole, complessa quanto affascinante, inizia a Basilea, nel 1526, quando Holbein, in procinto di partire per l’Inghilterra, le consegnò a Hans Lützelburger, un capace incisore di Basilea con cui era solito collaborare587. Nello stesso anno, quest’ultimo era morto insolvente e Melchior Trechsel, uno stampatore lionese d’origine tedesca, affermando di aver avanzato al deceduto il pagamento per l’incisione dei legni che però non aveva mai ricevuti, cominciò le trattative per appropriarsi dell’intera serie, ovvero delle matrici xilografiche già realizzate e dei disegni ancora da incidere588.
Il motivo per cui i legni dovettero attendere quasi quindici anni per essere utilizzati resta invece un intrigante quesito che non ha smesso di suscitare le più svariate ipotesi tra gli studiosi589. Complica tra l’altro il quadro il fatto che le tavole di Holbein erano apparentemente già state sottoposte ad una prova di stampa nell’officina di Johann Froben, probabilmente tra il 1524 e il 1527590.
I 41 legni furono dunque inchiostrati e passati sotto torchio per la prima volta nel 1538, raccolte in un volumetto dal titolo Les Simulachres et Histoires Faces de la Mort, autant elegamment pourtraictes, que artificiellement imaginées stampate dai fratelli Trechsel “A Lyon, soubz l’escu de Coloigne”[Fig. 51] 591. Chiunque a Lione sapeva che all’epoca, tale insegna corrispondeva alla bottega, situata nella centralissima rue Mercière, di altri due fratelli, François e Jean Frellon, librai che intrattenevano contatti commerciali con Parigi, la Svizzera – Basilea in particolare - e la Germania, e per conto dei quali stampavano numerosi tipografi lionesi, ma che in questo caso sembrano aver rivestito solamente il ruolo di distributori e rivenditori dell’operazione editoriale ideata dai Trechsel 592.
Le xilografie sono disposte una per pagina, con in testa una citazione biblica, e come didascalia, delle quartine in francese [Fig. 34]. Con la diversa destinazione e, conseguentemente, il diverso medium espressivo - dall’affresco alla carta stampata - rispetto al modello di partenza si modifica anche il dialogo tra l’uomo e la Morte: é la singola immagine – il “simulacro” appunto - a colpire l’attenzione del lettore e a costituirsi quale “cifra mnemonica” di potente impatto visivo; nella pubblicazione, poi, sono le citazioni della Bibbia e le quartine che le accompagnano a rinforzare l’idea della natura transitoria dell’umanità e a guidare la riflessione personale del lettore attraverso le varie tappe, quasi delle “stationes”, della scorribanda macabra593.
Delle quartine, come della scelta delle citazioni, della dedica, e della serie di saggi che completano il volume, é autore il letterato lionese Jean de Vauzelles594.
Nella dedica, firmata con il suo motto “d’un vray zèle”, e rivolta a Jeanne de Thouzelle, badessa riformatrice dell’antico, potente e ricco convento lionese di Saint-Pierre-les-Nonnains - che qui é definita quale “l’exemplaire de religieuse religion et de reformée reformation” ! - Jean, alludendo alla scomparsa dell’autore delle immagini, coglie l’occasione per inserire un commento letterario su come la Morte tema il potere dell’arte della sua vittima:
‘“Donc retournant à noz figurées faces de mort, très-grandement vient à regreter la mort de celluy qui nous en a icy imaginé si elegantes figures, avançantes autant toutes les patronées jusques icy, comme les painctures de Apelles ou de Zeusis surmontent les modernes. Car ces histoires funebres, avec leurs descriptions severement rithmées, aux advisans donnent telle admiration, qu’ilz en iugent les morz y apparoistre tres vivement, et les vifs tres mortement representez. Qui me faict penser, que la Mort craignant que cet excellent painctre ne la paignist tant vifue, qu’elle ne fut plus crainte pour Mort, et que pour celà luy mesme n’en devient immortel, que à ceste cause elle luy accelera si fort ses iours, qu’il ne peult parachever plusieurs aultres figures ià par luy trassées: mesme celle du charretier froissé et espaulti soubz son ruyné charriot. Les roes et chevaulx duquel sont là si espoventablement trebouchez, qu’il y a autant d’horreur à veoir leur precipitation, que de grace à contempler la friandise d’une Mort, qui furtivement succe avec ung chalumeau le vin du tonneau effondré. Ausquelles imparfaictes histoires comme à l’inimitable arc céleste appelé Iris, nul n’a osé imposer l’extreme main, par les audacieux traictz, perspectives, et umbraiges en ce chef d’oeuvre comprises”595 ’L’atmosfera delle quartine riporta al tono dei Memento mori dei predicatori mendicanti dei secoli precedenti, ma la satira, implicita nelle xilografie, nelle quartire risulta piuttosto attenuata: l’anticlericalismo che le pervade risulta sincero ma moderato, e sembra ben corrispondere alla posizione di un cattolico che sentiva la necessità di una riforma nel seno stesso della Chiesa596.
Nei saggi, l’autore approfondiva la sua riflessione sulla Morte, supportandola con citazioni tratte dalla Bibbia, i padri della Chiesa e gli scrittori pagani597: il pensiero e la paura dell’ineluttabilità della Morte devono spronare l’uomo a vivere rettamente e dunque
‘“Les Images de Mort [...] c’est le vray et propre miroeur auquel on doibt corriger les defformitez de peché, et embellir l’Ame”598 ’La ricompensa sarà immensa: il giusto godrà dell’eterna beatitudine e del privilegio di poter trovarsi al cospetto di Dio. Tutti saremo giudicati e
‘“Qui n’a bien vescu, il vauldroit mieulx n’avoir eu vie, qui ne sera pour riens comptee vers Dieu immortel”599 ’Come i nove mesi di gestazione preparano alla vita naturale, il soggiorno terreno deve essere allora considerato come una preparazione alla vita eterna, e, come una gravidanza sana é necessaria per nascere, una vita sana é necessaria per “nascere alla morte”, fin da quando si é ancora in vita600. Sprechiamo talmente tanto tempo in cose che non potremo portare con noi sottoterra – il soldato dietro al suo armamento, il mercante nelle fiere, il contadino per il suo raccolto - e quanto poco dedichiamo all’anima !601
L’uomo deve invece giungere alla “buona morte”, rivestito solamente delle virtù dell’Innocenza, Carità, Castità, Saggezza, Speranza e Fede, dopo aver tentato in ogni modo di eliminare i peccati dalla sua vita: il pentimento sincero e profondo corrisponderà al “battesimo” della Morte602.
Di conseguenza, é crudele mentire ai malati circa la loro condizione: coloro che stanno per morire devono avere il tempo di lasciare le loro disposizioni, ricevere i sacramenti e preparare l’anima alla dipartita. L’intera vita terrena, insomma, dev’essere intesa quale preparazione alla Morte:
‘“Il n’est raisonnable ne juste que nous commettions tant de pechez toute nostre vie et que ne veuillons que ung jour, ou une seule heure pour les plorer et s’en pentir”603 ’Sebbene non enfatizzi la figura del Cristo, Vauzelles – come molti dei letterati suoi amici della Lione degl’anni ‘30 - segue per certi aspetti il cristianesimo etico proprio della visione erasmiana: fermamente opposto alla Riforma nell’enfatizzare la virtù quale requisito necessario per la salvezza, egli non la interpreta però come mero esercizio delle “opere buone”.
Nell’insieme, dunque, sebbene con diverse sfumature di ortodossia, e con la sentita necessità di istanze riformistiche rivolte all’interno della Chiesa, la prima edizione delle Figure della Morte sembra essere avvenuta nel rispetto della fede cattolica. Il nome dell’autore delle tavole, sebbene dovesse essere noto non solamente ai Trechsel, ma anche a Vauzelles, può darsi sia stato passato sotto silenzio per ragioni di prudenza: l’irrispettosa raffigurazione di Francesco I e la satira antipapale, sebbene non avessero ragione di apparire in alcun modo come apertamente eretiche, avrebbero potuto risultare offensive, tanto più che Holbein era attualmente ospite della corte del protestante re d’Inghilterra604.
Sempre nello stesso 1538, i Trechsel pubblicarono un’altra serie di tavole su disegno di Holbein che illustravano 92 soggetti tratti dall’Antico Testamento: similmente disposte una per pagina e accompagnate da un testo descrittivo in latino posto a didascalia, esse erano raccolte sotto il titolo di Historiarum veteris instrumenti icones ad vivum expressae. Anche quest’edizione recava sul frontespizio la dicitura “Sub scuto coloniensi” ed erano dunque ancora una volta i fratelli Frellon ad occuparsi della distribuzione e della vendita605.
Furono eventi essenzialmente socio-economici a provocare il passaggio di proprietà delle tavole dei Simulachres e delle Icones dai Trechsel ai Frellon, che ne misero l’impatto comunicativo, la bellezza del disegno e la finezza dell’intaglio al servizio della causa protestante: durante il periodo di scioperi dei compagnons imprimeus delle tipografie lionesi, i Trechsel furono infatti costretti a chiudere bottega e dovettero cedere parte del loro materiale proprio agli altri due fratelli, che fino ad allora si erano occupati unicamente di commercio librario, non di produzione606.
L’edizione delle Figure della Morte ad opera dei Frellon dev’essere dunque considerata nel quadro dell’intensificarsi, in tutta la Francia, della propaganda evagelica e soprattutto nel contesto del movimento protestante lionese, che, sebbene duramente represso nei primi anni ‘30 del secolo e sostanzialmente inattivo durante il resto del decennio, non si era completamente spento607. Al suo interno, Jean Frellon sembra avervi ricoperto un ruolo particolarmente importante, tanto nella produzione e diffusione della letteratura, quanto nell’organizzazione del culto riformato cittadino608.
Nel 1542, dunque, a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, videro la luce un’edizione latina e una francese delle tavole holbeiniane, accompagnate da una serie di testi decisamente differenti dai precedenti609 [Fig.37].
L’edizione latina si apre con un poema di George Omler sui problemi posti dalla traduzione, argomento che doveva essergli noto in quanto probabile autore di quella delle quartine francesi di Vauzelles dell’edizione Trechsel610. Nel complesso, i suoi versi latini sono fedeli agli originali in francese, eccetto nel caso del monaco e della suora, per i quali i commenti della sua fonte dovevano essergli sembrati troppo poco severi.
L’edizione francese inizia invece con una breve epistola anonima – probabilmente opera di uno dei Frellon – che invita a preoccuparsi della morte, ciò che c’é più di certo nella vita umana, piuttosto che di qualsiasi altra occupazione terrena. Quest’opera infonderà il coraggio necessario ad affrontarla, a non farci sedurre dalle “false opinioni” e a pregare Dio perché ci liberi da
‘“Toute mauvaise infection causée par faulse doctrine, et garder en santé spirituelle tous ceux qui par vraye foy s’attendant à sa divine grace collocans en icelle toutes esperance de salut”611 ’L’allusione alla “false opinions” é ambigua, e sembra persino più caratteristica di uno scritto cattolico piuttosto che protestante, ma l’ultima frase, con l’allusione alla “grace divine”, dona al lettore un’idea dei veri intenti dell’autore. Le quartine francesi restano invece quelle composte da Vauzelles e già apparse nella precedente edizione Trechsel del 1538.
Due saggi anonimi, intitolati rispettivamente Medicina Animae e Medecine de l’Ame, seguono, nelle due edizioni, le tavole di Holbein: simili nei propositi e nella dottrina, essi non sono del tutto equivalenti nel contenuto, presentando qualche differenza soprattutto nella parte iniziale612.
Nella versione latina, la morte é presentata quale conseguenza del peccato, la temiamo, ma dedichiamo troppo poco tempo a prepararci ad essa. L’uomo dev’essere aiutato a resistere agli assalti che il diavolo muove al cristiano in agonia, ed é a tale scopo che questo saggio é stato scritto. Dio ha inviato sulla terra la malattia per metterci alla prova e per correggerci, ma la sua collera non é quella di un tiranno, ma piuttosto quella di un padre amorevole. Tramite la morte egli ci chiama presso di sé e di Cristo. Costretti a letto, i malati cadono in agonia per la paura che provano al ripensare ai loro peccati, alla morte, all’Inferno e alla dannazione eterna613.
L’inizio della Medecine de l’Ame spiega che non é la morte o la malattia che il cristiano deve temere, ma il peccato, veleno dell’anima. Grande enfasi é data all’idea che tutto accade per volere di Dio: egli ci infligge la malattia e la morte per metterci alla prova, punirci e innalzarci alla beatitudine. Tuttavia, é giusto che il malato si affidi alle cure del medico: proprio come Dio ci manda le malattie in maniera naturale, così, se intende concederci la guarigione, la otterremo anch’essa naturalmente, grazie all’aiuto del medico e delle medicine.
Se invece non c’é speranza, il malato deve comunque ricordare che, nonostante la morte sia una conseguenza del peccato originale, essa ci conduce alla gloria eterna. Coloro che la temono, dunque, considerano i beni terreni più importanti di quelli celesti: il futuro della propria moglie e dei propri figli, la ricchezza e l’eredità ci devono preoccupare, ma bisogna sempre tenere a mente che Dio e l’eredità spirituale sono più importante di qualunque bene o lascito materiali614.
Da questo punto in poi la Medicina Animae e la Medecine de l’Ame diventano essenzialmente lo stesso saggio, e ne emerge più chiaramente il loro sostrato teologico protestante: quando il moribondo é terrorizzato dal pensiero dei suoi peccati, deve ricordarsi che Cristo assume su di se i peccati di tutti e ne sconta la pena tramite il suo sacrificio. Diverse citazioni bibliche sono introdotte a sottolineare questo concetto :
‘“I Timo. I. Christus Iesus venit in mundum, ut peccatores salvos feceret. Hoc mi frater, spera et tu, his verbis habe fidem, quemadmodum Paulus, tunc saluberis et iustificaberis”615.’Inoltre, quando é spaventato dalla morte, l’uomo deve volgere il pensiero alla resurrezione: l’anima dei credenti non muore mai, e nel giorno del giudizio i loro corpi risorgeranno intatti e gloriosi. Anche qui citazioni bibliche sono introdotte a suffragare il testo, e nel loro commento viene enfatizzata la giustificazione per fede616:
‘“L’homme se fiant en la misericorde de Christ annoncee en l’Evangile est tellement conioinct avec son Seigneur Jesus Christ qui est la vraye vie, qu’on ne l’en pourroit aucunement separer”617 ’Infine, il diavolo lo tortura chiedendogli se non teme di essere tra coloro che Dio ha deciso di gettare all’Inferno. La risposta é che
‘“C’est une chose folle et dangereuse de penser si fort à la predestination”’e bisogna soprattutto pensare che tutti coloro che hanno fede nella grazia di Dio sono tra gli eletti alla vita eterna618.
Inoltre, se ci si accorge che la propria “dilection envers Dieu” é troppo poco fervente, bisogna invocare ardentemente Dio e confessargli la propria incredulità. Senza dubbio egli ci verrà in aiuto.
‘“Ces deux choses, croire en Christ et erdemment desirer la Foy, sont presque une mesme chose”619 ’Nella Medicina Animae, seguono alcuni passi che trattano dei sacramenti e della necessità di moderare le proprie espressioni di dolore durante i funerali e il lutto, dopodiché ci si avvia alla conclusione620.
La Medecine de l’Ame, si dilunga invece ancora un pò su come controbattere ai dubbi e alle domande insinuate dal diavolo, su come il malato debba pregare e via dicendo, ma soprattutto, in alcune interessanti discussioni sui rapporti fra fede – “operation de Dieu en l’homme vive et bouillante” - opere buone e amore621.
Inframezzati ai precetti protestanti, in entrambe le versioni del testo, vi sono frasi e interi paragrafi molto probabilmente finalizzati a mascherare la sostanza protestante dietro un’apparenza cattolica: si tratta di puntuali riferimenti al sacramento dell’eucarestia, della confessione e dell’estrama unzione, che, sebbene non si possano, alla lettera, definire ortodossi, contengono comunque concetti più strettamente cattolici che protestanti622.
E’ chiaro che la fonte dei riferimenti ai sacramenti, e tantomeno all’eucarestia, avrebbe mai potuto essere l’opera, manifestamente luterana, di Urbano Rhegius. Allo stesso modo, le sezioni dedicate alla possibilità di avvalersi delle cure del medico, alle ultime volontà e al lutto, non possono chiaramente derivare dall’originale tedesco: risulta insomma chiaro che importanti modificazioni ed aggiunte – soprattutto nella versione francese - devono per forza essere state apportate su richiesta dei Frellon o direttamente dalla loro penna, allo scopo di aggirare il sospetto dei censori, elaborare alcuni aspetti dottrinali e dare indicazioni pratiche su questioni d’interesse comune, come ad esempio l’eredità623.
In entrambe le edizioni, alla Medicina dell’Anima segue un saggio, anch’esso anonimo, Ratio et Methodus consolandi periculose decumbentes (nella versione francese, La Forme et la manière de consoler des Malades), che riprende i principali concetti d’ispirazione protestante di quella624. Infine, i sermoni di Cipriano e Crisostomo, citati nel titolo, approfondiscono aspetti che, se forse maggiormente importanti per la fede cattolica, in realtà non contraddicono il messaggio evangelico dei saggi precedenti.
Il confronto fra questa serie di trattati e quello di Vauzelles apparso nell’edizione Trechsel appare interessante: entrambe mirano a fornire un’appropriata interpretazione cristiana della morte, ne enfatizzano l’aspetto consolatorio, evitando l’argomento delle punizioni ultraterrene per spaventare il lettore, proprio della produzione quattrocentesca, ed evitano molte delle controversie proprie della Riforma. Entrambe portano a sostegno del loro messaggio citazioni tratte dalla Bibbia, nonostante l’erudito Vauzelles attinga molto spesso anche a fonti classiche.
La differenza fondamentale consiste essenzialmente nella loro dottrina della salvazione: per Vauzelles una vita virtuosa ne é un requisito necessario, per gli scrittori protestanti é la sola fede a poterla assicurare625.
Come già era avvenuto per l’edizione Trechsel, le tavole di Holbein rappresentavano l’attrazione di quella Frellon del 1542, in cui sono accompagnate dalle medesime citazioni bibliche. Grazie alla potenza espressiva di queste immagini, cattolici e protestanti speravano di sensibilizzare le coscienze verso l’importanza di un’accurata preparazione alla “buona morte”. Se poi per Vauzelles la satira anticlericale espressa dalle situazioni e dalla caratterizzazione dei personaggi disegnati da Holbein, oltre che rientrare nella tradizione della “danza macabra”, poteva ben coincidere con le sue convinzioni circa la necessità di una riforma della chiesa dal suo interno, per i fratelli Frellon, invece, il fatto che questa intonazione satirica fosse percepita come tradizionalmente associata al tema, dovette indurli a sperare che l’inquisitore non esaminasse troppo minuziosamente il contenuto delle loro edizioni.
In realtà, sia i Frellon che i lettori cui essi si rivolgevano avrebbero interpretato la satira in un contesto totalmente diverso da quello di Vauzelles: la critica del papa e dei cardinali, dei costumi monastici e delle indulgenze, negli anni di Lutero e Calvino, avrebbero implicato, per pubblico sensibile ai nuovi fermenti religiosi, un’attacco diretto alle gerarchie della chiesa, in particolare se fossero stati accompagnati, come in questo caso, da saggi di dottrina di chiara impronta protestante626.
L’impresa editoriale dei Frellon dovette riscuotere un notevole successo se i loro torchi ne produssero altre sei edizioni nei successivi vent’anni: quattro edizioni latine, due nel 1545627 e due nel 1547628, una in francese, anch’essa nel 1547629, una italiana nel 1549630 e un’altra ancora in francese nel 1562631, con l’aggiunta di un totale di diciassette nuove tavole, sempre su disegno di Holbein ma dovettero essere nel frattempo realizzate da un incisore lionese.
Le speranze dei fratelli Frellon di scampare alla censura dell’Inquisizione camuffando la reale ispirazione delle loro Figure della Morte furono disattese: e diversi indici condannarono non solamente i saggi632 ma le intere edizioni, xilografie comprese: i Simulachres et histoires sacrées [sic per Historiees Faces – precisione introdotta evidentemente in modo che il variare del titolo non inducesse in possibili confusioni], contenant La medecine de l’ame, avec la forme et maniere de consoler les malades, compare tra i libri censurati dalla facoltà di teologia di Parigi tra il 1544 e il 1551, i Simulachres de la Mort avec la medecine de l’ame é citato in una lista di libri proibiti in Belgio nel 1570, infine le Imagines Mortis, cum Medicina animae sono proibiti dall’indice spagnolo del Valdes del 1559, in quello belga del 1570 e nell’indice clementino del 1595633.
Un tale successo non dovette passare inosservato a Venezia, in cui, se i nuovi fermenti religiosi destavano una sempre più vorace curiosità, gli editori erano sempre pronti e ricettivi alle novità straniere che potessero rappresentare un’impresa redditizia. Individuato il best seller, la soluzione più lucrosa per sfruttarne appieno il successo con la minima spesa era, naturalmente, il plagio.
Nella breve introduzione indirizzata “Alli saggi et giudiciosi lettori” dei Simolachri, Historie, e Figure de la Morte 634 che Jean Frellon propose sul mercato lionese nel 1549, egli si lamenta infatti di un’edizione pirata delle tavole:
‘“Havendo Frellone per il passato misso in luce con bellissime figure li Simolachri della Morte, et primo in lingua Latina, et dipoi in la vulgare Francesa: si é adesso ingegnato di darvele in vulgare Francesa: si é adesso ingegnato di darvele in vulgare Italiano. Et cio ha fatto con si mirabile diligenza, et curioso studio, che designare et intaglare molte altre figure che per il passato non furono mai stampate, ne Simolachri gia per altri stampati in lingua Italiana. Piglatele dunque con lieto animo benigni lettori, non risguardando al dire di qualche Sciocco, che doppo essersi servito de disegni delle figure gia fatte fare dal ditto Frellone, non sapendo come altrimente imbellire quelle figure men belle di quelle di Francia ha scritto haver fatti si ben disegnare et intaglare le figure de sopraditti Simolachri, che non sono pure equali (come dice) ma di gran lunga miglore, più vaghe, et più belle di quelle di Francia: ilche quanto sia ditto temerariamente, et senza giudicio, coloro che con giudicioso ochio et giusto giudicio considereranno quelle di Francia, fatte fare dal ditto Frellone, et quelle de gl’altri luoghi facilmente il potranno giudicare. Pero qui faro fine non sforzandomi più oltra farvi a sapere una cosa si manifesta, ma pregando i Dio che si feliciti come desiderate di Lyone alli VII d’Aprile 1549”635.’In effetti, nel 1545 era apparsa a Venezia, con tanto di privilegio del Senato, un’edizione italiana delle Figure della morte – intitolata anch’essa Simolachri, historie, e figure de la morte - decorata da copie particolarmente fedeli dei 41 legni di Holbein già apparsi nelle edizioni lionesi, accompagnate dalla traduzione italiana dei saggi d’ispirazione protestante e da due orazioni, tratti, gli uni dalla edizione francese, le altre da quella latina, entrambe pubblicate dai Frellon tre anni prima636.
L’anno seguente, sempre a Venezia, circolava una versione latina dello stesso testo, le Imagines mortis, che seguiva, nel titolo, nel testo come nell’uso del carattere corsivo, l’edizione prodotta dai fratelli francesi pochi mesi prima, ma non ne riproduceva la nuova immagine, raffigurante l’accattone storpio, evidentemente incisa nel frattempo a Lione.
Anche in Laguna il libricino – molto probabilmente grazie anche alle sue immagini - dovette destare un certo interesse, tanto che nel 1551 ne uscì una seconda edizione della versione italiana.
‘“La parola d’ordine adesso é commistione, capito ?, com-mi-stio-ne! Quelle robe che ti lasciano col fiato sospeso, capito ? E fino alla fine non capisci se si tratta di un autore eretico o ortodosso. Libri come il Beneficio di Cristo, scritto da un frate cattolico ma pieno di temi cari alla fede d’Alemagna”637 ’Si apre così, proprio sotto il segno della “commistione”, la carriera - come vedremo piuttosto florida – di pirata editoriale di Vincenzo Valgrisi. Quella di diffusore di libri “mal sentant” era, d’altronde, un vizio di famiglia...[Fig. 57-58]
In realtà, e a sua parziale scusa, si può ipotizzare che l’idea di un’edizione che potesse sfruttare i disegni di Holbein, ronzasse nella testa del francese già da tempo, fin da quando – almeno vent’anni prima – aveva forse potuto ammirarli per la prima volta, in largo anticipo sulla princeps lionese dei Trechsel: i fratelli Vaugris, infatti erano – lo si ricordi – i nipoti e, soprattutto, gli agenti, di Jean Schlaber, editore protestante, cardine della diffusione del libro riformato basileese in Francia, che aveva intrattenuto rapporti non solo con Holbein, che aveva disegnato per lui una marca nel 1525, ma anche con Lützelburger, di cui risulta creditore nel 1526638.
L’anno seguente, a Basilea per liquidare gli affari del fratello, Vincent doveva per forza aver visitato gli atelier, frequentato la gens du livre locale, e soprattutto curiosato tra pagine, torchi, inchiostri e legni: é proprio in quest’occasione che l’iperattiva schiera di scheletri avrebbe potuto colpire la sua fantasia. Una volta avuto fra le mani un prodotto ben confezionato come quello dei Frellon, la tentazione di apporvi la sua marca deve essere stata irresistibile...
La data di pubblicazione é d’altronde significativa : sono infatti gl’anni dell’apice della diffusione della letteratura riformata straniera in Italia e dunque del traffico clandestino dei libri proibiti, gestito dai vari esponenti delle categorie tradizionalmente impegnate, per le ragioni più diverse, a valicare i confini: veri e propri colportori protestanti, mercanti che ampliavano la loro offerta commerciale, militari e studenti stranieri639. Il flusso doveva essere incontenibile, se Filippo Melantone poteva scrivere che allora “intere biblioteche” entravano in Italia attraverso la Savoia, il ducato di Milano e i territori della Signoria di Venezia640. E’, contemporaneamente, il momento della massima attenzione del pubblico “medio” ai temi religiosi, in concomitanza di un allargamento della base alfabetizzata e degli interessi culturali nelle società cittadine, che imponeva al movimento filoriformato italiano l’urgenza imprescindibile di tradurre (più o meno letteralmente), dal latino o dalle lingue d’origine, una serie di testi stranieri. Non é certo una coincidenza, per restare nell’ambito del catalogo del Valgrisi, che siano questi gli anni delle edizioni delle opere di Erasmo tradotte dal Lauro e che la “bottega erasmiana”, nel decennio 1540-50, sembri fungere da centro di discussioni su temi religiosi controversi641.
Ed é proprio in questo decennio che riformati e riformisti esprimono il loro maggiore impegno produttivo: la loro voce, spesso modulata attraverso traduzioni, rielaborazioni e riscritture di opere straniere, tentava di circolare nascosta sotto le sembianze di una (falsa) ortodossia, magari inalberando nomi rispettabili e paternità inventate, o indossando le vesti anonime e il formato “sottotono” di uno dei tanti libretti devozionali di piccolo formato o camuffando sotto i velami letterari attacchi veementi e beffardi alle dottrine romane. E spesso, in questo momento di posizioni ancora moderate e aperte, in cui la situazione politica ufficiale non aveva ancora prodotto la definizione distinzione fra cattolici ed eretici, fra “buoni” e “cattivi”, non era veramente possibile stabilire il confine fra ortodossia ed eresia642
Come era prevedibile, il dedicatario di una tale iniziativa editoriale non poteva essere privo di essere chiunque: Vincenzo si rimetteva infatti alla graziosa benevolenza di Antonio Calergi, eminente senatore di una grande famiglia arcontale cretese ammessa al patriziato veneto, autore di una ben nota storia di Candia, lodato da Paolo Manuzio e da altri letterati del tempo e, soprattutto, possessore di una considerevole biblioteca, in cui doveva essere notevole la presenza di libri proibiti643
‘“Non già perché io mi imagini con le imagini della oscura Morte dar vita, et isplendore al vostro splendido, et vivo nome, ma perché elleno da lui prendano vie piu maggiore vivezza, et isplendidezza di quello, che hanno: vi fo dono di loro. Imperoche se la cosa da se é ben degna; et le cose degne si deono donare a persone degne, a cui potrei io donarla, che ne fusse più degno di voi ? E’ degna et per rispetto della grandezza del soggetto, che é delle Imagini della Morte, et della Medicina della anima et anchora in qualche particella (senza arroganza parlando) per rispetto mio” 644 ’Le Figure della morte, spiega Vincenzo, invitano ad una riflessione, ad
‘una contemplatione della morte, cio é una divisione, o separatione della anima dal corpo, overo [...] dalle cose corporali. ’Una sorta di simulazione volontaria, insomma, grazie, appunto, ad un “simolachro” di essa
‘“Conciosia che la morte é di due maniere (lasciata da parte la vera, che é la dannatione eterna, sendoche delle altre due ciascuna é ombra di morte, non vera morte) l’una naturale, alla quale tutti siamo soggetti, et sottoposti (ecco che inavedutamente sorge un altro argomento, che chiaramente dimostra la grandezza di lei: percioche se ella ha tanti soggetti, in che modo puo essere se non grande ?) quando il corpo si separa dall’anima: l’altra, volontaria, quando per elevation di mente si separa, o si ritira in se l’anima dal corpo, o da le cose corporali”’Venendo a trattare della Medicina dell’anima - sugli autori della quale a Vincenzo non sembra necessario dilungarsi, vista la loro chiara fama (!) – essa é tanto più da stimarsi, dato il suo oggetto, dal momento che quella che si cura del corpo é già “tenuta in tanto pregio” (e il Valgrisi doveva ben saperlo visti i titoli su cui aveva deciso di puntare durante questi suoi primi anni di attività editoriale...). Il Calergi, tra l’altro, sembrava essere sensibile all’argomento (o piuttosto al problema) visto che, dietro agli elogi di temperanza, regolatezza e moderatezza, Vincenzo sembra fare il ritratto di un uomo di salute piuttostsembra dover fare i conti con una salute cacagionevole:
‘E se la Medicina, che tratta della salute del corpo, della qual voi per essere di si debile, et gentil natura, che ogni poco di più, o di manco vi nuoce, par che habbiate alquanto di mestiere, pure sete talmente, si nel vostro vivere, come in ogni altra vostra attione, temperato, regolato, et moderato, che poco vi fa bisogno; se la Medicina dico, che tratta della salute del corpo é tenuta in tanto pregio, in tanta stima, et cotanto degna, quanto maggiormente dee tenersi quella, che tratta della anima ? ’L’opera é dunque di “tutto rispetto” non solo per i suoi contenuti testuali – di cui si ammette la traduzione dall’originale francese - ma, naturalmente, grazie alle figure che l’accompagnano, per realizzare le quali – secondo una formula ricorrente nelle dediche di ogni editore di “figurati” contemporanei – Vincenzo non ha badato a spese
‘“Hor questo per rispetto di tutto’l soggetto. E’ degna, dico, in qualche parte per rispetto mio, et cio dico senza arroganza, come é detto. Conciosia che io non ho perdonato a spesa veruna, si in far leggiadramente, et sottilmente dissegnare, et intagliare le figure non pure eguali, ma (come io stimo) di gran lunga migliori, piu vaghe, et piu belle di quelle di Francia, dove, et nella cui lingua prima et non meno ivi medesimo dopo nella latina anchora, furono stampati i versi, che per titolo soprastanno, et sottogiacciono a ciascun quadro delle figure, come anche et in far fare i versi nella lingua Italiana, imitando in questo la loro prima impressione, et parimente in far tradurre nella medesima lingua Italiana la Medicina dell’anima: nel che tutto non é stata usata punto minor diligenza, che nel dissegno, et nello intaglio delle figure”. ’La qualità delle copie della serie holbeiniana é in effetti notevolissima: se la riproduzione dei soggetti é perfettamente fedele, esse si discostano dai loro modelli per un uso più espressivo e drammatico del chiaroscuro: serrate ombreggiature seguono ora profili e contorni, fornendo ancor più vivacità ai gesti e alla dinamica interna delle scene645.
Vincenzo sembra decisamente orgoglioso del suo prodotto: questa opera
‘“da tutte le parti, per picciola di fogli, ma grande di sostanza, la più bella, la piu vaga, et la piu degna, che anchora sia uscita dalle stampe [...] é talmente ornata, che non ha mestiere dell’altrui ornamento”’ma se il Calergi accetterà l’omaggio, esso potrà fregiarsi anche della dignità del suo nome, tanto nobile da adornare non solo
‘“le finte imagini della morte, ma il vero essere della vita di qual si voglia cosa adorna” ’Dopo queste parole, si apre la Danza, seguita dalle traduzioni dei saggi e dai due sermoni già apparsi nelle edizioni Frellon.
L’attualità del suo testo e la bellezza delle figure fecero meritare a questo “libro picolo e di poco pretio e di gran domanda” un successo di cui abbiamo due testimonianze provenienti – non troppo sorprendentemente - da atti giudiziari : durante il processo intentatogli dall’Inquisizione, Vincenzo Grasso, organista del duomo di Spilimbergo dal 1547 al 1559 aveva dichiarato di aver letto, oltre ad Erasmo (quasi sicuramente in edizione Valgrisi...), Ochino ed altri testi d’ispirazione riformata, anche Le imagini della morte...646.
I loro 404 esemplari - di cui 300 recanti il falso titolo de Le Epistole di Cicerone – costituiscono poi il vero e proprio “corpo del reato” del processo intentato allo stesso Vincenzo nell’estate del 1570 e che dovette terminarsi con la distruzione materiale degl’ “imputati di carta”647.
Dal probabile rogo pubblico in piazza S. Marco alle più esclusive librerie antiquarie del mondo: attualmente i Simolachri – nella loro versione italiana, quanto in quella latina – sono una cinquecentina rarissima e ricercata, e non solo dagli appassionati di soggetti macabri.
La fortuna della nostra Danza macabra non si arrestò certo a Venezia: se l’edizione lionese dei Frellon del 1562, oltre ad essere la più ricca d’illustrazioni - 58 tavole - é l’ultima a poter vantare la tiratura dei legni originali, innumerevoli riedizioni e fac-simile sono stati pubblicati ininterrottamente fino ad oggi, in una vera e propria carola infernale attraverso i secoli648.
Ma a Venezia, prima del volgere del secolo, i nostri ormai familiari scheletrini fanno ancora capolino dalle pagine di un libro curioso e singolare, quintessenza del macabro fin dal titolo : Discorsi morali contra il dispiacer del morire, detto Athanatophilia. Si tratta in realtà di un imponente e voluminoso tomo suddiviso in cinque libri, o “dialoghi”, trenta novelle e un trattatatello pubblicato a Venezia da Domenico Farri nel 1596, opera del medico, bresciano ma attivo a Venezia, Fabio Glissenti649.
Notevole già in se stesso come esempio di trattato umanistico in volgare sul tema della morte, l’Athanotophilia dimostra un interesse particolare che risiede non tanto nel suo proposito più palese – raccomandare l’accettazione della Morte – quanto piuttosto nel suo sostrato opposto – un sondaggio della psicologia del lavoro. Nel descrivere la ribellione contro la prospettiva della morte che serpeggia ad ogni livello sociale, Glissenti infatti introduce dei dialoghi i cui interlocutori sono scelti tra i rappresentanti dei mestieri veneziani a lui contemporanei e tra i quali compaiono un filosofo, un cortigiano, un capitano, un agricoltore, un macellaio, un servitore, un accattone, un avvocato, un gondoliere e un’attrice. Inframezzate dalla narrazione di novelle, queste discussioni ritraggono spesso l’universale tentativo di fuga dalla morte – l’Athanatophilia, appunto – e la persistente negligenza della vera “arte del vivere e del (ben) morire”, come risultato di un’eccessiva e avida consacrazione al lavoro e alle artes del vivere edonistico. In dettagliate testmonianze di abilità e orgoglio professionale (persino dell’accattone !), in provocatorie osservazioni sulle soddisfazioni derivanti dal lavoro (persino dei servitori !), in vivaci scambi a proposito – come si direbbe oggi - dell’etica professionale, per concludersi in un catalogo di dantesche punizioni per i peccati commessi “sul luogo di lavoro”, i Discorsi sono intrisi di un ethos professionale che la dice lunga sulla morale e l’atteggiamento psicologico nei confronti del lavoro nella cultura della prima età moderna.
La “maledizione” della Danza macabra, colpì ancora e anche il Glissenti, ebbe guai con l’Inquisizione : al vaglio censorio l’Athanathophilia era infatti risultata passibile di revisione e correzione - tutti i fogli nei quali erano state annotate le “castigationi” avrebbero dovuto essere bruciati - e pertanto posta sotto sequestro. Ma poiché il Glissenti, fiero difensore della sua autonomia lettteraria volle aggiungere (o mantenere) molti dei luoghi cassati e riprovati, fu condannato, insieme con il suo editore, Domenico Farri, al pagamento di una multa di 100 ducati.
Ma veniamo all’aspetto di questa curiosa opera che più c’interessa : il testo é inframezzato da 382 illustrazioni - molte delle quali affiancate da ornamenti tipografici, che sono tutta una panoplia di simboli della caducità, scheletri, tibie, costole, crani, clessidre... - sbandierate già dal titolo come “bellissime Figure, a’ loro luoghi appropriate”. Esse sono ottenute dall’utilizzo di 117 legni, di cui trentuno tratte dalla serie dei nostri Simolachri. Di questi ultimi, ventisei sono gli originali valgrisini, mentre i cinque raffiguranti il Re, l’Astrologo [Fig.59], il Cavaliere [Fig.60], la Duchessa e il Bambino [Fig.61] sono copie, le prime due intagliate in senso inverso. Alcune matrici originali, inoltre, sono state ritoccate: intorno al Papa (c. Ii6r) [Fig.62] sono stati tolti i due diavoli e quello di sinistra é stato sostituito da una porzione di panneggio dietro la testa del pontefice ; la stessa modifica é stata effettuata sul legno raffigurante il Giudice (c. C1r) dove il diavolo é stato rimosso dalla spalla della figura centrale [Fig.63].
I legni disegnati espressamente per quest’edizione – tra cui un pregevole ritratto dell’autore inserito in una cornice “a tema” (macabro, naturalmente) [Fig.64], sono frutto di mani diverse e, seguendo l’esempio di Holbein, mostrano vivacissime (!) scene della Morte che si aggira nella Venezia contemporanea, in molti casi ammiccando ad ambientazioni e figure tratte dalla pittura contemporanea: in Piazzetta San Marco, con San Giorgio sullo sfondo, al ponte di Rialto, nei canali, in gondola, persino ad assistere ad una “notomia” (forse all’università, a Padova ?) [Fig.65-70].
Il rapporto tra il testo e l’immagine risulta talvolta piuttosto stretto, in altri casi, invece, soprattutto dove le illustrazioni raffigurano scene d’insieme con personaggi più generici, solamente allusivo. In alcune scene appare anche la Fortuna [Fig.71], e in una vignetta ci sembra persino di poter intravvedere la volontà di strizzare l’occhio ad capolavoro xilografico di un secolo prima: uno scheletro é disteso a terra su di un pavimento piastrellato che ne enfatizza la fuga prospettica, mentre una donna seduta lo piange: é possibile vederci un’eco della persino alla celeberrima scena in cui Polia siede accanto a Polifilo svenuto ? [Fig.72]
La riedizione dell’opera per i tipi di Bartolomeo Alberti (Venezia, 1609), riutilizza le stesse matrici, molte delle quali nella stessa collocazione, ma uno dei legni Valgrisi subisce un’ulteriore alterazione: la Morte, che finora indossava una mitria vescovile al cospetto dell’abate, perde ora il suo copricapo, in modo da non essere immediatamente riconoscibile650.
Sei delle copie da Holbein ricompaiono poi nel 1670 ne la Tromba sonora per richiamar i morti viventi dalla tomba della colpa alla vita della gratia (Venezia, 1670), mentre novantaquattro legni dell’Athanatophilia – compresi i ventuno derivanti dall’edizione Valgrisi – venivano ancora utilizzati nel 1677 e poi 1682, nelle edizioni de Il non plus ultra di tutte le scienze di Stefano Curti651.
La Morte [,] a Venezia danzò a lungo...
Per il tema più generale del rapporto con la Morte, gli studi di riferimento restano : Tenenti 1957a, Huizinga 1966; P. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Âge à nos jours, Paris, 1975 [trad. it. Storia della morte in Occidente, Roma-Bari, 1986]; Idem L’Homme devant la mort, Paris, 1977 [trad. it. L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, 1980]; M. Vovelle, La Mort et l’Occident de 1300 à nos jours, Paris, 1983 [trad. it. La morte e l’Occidente dal 1300 ai giorni nostri, Roma-Bari, 1986]; e D. Alexandre-Bidon, La Mort au Moyen Âge, 13e-16e siècle, Paris, 1998. Dal punto di vista più specificamente letterario, si veda Kurtz 1934. Per un panorama delle origini, della storia e dell’analisi storiografica del tema della Danza Macabra, cfr. Tenenti 1998, pp. 15-32. La bibliografia riguardante la Danza Macabra come iconografia in generale o come soggetto di una data opera d’arte, in particolare affreschi, pitture murali, ed incisioni, é vastissima; si rinvia dunque a Tenenti 1952; J.M. Clark, The Dance of Death in the Middle Ages and in the Renaissance, Glasgow, 1950; Wirth 1985, pp. 30-40; P. Ariès, Images de l’homme devant la mort, Paris, 1984; L’Homme et la mort. Danses macabres de Dürer à Dali de la collection de l’Université de Düsseldorf, catalogo della mostra, (Paris, 1985); Danze macabre, Atti dei Convegni Internazionali dell’Associazione “Danze Macabre d’Europa”, Clusone, 1987; Chartres 1988; Kientzheim 1990; Straubing 1992; Clusone, 1997, Vendôme, 2000; Rouen, 2003; Tanz und Tod in Kunst und Literatur, a cura di F. Link, Berlin, 1993; H. e B. Utzinger, Itinéraires des danses macabres, Chartres, 1996 ; A. Corvisier, Les Danses Macabres, Paris, 1998; Immagini della Danza Macabra 2004; “Humana fragilitas” : i temi della morte in Europa tra Duecento e Settecento, a cura di A. Tenenti, Clusone, 2000; Totentanz – von Spatmittelalter bis zur Gegenwart: eine Ausstellung ausgewahlter Werke der Graphiksammlung “Mensch und Tod” der Heinrich-Heine-Universitat Dusseldorf, catalogo della mostra (Tokyo-Ulm 2000-2001), Tokyo-Ulm, 2000.
Il tema del Trionfo della Morte si declina a sua volta in tre tipi iconografici differenti: nel primo e più diffuso, d’ispirazione sostanzialmente apocalittica, secondo il modello che si ritrova ad esempio a Subiaco, al Camposanto di Pisa e a Palermo, la Morte é l’ora mostruoso, ora demoniaco ora scheletrico cavaliere che piomba da cielo sul suo terribile equus pallidus; il secondo, dove essa sembra assumere, come a Clusone, il ruolo regale e giudicante del Cristo dell’Ultimo Giorno; e il terzo, d’impronta più tipicamente petrarchesca, della “donna involta in veste negra” che guadagnerà popolarità sempre più crescente a metà del Quattrocento, allorché la tipografia inizierà a divulgare l’opera del Petrarca. Cfr. L. Guerry, Le thème du triomphe de la Mort dans la peinture italienne, Paris, 1950, Tenenti, 1952, pp. 17-27; Tenenti 1998, p. 30. Il tema dell’Incontro (o Detto) dei tre vivi con i tre morti, conobbe una grande fortuna tra XIII e XV secolo, sia in forma letteraria che figurativa: tre giovani e ricchi cavalieri incontrano tre cadaveri che ricordano loro il carattere ineluttabile e imprevedibile della Morte. Ne esiste una duplice tradizione, francese e italiana: in Francia, per il suo forte impatto moralistico, é un soggetto che si ritrova miniato in molti libri d’Ore, e venne illustrato sul portale del cimitero degli Innocenti, a Parigi, per volere di Jean, duca di Berry, in memoria del nipote Louis, duca di Orléans, assassinato su ordine del cugino, il duca di Borgogna (cfr. infra, nota 4). Il tema ‘francese’ dell’incontro-dialogo/scontro, tra vivi e morti, in Italia viene interpretato piuttosto come incontro-meditazione tramite l’introduzione della figura razionalizzante e didattica dell’eremita, che esorcizza dall’animo dei tre cavalieri terrore e ribrezzo e ripropone loro la lezione del memento mori come esortazione a non abbandonarsi alle gioie terrene, ma al tempo stesso a non disperare nemmeno del futuro, in cui, se non vi saranno più la giovinezza e la bellezza fisica – pasto per i vermi e per le altre rivoltanti creature che si nutrono del contenuto dei sepolcri – rifulgerà invece, per chi non si sarà fatto irretire dai lacci del peccato, il dono incomparabile e non transeunte della vita eterna. Cfr. K. Künstle, Die Legende der drei Lebenden und der drei Toten und der Totentanz, Freiburg i. Br., 1908; Tenenti 1952; C. Frugoni, Il tema dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti nella tradizione medievale italiana, “Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei. Memorie. Scienze morali”, serie VIII, Vol. XIII, 3, pp. 146-251 ; Eadem, La protesta affidata, in I vivi e i morti, a cura di A. Prosperi, Bologna, 1982, pp. 426-448.
Dopo essersi diffusa in Germania e nei Paesi Bassi, questo genere editoriale penetra in Francia e in Spagna verso il 1480, e poco dopo in Inghilterra e Italia, si pensi alla Predica dell’arte del ben morire del Savonarola e alle splendide illustrazioni dell’edizione fiorentina del 1497 circa. Cfr. Tenenti, 1952, pp. 48-60 ; F. Bayard, L’Art du bien mourir au XVe siècle : etude sur les arts du bien mourir au bas Moyen Age à la lumière d’un « ars moriendi » allemand du 15e siècle, Paris, 1999.
Prima che il tema divenisse il soggetto di rappresentazioni pittoriche, gli ordini mendicanti, domenicani e francescani, avevano introdotto nelle chiese versioni drammatizzate della Danza macabra ad accompagnare i loro sermoni. Con una tale vivida dimostrazione dell’ineluttabilità della Morte e dell’imprevedibilità del suo arrivo, i frati tentavano di inculcare nei loro ascoltatori la necessità e l’urgenza del pentimento e della confessione. Ispirata probabilmente da Jean Gerson, e realizzata, come l’affresco sul portale, su committenza di Jean, duca di Berry in memoria di Louis, duca di Orléans, la grande Danza Macabra parigina fu distrutta nel 1669, per ordine di Luigi XIV, insieme alla fossa comune (stessa sorte toccherà all’intero cimitero, nel 1785). Testimone il Journal d’un bourgeois de Paris sous Charles VI et Charles VII (BnF, Fonds Clairambault) sappiamo che l’affresco “ fut commencée environ le moys d’août et achevée ou Carême ensuivante”. Dipinta su dieci arcate a partire dalla diciassettesima, verso la rue de la Ferronerie, la Danza era introdotta dal prologo dell’ “attore” e terminava con l’epilogo del “re morto”: delle arcate intermedie, divise in due dalla chiave di volta, mostravano sistematicamente, e per ordine di dignità, un membro del clero e un personaggio dell’ordine civile, ciascuno preceduto da uno scheletro; alcune strofe in versi esprimevano la domanda del morto seguita dalla risposta del vivo. Come annota nel 1436 Guillebert de Metz, miniaturista del duca di Borgogna, l’iconografia riscosse grande successo, e fu ripresa in numerosissimi edifici sacri in Francia (ad es. a Kermaria, Meslay-le-Grenet, La Ferté-Loupière, La Chaise-Dieu), in Italia (oltre a quelli già citati, si ricordino gli affreschi a Pinzolo, Pisogne, Como e Cremona) e in Europa centrale. Cfr. V. Dufour, La Danse macabre des saints innocents de Paris, d’après l’édition de 1484, précédé d’une étude sur le cimitière, le chernier et la fresque de 1425, Genève, 1975 (ristampa dell’edizione Paris, 1874), P. Champion, Introduction in La Danse macabre, Paris, 1925 (fac-simile dell’edizione Paris, G. Marchant, 1486) ; M. Fleury-G.-M. Leproux (dir.), Les Saints-Innocents, Paris, s.d.; Immagini della Danza Macabra, 1998; Groupe de Recherche sur les Peintures Murales, Vif nous sommes...morts nous serons, Vendôme, 2001.
Nel primo caso la Morte é a cavallo di un bue, su cui ha posato il suo sudario, ed é rappresentata con una freccia in mano e gli occhi bendati, come quelli della Fortuna. Nel secondo, armata di tre dardi, consegnatile dall’angelo che ha scacciato Adamo ed Eva dal Paradiso, agisce in nome di Dio, colpendo gli uomini nel pieno delle loro occupazioni terrene. Cfr. Tenenti 1952, pp. 30-31.
Cfr. J.-C. Brunet 1860-1864 ; Febvre-Martin 1958 ; Brun 1969, pp. 14-20. Per Vérard, cfr. J. Macfarlane, Antoine Vérard, libraire parisien, London, 1899 e Winn 1997; per Tory, cfr. A. Bernard, Geoffroy Tory, Paris, 1865 e Brun 1969, pp. 32-40.
Il Liber Cronicarum cum figuris et ymaginibus ab inicio mundi – come é definito dal titolo latino – é uno degl’incunaboli più famosi e largamente diffusi nel Quattrocento. Tra le sue 1809 xilografie - ottenute da 645 legni differenti, attribuiti al pittore ed incisore Michael Wolgenut e a suo genero Pleydenwuff (citati nel colophon) alla cui realizzazione partecipò anche un promettente apprendista, il giovane Dürer – ricordiamo qui l’Imago mortis, una straordinaria danza selvaggia di tre scheletri, al suono del flauto di un quarto che ha persino il potere di risvegliarne un quinto dalla fossa. Cfr. E. Rücker, Die Schedelsche Weltchronik das grösse Buchunternehmen d. Dürer-Zeit: mit e. Katalog d. Städteansichten, Munich, 1973; A. Wilson, The Making of the Nuremberg Chronicle, Amsterdam, 1977; Landau-Parshall 1994, pp. 38-42; Heavenly Craft 2004, pp. 63-67. L’opera di Sebastian Brant - un best seller dell’epoca, se solo a Lione, tra 1498 e 1500 ne apparvero quattro edizioni, sia in latino che in francese - si presenta come una vasta allegoria satirica e didattica della follia umana, condannata a vagare - tutti i suoi componenti insieme, senza distinzioni, sulla stessa galera - verso il paradiso dei folli, l’isola di Narragonia. Su questo singolare bateau ivre, i vizi sono simboleggiati da rappresentanti del clero, della nobiltà, della magistratura, della mercatura, dell’esercito e del popolo minuto, tutti travestiti da buffoni carnevaleschi incarnanti la cupidigia, la discordia, la sete di potere, il fanastismo, la guerra. Da questo punto di vista, la Stultifera navis ben si accosta al tema della Danza Macabra che, similmente, riunisce gli uomini di tutte le condizioni, stigmatizzando i loro difetti. L’editio princeps de Das Narreschiff é decorata da 105 illustrazioni di cui 73 attribuite al giovane Dürer, che sono state copiate nella maggior delle riedizioni successive. Tra di esse, una é particolarmente interessante in questa sede, ovvero quella raffigurante la Morte che, portando una bara sulla spalla – un motivo, come abbiamo visto, piuttosto ricorrente nell’illustrazione editoriale – afferra con la mano sinistra un lembo della tunica del matto che si volta in preda ad un’espressione mista di stupore e terrore. Cfr. Heavenly Craft 2004, pp. 61-63.
Cfr. The Dance of death 1978; Danser avec la mort 2004 ; Bibliothèque macabre (Collection Serrier), catalogo d’asta a cura di D. Couvoisier, Paris, Drouot Richelieu, 2000. Si consulti anche, ad vocem, in MEB 1997, pp. 197-8.
Cfr. Tenenti 1957a, pp. 454-460 ; P. Champion, Introduction in La Danse macabre, Paris, 1925 (fac-simile dell’edizione Paris, G. Marchant, 1486).
Tale dovette essere lo smercio della Danse Macabre, che la seconda edizione seguì di li a poco e una terza, arricchita dell’illustrazione dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti e di un’altra decina di coppie, apparve il 7 giugno 1486. La Danse des femmes é accompagnata da un testo attribuito a Martial d’Auvergne, dal Débat du corps e de l’âme e dalla Complainte de l’âme damnée. La traduzione latina del testo della Danse Macabre, é opera di Troyen Pierre Desrey. A partire dal 1491, la Danse des hommes é riedita anche a Troyes, da Guillaume Le Rouge, poi nuovamente a Parigi, verso il 1494, da Le Petit Laurens. Cfr. Danser avec la mort 2004, p. 13.
Una copia dell’edizione di Vérard, stampata su pergamena fu offerta al re Carlo VIII per la sua biblioteca di Blois. Gli stessi legni servirono in seguito per due edizioni di Gilet Couteau, una in associazione con Jean Menard (1492), e l’altra per Antoine Vérard. Cfr. Danser avec la mort 2004, p. 13.
In un primo tempo, Nicolas Le Rouge sembra aver impiegato a Troyes i legni di Guy Marchant e Guillaume Le Rouge, raggruppando indifferentemente in tre edizioni la Danse des hommes e la Danse des femmes: la prima é datata 1510, le due seguenti 1528 e 1531. Queste edizioni fissano definitivamente il modello che sarà riprodotto durante più di due secoli nelle edizioni della Bibliothèque blue. Cfr. G. Bolleme, La Bible blue, Paris, 1975 (cfr. in particolare il capitolo La Mort est au milieu du livre).
Le xilografie derivano da quelle delle edizioni parigine di Vérard (per la Danse des hommes) e Marchant (per la Danse des femmes), ma il nuovo legno con il libraio e lo stampatore, nonostante la mediocre qualità, pemette tuttavia di apprezzare la libertà d’espressione degli incisori lionesi. In questo lungo défilé macabre s’incontrano successivamente: i quattro scheletri musici, venti coppie di uomini, i tre morti e i tre vivi, la danza di 18 coppie di donne e l’esortazione al ben vivere e al ben morire, impersonata da una donna ingioiellata. Cfr. Danser avec la mort 2004, p. 17. Per Martin Husz, cfr. Febvre-Martin 1958, e cap. I.2.
La maggior parte delle edizioni lionesi erano accompagnate da poemi edificanti quali Le débat du corps et de l’âme, la Complainte de l’âme damnée – in cui si descriveva la raccapricciante scena di un peccatore morente di fronte a Dio giudice e a una schiera di diavoli – l’Exhortation de bien vivre et bien mourir – uno dei numerosi testi francesi ispirati dalle sacre rappresentazioni quattrocentesche, e l’Ars Moriendi, che metteva in scena il cristiano tentato in letto di morte dal Diavolo e descriveva la sua resistenza grazie all’aiuto del Cristo e degli angeli. Completavano il tutto La vie du mauvais antichrist, i quindici segni della fine del mondo e una descrizione del Giudizio finale. Significativo a questo proposito il titolo completo dell’edizione di Nourry del 1501: La grant danse macabre des hommes et des femmes hystoriee et augmentee de beaulx dis en latin. Le debat du corps et de lame. La complainte de lame dampnee, Exortation de bien vivre et de bien mourir. La vie du mauvais antecrist. Le quinze signes. Le iugement. A partire dal rarefarsi sul mercato delle edizioni della Danse macabre, é interessante costatarne l’intercambiabilità delle sue illustrazioni con quelle di un altro genere di vasta diffusione, il Calendrier des berger: nel momento in cui il primo titolo non viene più ristampato, la pubblicazione del secondo permette il reimpiego di alcuni legni presenti nell’atelier, come, nel caso delle edizioni lionesi, si può constatare nel Calendrier di Jean d’Ogerolles del 1579. Cfr. Kurtz, 1934, pp. 52, 59-63 ; Danser avec la mort 2004, pp. 15-16.
Nel 1233 fu fondato a Basilea, da St. Joahanns-Vorstadt, il convento dell’ordine domenicano, che venne ben presto denominato il “Convento dei Predicatori”, e che costituiva, per l’imponenza e la bellezza della sua chiesa, uno dei monumenti più celebrati ed ammirati della città. Situato nella parte alta di Basilea (la cosiddetta Statt Basel o Grossbasel), il convento era affiancato da un cimitero aperto anche alle sepolture dei laici. Sulla parete interna del muro che separava quest’area cimiteriale dalla strada, venne dipinta in un periodo databile intorno al 1440, una monumentale Danza Macabra che venne ben presto famosa con il nome popolare de “La Morte di Basilea”. La supposizione che solo un artista veramente significativo avesse potuto ambire ad un incarico così importante quale quello di dipingere nel convento dei dominicani, fece ritenere per lungo tempo che la pittura murale fosse da attribuire a Hans Holbein il Giovane, attribuzione assolutamente improponibile, fosse solo per la datazione. Anche dall’esame dei pochi frammenti pervenuteci, la maggioranza degli studiosi propende oggi per indicare come autore l’artista basilese più importante degli anni 1430-1440: Konrad Witz di Rotweil, o un pittore della sua cerchia. Secondo antiche ed attendibili tradizioni, due avvenimenti condizionarono ed influenzarono l’autore della pittura murale, aiutando nel contempo a datare l’opera: dal 1431 al 1449 si svolse a Basilea un lungo Concilio, che nel suo travagliato svolgimento elesse anche l’ultimo antipapa della storia della Chiesa. Contro Eugenio IV, promotore del Concilio, il clero dissidente designò Amedeo di Savoia, che assunse il nome di Felice V e che venne incoronato il 24 luglio 1440, al termine di una cerimonia svoltasi nella chiesa dei predicatori dopo che un lungo corteo aveva solennemente attraversato la città dalla Munsterplatz al convento dei domenicani. Inoltre, la città che visse così da vicino lo scisma di questo papa scomunicato, aveva, solo l’anno prima, nel 1439, sofferto i terribili effetti del passaggio di una delle ricorrenti epidemie di peste che attraversarono l’Europa, mietendo anche a Basilea numerose vittime, tra cui illustri personaggi, cardinali e prelati, presenti al Concilio. L’affresco era monumentale sia per lo sviluppo che per le dimensioni: lungo poco più di 57 metri, originariamente composto di 37 o 38 coppie di figure di vivo/morto, alte mediamente 150 cm. Come si é detto, il dipinto si trovava sul lato interno del muro di recinzione, esposto alle intemperie, con il solo modesto riparo di un piccolo cornicione di tegole sulla parte superiore; sulla base delle frequenti riparazioni resesi in seguito necessarie, sembra inoltre che lo stesso muro di supporto dell’affresco non fosse strutturalmente di per se molto robusto. Nel corso dei secoli successivi, la Danza della Morte continuò a subire deterioramenti assai consistenti e non v’é dubbio che le molte e costose operazioni di restauro abbiano influenzato gli amministratori pubblici nella loro determinazione di far scomparire il dipinto. Si deve ad alcuni cittadini amanti dell’arte se alcune parti della Danza Macabra sono giunte sino a noi: 19 frammenti sono infatti attualmente conservati al Museo Storico di Basilea. La popolarità della raffigurazione, inoltre, fu tale da costituire oggetto di interesse per molti artisti, tanto che se ne può avere oggi una sicura ricostruzione iconografica grazie a diverse stampe ed acquerelli e persino a una serie di terracotte ottocentesche. Dalla copia realizzata nel 1596 da Hans Block il Vecchio per l’arciduca Mathias d’Austria, fratello dell’imperatore Rodolfo II, sappiamo che le due prime coppie del ciclo erano l’imperatore e il papa: le stesse che aprono la serie di Holbein [Fig. 8]. Cfr. Tenenti 1957a, p. 459 ; P. H. Boerlin, Der Basler Prediger-Totentanz, Basel, 1966; F. Maurer, Die Kunstdenkmäler des Kantons Basel-Stadt, V, Die Kirchen, Klöster und Kapellen, Basel, 1966, pp. 203-317: 290-314; S. Cosacchi, Der Tod von Basel und der Deutsche Totentanz, Dresden, 1968; V. Sozzi, La Danza macabra di Basilea: testimonianze iconografiche, Clusone, 1994; Bätschmann-Griener 1997, p. 56. Per le testimonianze iconografiche successive, cfr V. Sozzi, La Danza macabra di Basilea e le terrecotte di Zizenhausen (Un’insolita testimonianza iconografica), in A proposito della danza macabra 1998, pp. 42-48 e L. H. Wütrich, Das druckgraphische Werk von Mattheus Merian d. Ae., III, Die grossen Buchpublikationen, Hambourg, 1993, pp. 345-62 per la serie d’incisioni tratte dalla Prediger-Totentanz (I edizione Basel, 1621). Per il disegno di Hans Block, cfr. H. Landolt, 100 Meisterzeichnungen des 15. und 16. Jahrhunderts aus dem Basler Kupferstichkabinett, ed. Schweizerische Bankverein, Bâle, 1972, n. 94; A Basilea, una seconda Danza Macabra si trovava nel chiostro del monastero di Klingental, cfr. R. Riggenbach Die Wandbilder des Klosters Klingental, in Maurer, Die Kunstdenkmäler, cit., IV, 1961, pp. 95-139. A Berna, tra 1516 e 1519-20, Niklaus Manuel dipinse una Danza macabra sul muro del cimitero del Dominikanerkloster – il monastero domenicano – scomparsa prima del 1660, ma di cui restano copie accompagnate da strofe dei dialoghi dei personaggi con la Morte: anch’essa cominciava con il peccato originale, ma aggiungeva la consegna delle tavole dei Comandamenti a Mosé e la Crocifissione e l’orchestra dei morti. Cfr. Tenenti 1957a, pp. 460-1; Niklaus Manuel Deutsch. Maler, Dichter, Staatman, catalogo della mostra, Kunstmuseum, Berne, 1979, nn. 94-130, pp. 252-291.
Ci si riferisce naturalmente al Cristo morto di Basilea (1521-1522, Öffentliche Kunstsammlung) che Holbein eseguì con ancora negl’occhi la profonda emozione suscitatagli dalla predella del polittico d’Issenheim di Matthias Grünenwald (1512-1515, Colmar, Musée d’Unterlinden) che doveva aver visto accompagnando nella città alsaziana il padre, che tra 1509 e 1516-17 vi ricevette un certo numero di commissioni. Il fascino di questo ritratto del corpo divino ridotto da Holbein a cadavere suppliziato, non si é sbiadito nel corso dei secoli, se ancora nel 1867 era così forte da attirare a Basilea, e da ridurre alla soglia della crisi epilettica, Fiodor Dostoïevski che trasporrà a sua volta l’episodio in una scena dell’Idiota (1868-69), in cui il principe Muichkine, ammirando una copia del dipinto in casa di Rogojine, commenta che un tale dipinto deteneva il potere di far perdere la fede a chi lo guarda...Cfr. J. Meyers, Painting and the Novel, Manchester, 1975, pp. 136-147.
L’analisi della serie holbeiniana costituisce di per se parte integrante di tutti i testi dedicati alla Danza Macabra. Cfr. Woltmann 1876, I, pp. 240-283, II, pp. 174-179, nn. 92-149; H. Green, Introduzione e note in Les Simulachres & historiees faces de la mort: commonly called “The Dance of Death”, fac-simile dell’edizione Lyon, 1538, London, 1869; F. Lippmann, Introduction in The Dance of Death by Hans Holbein, London, 1886; J. M. Clark, Introduction in Danse macabre by Hans Holbein the Younger, New York, 1935; Hollstein’s XIVA, n. 99, pp. 202-206. Il regesto più completo della bibliografia su Holbein é ora E. Michael, Hans Holbein the Younger : A Guide to Research, New York and London, 1997, più specificatamente per le opere grafiche, cfr. la bibliografia in Hollstein’s XIV, pp. 131-137.
Cfr. Chastel 1983, pp. 43-51.
Per Ambrosius Holbein, cfr. Hollstein’s XIV. Per il Nuovo Testamento edito da Petri, cfr. infra, nota 28.
Sulla posizione di Erasmo sulle immagini e per molte altre riflessioni, rimane fondamentale E. Panofsky, Erasmus and the visual Arts, in “Journal of Warbourg and Courtauld Institutes”, 1969, pp. 200-227; per quella di Thomas More, cfr. J. B. Trapp, Thomas More and the Visual Arts, in Id. Essays on the Renaissance and the Classical Tradition, Aldershot, 1990, cap. VIII. In fondo non é certo un caso se il primo contatto fra Holbein ed Erasmo sia avvenuto in nome del libro: il primo esempio dell’interesse del giovane Hans per l’illustrazione libraria – e il suo esordio nel mondo dell’arte tout court - risale al 1515. In quell’anno, giunti a Basilea da Augusta per lavorare nella bottega di Hans Herbst, i due fratelli Holbein incontrarono il teologo Oswald Geishüsler, detto Myconius, amico di Erasmo, che prestò loro la sua copia del Moriae Encomium, nell’edizione Froben del 1515. Hans e Ambrosius decorarono spontaneamente i margini del libro con 82 disegni (79 sono attribuiti ad Hans, 3 al fratello) che, quasi pagina per pagina, commentano icasticamente le stoccate che la Follia erasmiana contro le categorie umane e sociali del loro tempo. I disegni sono riprodotti nell’edizione anastatica della copia di Myconius, conservata fin dal 1578 all’Öffentliche Kunstsammlung di Basilea: Erasmi Roterodami Encomium Moriae i.e. Stultitiae Laus Lob der Torheit, Basler Ausgabe von 1515 mit der Randzeichnungen von Hans Holbein d. J., ed. H. A. Schmid, Basel, 1931, e nell’edizione della traduzione italiana a cura di Benedetto Croce: Erasmo da Rotterdam, Elogio della Pazzia e Dialoghi, a cura di B. Croce, Bari, 1914. Cfr. E. B. Michael, The drawings by Hans Holbein the Younger for Erasmus Praise of Folly, PhD Dissertation, University of Washington, 1981. Per il testo, l’edizione di riferimento in italiano, é ora Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia, a cura di Carlo Carena, Torino, 1967, di cui cfr. in particolare l’introduzione, pp. VII-XLVIII. I disegni di Holbein furono riprodotti, con varianti ed “epurazioni”, nelle calcografie dell’incisore bernese William Stetter per un’edizione del testo di Erasmo voluta dal francese Charles Patin e stampata a Basilea nel 1676. Sull’interessante storia delle edizioni illustrate dell’Elogio, cfr. M. Besso, L’Encomium Morias di Erasmo da Rotterdam. Con l’iconografia dell’opera e dell’uomo. Documenti, facsimili, illustrazioni, Roma, 1918. Per l’atteggiamento di Holbein nei confronti della Riforma, oscillante fra prestazione professionale e impegno ideologico, cfr. Chastel 1983, p. 49; cfr. Dillenberger 1999, pp. 149-156
Un simile scarto dalla struttura “processionale” della Danza Macabra verso la raffigurazione della Morte che coglie i vari individui nella loro vita quotidiana poteva già notarsi nella serie di margini con gli “Accidents de l’Homme” delle Horae Beatae Mariae Virginis pubblicate da Simon Vostre (Paris, 1512) e nelle potenti xilografie che decorano Les loups ravissants di Robert Gobin. Una di queste opere, o il manoscritto su cui si basano, potrebbe aver ispirato i Simulachres, ma si noti che lo stesso avveniva anche nell’affresco bernese di Niklaus Manuel. Cfr. Mortimer 1964, n. 284, pp. 350-3 e n. 251, pp. 305-8; Tenenti, 1957a, pp. 460-2.
Cfr. Wirth 1985, p. 199.
Tenenti, 1957a, p. 464. L’interesse di Holbein nella raffigurazione in maggior dettaglio dei diversi tipi professionali, inoltre, potrebbe essere stata in parte ispirata proprio dai disegni che realizzò per l’Elogio della Follia, che comprendevano ritratti satirici di figure quali il re, il filosofo, il precettore e il chierico, a loro volta già incontrati a bordo della Narrenschiff di Sebastian Brant.
La fonte d’ispirazione per quest’immagine dev’essere senza dubbio identificata nella xilografia raffigurante il bacio del piede comparsa nel Passional Christi und Antichristi, pubblicato nel 1521 a Wittenberg da Johann Grunenberg, il cui corredo illustrativo é composto da ventisei xilografie opera di Cranach il Vecchio e della sua bottega, accompagnate da commenti di Melantone e Johann Schwertfeger. Di questo testo, nel solo 1521, apparvero numerose edizioni tedesche, e un’edizione latina (tutte senza marca editoriale), e più tardi due edizioni furono pubblicate a Erfurt e a Strasburgo. Cfr. Lukas Cranach 1974, I, n. 218, p. 330; H. Schnabel, Lukas Cranach d. Ä. – Passional Christi und Antichristi, Berlin, 1972 (fac simile); F. Petersmann, Kirchen- und Sozialkritik in der Bildern des Todes von Hans Holbein d. J., Bielefeld, 1983, pp. 172-189 che fa notare come la rappresentazione del papa di Holbein fu copiata da Georg Pencz (seconda tavola della serie Die sieben Planeten, 1531) e da Heinrich Aldegrever (Totentanz, 1541); Wirth 1985, p. 200-201; Bätschmann-Griener 1997, pp. 56-57. Lutero, nel suo opuscolo Teutscher Adel. An der christenlichen Adeldeutscher Nation: von des Christenlichen Stands besserung (Wittenberg, M. Lotther, 1520), basandosi sul paragone tra quest’uso e la lavanda dei piedi eseguita dal Cristo, descriveva il bacio del piede come un esempio tipico del comportamento dell’Anticristo. Cfr. M. Luther, Sämtliche Werke, VI, pp. 404-469; Wirth, “Imperator pedes papae deosculatur”, in Festscrift für Harald Keller, Darmstadt, 1963, pp. 175-221, Chastel, 1983, p. 46. Già in un’altra xilografia raffigurante La Vendita delle indulgenze, anch’essa incisa da Hans Lützelburger e databile tra il 1522 e il 1523, Holbein, aveva ritratto un Leone X arrogante e impenitente, “in piena attività” nella parte destra del foglio. L’opera si riferisce chiaramente al pamphlet di Lutero contro la bolla papale Exurge Domine del 15 giugno 1520 che ne aveva denunciato come eretiche le 41 tesi. Nella sua difesa, Lutero si era rifatto al re Manasseo, a David e al centurione pentito, tutti presenti nella parte sinistra dell’immagine, secondo una giustapposizione, propria dell’iconografia riformista, destinata ad insegnare allo spettatore la distinzione fra bene e male. Purtroppo tutti gli esemplari pervenutici sono privi del testo a commento. Cfr. Chastel 1983, p. 49; Bätschmann-Griener, 1997, pp. 116-8, fig. 159.
Per l’edizione della Praecatio dominica di Erasmo, pubblicata da Froben nel 1523, Holbein aveva fornito il disegno per un’altra scena di predicazione dal pulpito, il cosiddetto Panem nostrum, in cui in secondo piano rispetto all’uditorio e ad una scena di comunione, una pala d’altare in bella vista, con davanti due ceri accesi, non sembra avere alcun valore polemico e ci dice anzi molto sulla posizione, al contempo di Erasmo e di Holbein, riguardo al ruolo delle immagini nel culto. Cfr. Hollstein’s XVIA, n. 65a-h, pp. 126-7; Bätschmann-Griener 1997, pp. 118, fig. 162.
Una raffigurazione della tensione dei rapporti tra latifondisti e contadini si ritrova anche nell’Alfabeto della Morte che Holbein dovette realizzare verso il 1524. Tre copie della serie completa dell’alfabeto, cui non sono stati tagliati i margini (cm 27x34), mostrano che le lettere, in carattere romano, erano accompagnate da citazioni della Bibbia, e questo fatto invita a pensare che la tavola fosse stata originariamente concepita per essere diffusa intera, e non, come sembra fu poi, suddivisa in iniziali figurate impiegate in edizioni religiose [Fig. 49]. Il testo che accompagna la lettera K, ad esempio [Fig. 50] - in cui la Morte colpisce un proprietario terriero con un flagello - cita il salmo 49: “né i beni temporali né gli onori possono accompagnare un uomo rapito dalla Morte”. Il preambolo dell’Alfabeto della Morte riprende un passo del Libro dei Proverbi (30.18-19) che solleva il problema del cammino che deve seguire l’umanità. La decorazione delle iniziali, dalla lettera A – illustrata da un concerto macabro – alla Z – raffigurante il Giudizio finale – pone l’accento sulla fragilità umana. La questione sollevata all’inizio, trova la sua risposta nel testo scelto per concludere la serie, tratto da Isaia 40.6-8: “Tutte le cose passano, ma la parola del Signore resta” (“aber das wort des herren bleybt in ewigkeit”): si tratta di una delle grida di guerra della Riforma che si levò per la prima volta alla corte di Sassonia e apparve nel 1534 sul frontespizio della prima edizione completa della Bibbia di Lutero. L’alfabeto macabro dovette sicuramente avere un ruolo ispiratore per il suo equivalente “anatomico” impiegato nel trattato del Vesalio. Cfr. Hollstein’s XIVB, n. 146, p. 136; copie della tiratura in tedesco sono conservate a Coburg e a Karlsruhe, una copia della tiratura in latino é a Oxford; K. Hoffmann, Holbeins Todesbilder, in Ikonographia. Anleitung zum Lesen von Bildern (Festschrift Donat de Chapeaurouge), a cura di B. Brock e P. Achim, Munich, 1990, pp. 97-110: 102-4; F. J. Stopp, “Verbum Domini Manet in Aeternum: The Dissemination of a Reformation Slogan, 1522-1904”, in Essays in German Language, Culture and Society, a cura di S. S. Prayer, London, 1969, pp. 123-135; Schmidt 1962; Wirth 1985, p. 195.
Illustre precedente, l’incisione düreriana del 1503, che raffigura anch’essa il blasone della morte, uno scudo su cui é raffigurato un teschio sormontato da uno splendido elmo alato. La Morte ha qui le sembianze del Selvaggio, figura tradizionale della mitologia svizzera e tedesca che corteggia una giovane donna. [Fig. 55] Cfr. Hollstein’s X, n. 98, p. 89. Per il gusto del macabro in Dürer, cfr. Wirth 1985, pp. 48-81]
Hans Lützelburger, che sembra potersi verisimilmente identificare con l’incisore che si firma come Hans Franck su alcune tavole realizzate ad Augusta per Massimiliano d’Asburgo, é una delle personalità più interessanti tra quelle impegnate dal mecenatismo dell’imperatore. A partire dal 1522 é invece attestato a Basilea dove dovette completare la sua carriera come incisore presso il circolo artistico stretto intorno a Johannes Froben e dove lo si ritrova impegnato in numerosi progetti per incisori e stampatori, culminanti, appunto, nell’esecuzione delle tavole delle Figure della Morte di Holbein. Di quest’ultimo tradusse su legno numerose altre opere: molto probabilmente le illustrazioni dell’Apocalisse, riprese da quelle di Cranach, per le edizioni pirata della Bibbia nella traduzione in tedesco di Lutero, pubblicate da Adam Petri tra 1522-23, compreso il frontespizio con Pietro e Paolo (cfr. Hollstein’s XIVA, nn. 48a-i, pp. 68-72), due fogli xilografici, il Cristo luce del mondo e la già citata Vendita delle indulgenze (entrambe 1522-23, cfr. Hollstein’s XIVA, nn. 2-3, pp. 142-43 e supra, nota 23), il frontespizio di un Nuovo Testamento stampato da Thomas Wolf a Basilea nel 1523, composto da quattro soggetti tratti dal Vangelo e degli Atti degli Apostoli, in cui le iniziali “H.L.FVR.” dovrebbero leggersi come “Hans Lützelburger, furmschneider [xilografo]” (cfr. Hollstein’s XIVA, n. 49, pp. 74-78 e n. 55, pp. 97-8), l’Alfabeto della Morte del 1524, come testimonia il nome apposto a mo’ di firma su tre esemplari delle prove di stampa (“Hanns Lützelburger / formschnider / genant Franck”, cfr. Hollstein’s XIVA, n. 146, pp. 136-139), le due cornici per frontespizi con “Cleopatra e Dioniso” l’uno e “Ercole e Orfeo” l’altro, le tavole dell’Antico Testamento pubblicato da Petri nel 1524 (Hollstein’s, n. 72a-f, pp. 143-48) e almeno alcuni dei legni delle Icones Bibliche, anch’esse probabilmente destinate ad una Bibbia luterana (per cui cfr. cap. III e Hollstein’s XIV, n. 110a-n, pp. 21-23). La sua firma “Hanns Leuczellburger furmschnider 1.5.2.2” si ritrova in una notevole quanto curiosa incisione, tratta da un disegno dell’ancora anonimo Maestro “NH”, raffigurante un combattimento fra nudi e contadini ambientato in una foresta di pini e accompagnata da un testo in versi (cfr. Passavant, III.443-44, un esemplare si trova alla Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe). La prova della paternità dell’incisione delle tavole della Danza holbeiniana é da identificarsi nel monogramma “HL” che compare nella xilografia raffigurante la Duchessa. Cfr. His 1870, pp. 481-89; H. C. Dogson, Hans Lützenburger and the Master N.H, « Burlington Magazine », 10 (1906), pp. 319-22; e più recentemente H. Reinhardt, Einige Bemerkungen zum graphischen Werk Hans Holbeins des Jüngeren, “Zeitschrift für Schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte”, 34 (1977), pp. 229-60, con ulteriore bibliografia; P.W. Parshall, Reading the Renaissance Woodcut: The Odd Case of the Master N.H. and Hans Lützelburger, “Register of the Spencer Museum of Art”, 6 (1989), pp. 30-43; Landau-Parshall 1994, pp. 212-16, Bätschmann-Griener 1997, p. 116.
I documenti che provano questo passaggio di proprietà sono un Vergichbuch - ovvero un registro per i debiti sulle ipoteche o su cauzione - datato 23 giugno 1526, e un altro registro di beni sequestrati per debiti a fuggitivi o morti senza eredi, entrambi conservati negli archivi di Basilea: nel primo, sebbene non si faccia esplicitamente il nome di Lützelburger, si legge che Melchior Treschel aveva presentato quale garante che potesse indennizzare un eventuale pretendente con diritti più fondati sulle tavole, Jean-Luc Iselin, di Basilea; nell’altro, sempre relativo all’anno 1526, nella lista dei creditori che potevano rifarsi sui beni mobili del defunto maestro, Melchior Treschel é citato insieme ad altri, tra cui gli stampatori Johannes Froben e Johannes (Hans) Schlaber, detto Wattenschnee. Cfr. His 1870-71, pp. 484-5. Melchior e suo fratello Gaspard, erano i figli del tipografo di Magonza Jean Trechsel, che insieme ad altri connazionali, si era trasferito a Lione verso il 1487 ed era stato fra i primi a fondare una confraternita religiosa nella chiesa domenicana di Notre Dame de Confort. Il celebre Josse Bade lavorò presso di lui come correttore, prima di diventarne il genero e trasferirsi a Parigi. Jean Trechsel morì intorno al 1499 e la sua vedova si risposò con un altro tipografo tedesco, Jean Schwab, detto Clein, che ne riprese l’attività fino alla sua morte, avvenuta nel 1529. Melchior e Gaspard si ritrovarono dunque a capo dell’impresa paterna solamente nel 1530, e, nonostante non riuscissero mai ad accumulare un grande patrimonio o lo status necessario per entrare a far parte del governo cittadino – la loro insegna divenne nota per la qualità della sua produzione. Negli anni ‘30 i due fratelli stamparono pregevoli edizioni di Cicerone, Orazio, Sallustio, Ovidio, Senofonte e Livio. Dal 1535, probabilmente grazie ai contatti che dovette procurargli Josse Bade, lavorò come correttore presso di loro Michel Servet. Melchior - seguito nel 1549 da Gaspard, che nel frattempo aveva pubblicato qualche edizione nella vicina Vienne – cessò completamente l’attività di stampatore per trasferirsi in Spagna in qualità di facteur dell’editore e libraio lionese Guillaume Rouillé. Fin dai primi anni del secolo, il patrigno Jean Clein aveva allacciato contatti con Basilea e fu probabilmente grazie a questi che il giovane Melchior aveva incontrato Lützelburger e il circolo frobeniano. Lo stesso Clein, tra l’altro, si era già interessato al tema della Danza Macabra : possedeva infatti delle matrici per bordi ornamentali con tale soggetto, realizzati da Guillaume Leroy, cfr. Baudrier 1964, XII, pp. 287-8. Per i Trechsel: cfr. Baudrier 1964, XII; Zemon Davis 1956, pp. 104-107 e cap. I. 2; su Michel Servet, cfr. J. Baudrier, Michel Servet, ses relations avec les libraires et les imprimeurs lyonnais, in Mélanges offerts à M. Emile Picot, Paris, 1913, I, pp. 42-3; R. H. Bainton, Hunted Heretic. The Life and Death of Michael Servetus. 1511-1553, Boston, 1953, p. 84.
E’ stata chiamata in causa la difficoltà di trovare un incisore per le tavole ancora da realizzare, in grado di garantire lo stesso livello qualitativo di quelle già realizzate da Lützelburger oppure si é ipotizzato che i fratelli fossero troppo impegnati con altri ordini e con le loro edizioni latine dei classici - in effetti i Trechsel pubblicarono la loro prima edizione in francese proprio nel 1538 – ma nessuna di queste congetture sembra essere sufficientemente convincente. Cfr. Lippmann, Introduzione, cit. p. 4; Zemon-Davis 1956, p. 107; Baudrier 1964, XII, pp. 233-48 ; Michael 1992, p. 31.
Si conoscono almeno quattro prove di stampa complete e alcune altre incomplete, anteriori alla prima edizione lionese: esse sono stampate da un solo lato del foglio e hanno didascalie che ne indicano il soggetto in caratteri corsivi mobili tedeschi che Ambroise-Firmin Didot ha attribuito all’atelier di Johannes Froben. Una di queste tirature, comprendente 39 soggetti della serie, di cui 37 con didascalie, é conservata nella collezione Hofer, ora alla Harvard University Library. Il Kupferstichkabinett di Berlino, inoltre, conserva delle copie a penna e inchiostro di 23 composizioni. In quella dell’immagine della Morte che coglie l’imperatore, si nota, al di sopra del trono la data 1527: é senza dubbio quella delle copie e non dei disegni originali, dal momento che in quell’anno Holbein si trovava già in Inghilterra. Ora, queste copie, di un formato considerevolmente più grande e più arrotondato nel tratto, non possono essere state realizzate che sulla base delle prove di stampa, visto che, qualora l’artista avesse invece avuto per modello i disegni originali – che necessariamente erano in controparte rispetto alle stampe – li avrebbe senza dubbio copiati nello stesso senso. Ad ulteriore conferma di ciò, l’autore dei disegni riporta il monogramma “HL” – la firma dell’incisore apposta sul letto della duchessa - che non avrebbe avuto alcuna ragione di comparire sui disegni originali. Cfr. His 1870, pp. 487-8; Mortimer 1964, I, n. 284, pp. 351.
In –4, 52 cc., A-N4. Cfr. Brunet 1860-64, III, 254-255; Suppl. I, 647-8; Baudrier, 1964, V, pp. 175-177; Brun 1969, pp. 99-101; 235-6: Mortimer 1964, I, n. 284, pp. 350-3 con bibliografia. Per l’intera vicenda della pubblicazione lionese delle tavole di Holbein, prima ad opera dei Trechsel e poi dei Frellon, riferimento fondamentale resta Zemon-Davis 1956.
Per i Frellon, v. infra. Per l’ “Escu de Cologne”, cfr. cap. I.2.
Per lo statuto dell’immagine come supporto dell’ars memorialis e dunque della riflessione a scopo morale, cfr. cap. III. Sembra interessante citare a questo proposito l’incisione düreriana raffigurante La Morte e il lanzichenecco, accompagnata da un poema, sempre di mano del artista, intitolato Keyn ding hilfft fur den zeytling todt / Darumb dienent got frrwe und spot (“Nulla può far prevedere una morte precoce, dunque servi Dio dal principio alla fine”) e dedicato al tema della subitaneità e imprevidibilità della morte e dunque alla necessità di vivere con la coscienza pulita per non aver nulla da temere [Fig. 53]. Cfr. Hollstein’s X n. 239, p. 194. Similmente, una xilografia di Urs Graf, Il mercenario, il lanzichenecco, la prostituta e la Morte, (1524), invita lo spettatore a prendere coscienza della necessaria dipartita dal mondo terreno. [Fig. 54] Cfr. Himmel, Hölle, Fegefeur. Das Jenseits in Mittelalter (catalogo della mostra, 1994) a cura di P. Jezler, Landesmuseum, Zurich, 1994, n. 73, pp. 258-9.
Discendente di una famiglia borghese lionese piuttosto in vista, Jean - fratello di George, uomo d’arme, e di Mathieu, un noto giurista e membro del consiglio della città – aveva già al suo attivo una brillante carriera ecclesiastica, culminata nella nomina a chevalier del capitolo lionese di Saint-Jean, posizione che assicurava una ricca prebenda. Insieme ad esponenti di famiglie come i Bellièvre, gli Scève e i Du Choul, Mathieu e Jean formavano l’intelligentsia locale. Jean era autore di opere e traduzioni d’impronta religiosa, tra cui quelle di alcune opere dell’Aretino, stampate anch’esse dai Trechsel. La sua attività letteraria gli meritò persino la protezione reale: fu infatti nominato “maître des requêtes” di Margherita di Navarra, aumônier di Francesco I e onorato da Enrico II e Caterina de’ Medici durante la loro visita a Lione. Vauzelles era noto anche come autore di raccolte di “blasons”, un genere allora assai in voga, nei circoli lionesi di produzione poetica in latino e in francese degli anni ’30, che contavano fra i loro adepti personalità quali Jean Voulté, Nicolas Bourbon, Etienne Dolet e Maurice Scève. L’attribuzione delle quartine a Gilles Corrozet, un errore bibliografico durato per secoli, é stata recentemente corretta da Kammerer 2004. Devo l’informazione alla cortesia di Magali Vène, della Réserve della BnF che colgo l’occasione per ringraziare. Cfr. L. De Vauzelles, Notice sur Jean de Vauzelles, “Revue du Lyonnais” III s., XIII (1872), pp. 52-73; Picot 1906, I, pp. 118 ss.; Baudrier 1964, XII; A. Saunders, Jean de Vauzelles, moralist and blasonneur, in “Studi francesi”, 71 (1980), pp ; 277-288. Sull’ambiente culturale lionese in quel giro di anni, cfr. Margolin 1988 ; Cooper 1993
Les Simulachres, c. A3v. Il passo sembrerebbe far pensare che Vauzelles ignorasse la vera paternità dei disegni e, dal momento che Holbein godeva allora di ottima salute, ne considerasse Lützelburger – defunto – sia l’autore che l’incisore. In realtà, anche se i Trechsel non lo avessero informato, ne sarebbe stato messo al corrente dal suo amico Nicolas Bourbon. Quest’ultimo, già imprigionato e spogliato dei suoi beni a causa delle sue idee ereticali, prima di giungere a Lione, dove soggiornò dal 1536 al 1540, aveva risieduto per qualche tempo in Inghilterra dove si era fatto ritrarre da Holbein (il ritratto, un grande disegno ora a Windsor Castle, é ripreso in quello xilografico che decora l’edizione delle Nugae, a partire da quella Lyon, Gryphe, 1536, cfr. Mortimer 1964 n. 117, pp. 147-8 ; Hollstein’s XIVA, n. 97, p. 200). Nella seconda edizione delle sue Nugae (Lyon, Gryphe, 1538), un epigramma - forse addirittura scritto proprio in vista di quest’edizione dei Simolachres - fa allusione al pittore tedesco quale autore delle xilografie. Per un’ipotesi delle ragioni di questa omissione, v. infra. Cfr. Woltmann 1876, I, pp. 268 e 404-7 per le relazioni fra Holbein e Bourbon; His 1870, pp. 486-7; Zemon-Davis 1956, pp. 108; 113-114; 116; Mortimer 1964, I, n. 284 cit. p. 350, Landau-Parshall 1994, p. 216.
Nel caso del papa (c. C3r) e del canonico (c. D4v), la forza polemica delle immagini é decisamente smorzata: in quest’ultimo caso, forse per evitare di offendere i potenti canonici della Cattedrale di Saint Jean, diretti superiori di Jean de Vauzelles. Nel caso del predicatore (c. C3r), avviene invece l’inverso: la xilografia non é particolarmente aggressiva, mentre le quartine tuonano:
“Mal pour vous qui ainsi osez / Le mal pour le bien nous blasmer / Et le bien pour mal exposez / Mettant avec le doulx l’amer”
In questo caso, la figura del predicatore sembra spontaneamente associata alle forme di propaganda protestante. Cfr. Zamon-Davis 1956, p. 110-111.
Ibidem, c. B1r: Diverses tables de Mort, non painctes, mais extraictes de l’escripture saincte; c. H1r: Figures de la Mort moralement descriptes, et depeinctes selon l’authorité de l’escripture, et des sainctz Peres; c. K1r: Les diverses Mors des Bons, et des mauvais, du viel et nouveau testament; c. L3r: Memorables Authoritez, et sentences des Philosophes, et orateurs Payens pour confirmer les vivans a non craindre la Mort; c. M3v: De la Necessité de la Mort qui ne laisse riens estre pardurable.
Ibidem, cc. A4r-v. Probabilmente preoccupato da una possibile accusa per aver associato il suo nome ad un’opera che, per la sua struttura basata su immagini e versi che parafrasano la Bibbia, potesse essere tacciata come protestante, nelle due pagine precedenti (cc. A3r-v), Vauzelles, citando l’impiego del linguaggio metaforico da parte dello stesso Cristo e dei padri della Chiesa, aveva giustificato l’uso delle illustrazioni per il loro maggiore impatto rispetto anche alla più vivida retorica. In fondo, raffigurazioni di soggetto biblico non ricoprivano forse il “choeur de ceste tant venerable Eglise de Lyon”, servendo all’educazione degl’illetterati ? E, con un colpo diretto ai protestanti:
“Que voulut Dieu, quoy qu’en debatent ces furieux Iconomachiens, que de telles ou semblabes images fussent tapissées toutes noz Eglises mais que noz yeulx ne se delectassent a aultres plus pernicieux spectacles”
E’ piuttosto interessante, a questo proposito, che quando Lione fu dichiarata protestante nel 1562, la furia iconoclasta non risparmiò il ciclo di figurazioni bibliche che decoravano proprio il coro della cattedrale St. Jean
Ibidem, cc. A4r; M3r
Ibidem, cc. B2r-v
Ibidem, cc. B2r-v
Ibidem, cc. B3r-v
Ibidem, c. N4r
Zemon-Davis 1956, p. 108 e 115. In realtà, molto più semplicemente, la paternità di Holbein potrebbe esser stata nel frattempo dimenticata da editori e stampatori immersi fino al collo nei ritmi incessanti della realtà quotidiana della produzione e del commercio editoriale. Cfr. Landau-Parshall 1994, p. 216.
In-4, 48 cc. Al verso del frontespizio, prefazione di Jean Frellon. Le prime quattro xilografie sono le stesse che nei Simulachres (Creazione, Peccato originale, Cacciata dal Paradiso e la Maledizione dei progenitori, costretti al dolore e alle fatiche del lavoro. Dell’edizione del 1538 sono note due diverse emissioni e una prova di stampa conservata al Kupferstichkabinett del Basel Kunstmuseum. Come nei Simulachres, il nome dell’autore delle tavole é passato sotto silenzio. Diversamente però avviene nella seconda edizione, pubblicata l’anno successivo con l’aggiunta di due tavole, una prefazione in versi e una postfazione di Gilles Corrozet. Ad esse si aggiungono una dedica al lettore in versi e un distico in greco e in latino (“Cernere vis, hospes, simulacra simillima vivis ? / Hoc opus Holbinae nobile cerne manus”), di mano di Nicolas Bourbon, che fanno apertamente il nome di Holbein, elogiandone l’opera. I Trechsel riutilizzarono 86 xilografie delle Icones, con l’aggiunta di una nuova, per l’illustrazione dell’Antico Testamento (le xilografie per il Nuovo Testamento sono invece opera di un’altra mano) in una Biblia utriusque Testamenti iuxta Vulgatam translationem, in folio, stampata sempre nel 1538, ma questa volta per l’editore Hughes de la Porte. Come per i Simulachres, anche in questo caso furono i Frellon a ripubblicare le tavole delle Icones negli anni successivi. Per le varie edizioni delle Icones cfr. Mortimer 1964, I, nn. 279-283, pp. 344-49; Bätschmann-Griener, 1997, pp. 60-63; Michael 1992 e 1999 e cap. III.
Per gli scioperi degli operai stampatori lionesi, cfr. M. Audin, Les grèves dans l’imprimerie à Lyon, au seizième siècle, “Gutenberg-Jahrbuch” (1935), pp. 172-4; N. Zemon-Davis, Stikes and Salvation at Lyons, in Society and Culture in Early Modern France, Stanford, 1975, pp. 1-16.
Cfr. Zemon-Davis 1956, p. 118-9.
Per i Frellon, cfr. cap. I.2.; Baudrier 1964, V, Febvre-Martin 1958, pp. 421-22.
Imagines de Morte, et Epigrammata, e Gallico idiomate a Gregorio Aemylio in Latinum translata. His accesserunt, Medicina animae, tam iis qui firma, quam qui adversa corporis valetudine praediti sunt, maxime necessaria, Ratio consolandi ob morbi gravitatem periculose decumbentes. D. Caecilii Cypriani [...] sermo de mortalitate. D. Chrysostomi Patriarchae Constantinopolitani, de Patientia [...] sermo, in-8, 87 cc., A-L8; Les Simulachres, & Historiees Faces de la Mort, contenant La Medicine de l’Ame, utile & necessaire non seulement aux malades, mais à tous qui sont en bonne disposition corporelle. D’avantage, La forme & manière de consoler les malades. Sermon de sainct Cecile Cyprian, intitulé de Mortalité. Sermon de S. Ian Chrysostome, pour nous exhorter à patience [...], in-8, 84 cc., A-K8, L4. Cfr. Baudrier, V, pp. 184-6, Harvard 1964, I, nn. 285, p. 353. E’ lo stesso Jean, nella prefazione all’edizione italiana delle Imagines del 1549 (c. A2v) ad informarci che l’edizione latina era apparsa prima di quella francese.
Images, cc. A2r-v. Spesso confuso con il genero di Martin Lutero, George era invece figlio di Nicolas Omler, un compagno di scuola di Lutero, originario di Mansfeld. Anche George divenne amico di Melantone e di Lutero che nel 1539 lo descriveva come “juvenis optimus et poetica vena insignis”. Proprio nel 1539 Omler aveva composto i versi latini per le Biblicae historiae magno artificio depictae, una serie di xilografie copiate in parte dalle tavole di Holbein per l’Antico Testamento, pubblicate a Francoforte. Fu forse la lettura di quest’opera che suggerì ai Frellon di rivolgersi a lui per la traduzione dei versi francesi di Corrozet. Non vi sono prove inequivocabili della paternità della traduzione, che potrebbe essere anche opera di Georgius Aemilius. Cfr. Zemon-Davis 1956, p. 127.
Images, cc. A2r-v
La fonte di tali saggi é da identificarsi in un saggio del tedesco Urbanus Rhegius (1498-1541, un prete cattolico che ancora fervente sostenitore dell’amico e maestro John Eck nel 1519, nel 1521 era già un dichiarato seguace di Lutero. Nel 1529, quando pubblicò ad Augusta il saggio dal titolo Seelen artzey fur gesund und kranken, era diventato pastore luterano, si era sposato e aveva già all’attivo alcuni scritti propagandistici. Dopo la dieta di Augusta, Rhegius divenne una figura centrale nell’organizzazione della vita religiosa luterana a Lüneberg. L’opera ebbe numerose riedizioni in tedesco, una traduzione in basso tedesco (Magdeborch, 1530) e una in latino, opera di Johannes Freder, stampata a Wittemberg da Schirlentz nel 1537. Cfr. Catalogue British Museum, vol. 45 e vol. 47, p. 699; G. Ahlhorn, Urbanus Rhegius, Leben und ausgewälte Schriften, Elberfeld, 1861, p. 357, n. 16, G. Franz, Huberinus-Rhegius-Holbein. Bibliographische und Druckgeschichtliche untersuchung der Verbreitesten Ttrost –und Erbauuungsschriften des 16. Jahrhunderts, Nieuwkoop, 1973, pp. 38-45.
Imagines, cc. D6r-E3v
Images, cc. cc. D6r-F3v
Imagines, E6v-E7r. Nelle Images il passo suona:
“Jesus Christ est venu au Monde pour sauver les pecheurs, desquelz ie suis le principal. Mon frere, aye foy en ses parolles, ainsi qu’a eu sainct Paul, et lors tu seras iustifie et sauvé” (c. F6v).
Imagines, cc. F3v-G1r; Images, cc. G2v-G8r.
Images, c. G7r. In Imagines, c. G1r, si legge:
“Homo christi misericordia fideus, propter fidem et Evangeli haustam, Christo domino suo, qui vera est vita, sic incorporatus est, ut ita dicam, et sic unitus et copulatus, ut ab eo separari et divelli non possit”.
Images, cc. G8r-v. In Imagines, c. G2r:
“Stultissimum est et pericolosum indulgere his cogitationibus de praedestinatione...”
Images, cc. H4v-H6r. Imagines, c. G7r:
“Siquidem haec duo, credere in Christum, et votis ardentibus fidem expetere, non multum inter se distant...”
Imagines, cc. G8r-H4r.
Images, cc. H7r-I6r.
I Frellon non erano nuovi a questo tipo di stratagemma: le Predicationes biblicae, da loro pubblicate a Lione nel 1538, sono apparentemente cattoliche, ma in realtà d’ispirazione protestante. Cfr. Baudrier 1964, V, p.177, Herminjard 1866-1897, V, p.7. La facoltà di teologia di Lovanio le condannò infatti nel 1546.
L’unica traduzione del testo del Rhegius ad essere apparsa fuori dai confini tedeschi prima di questa lionese é infatti quella ginevrina, condannata dalla facoltà di teologia dell’università di Parigi fra il 1542 e il 1543, in cui é poco probabile si trovassero allusioni cattoliche. La sezione dedicata alla consultazione del medico, aggiunta nell’edizione francese (c. E5r), comprende persino un passo che ci piace pensare ispirato da Michel Servet, all’epoca correttore nella bottega dei Frellon:
“Et pour dire le vray, il ny a rien qui decore plus une cité, que le medecin de bonne conscience et de ferme erudition”
Cfr. Zemon-Davis 1956, p. 126, note 157 e 158.
Images, c. I 7r ss.; Imagines, cc. H 5r ss. La paternità e la provenienza di questo saggio sono ignote.
Zemon-Davis 1956, p. 125
Ibidem, p. 127
Imagines mortis his accesserunt, epigrammata, è Gallico idiomate a Georgio Aemylio in Latinum translata. Ad haec, Medicina Animae, tam iis qui firma, quam qui adversa corporis valetudine praediti sunt, maxime necessaria. Ratio consolandi ob morbi gravitatem periculose decumbentes. Quae his addita sunt, sequens pagina commonstrabit, Lugduni, Sub Scuto Coloniensi, 1545, in-8, 84 cc., A-K8, L4. Il corredo illustrativo ripropone le 41 xilografie dell’edizione 1542 con l’aggiunta a c. I 7v dell’immagine dell’accattone storpio. Il passo biblico e la sua fonte sono però ora in carattere corsivo e disposte intorno all’immagine. Woltmann cita un’altra edizione dello stesso anni con gli undici nuovi soggetti che saranno poi ripubblicati nelle edizioni del 1547. Cfr. Brunet 1860-64, III. 255; Baudrier 1954, V, p. 198; Brun 1969, p. 236; Woltmann 1876, II, p. 177, d; Mortimer 1964, n. 286, p. 353-4.
Imagines mortis, Duodecim Imaginibus praeter priores, totidemque inscriptionibus, praeter epigrammata e Gallicis a Georgio Aemylio in Latinum versa, cumulatae. Quae his addita sunt, sequens pagina commonstrabit, Lugduni, Sub Scuto Coloniensi, 1547, in-8, 96 cc., A-M8. Quest’edizione comprende 53 xilografie: le 41 dell’edizione Trechsel del 1538, quella aggiunta nell’edizione 1545 e undici nuovi soggetti collocati alle cc. C6v-D4r seguiti dal “Giudizio finale” e dal “blasone della Morte”. Le citazioni bibliche sono in carattere romano e le legende in versi in corsivo. La seconda edizione latina presenta la variazione del titolo in Icones mortis [...], 88 cc, A-L8. Il testo appare interamente ricomposto, ma il corredo illustrativo é il medesimo. Come si diceva (cfr. nota 46), nello stesso 1547 i Frellon pubblicarono due edizioni delle tavole holbeniane dedicate all’Antico Testamento, variandone il titolo in modo da farlo cominciare con il medesimo appellativo di Icones [Historiarm Veteris Testamentis]. Cfr. Brunet 1860-64, III.256; Baudrier 1964, V, pp. 209-210; Woltmann 1876, II, p. 177, f-g, Mortimer 1964, nn. 287-8, pp. 354-6.
Les Images de la Mort, Aux quelles sont adioustées douze figures. Davantage, La Medecine de l’Ame. La Consolation des Malades. Un Sermon de Mortalité, par sainct Cyprian. Un Sermon de Patience, par sainct Iehan Chrysostome, A Lyon, A l’Escu de Cologne, chez Iehan Frellon, 1547, in-8, 104 cc, A-N8. Corredo illustrativo di 53 xilografie come nelle edizioni latine dello stesso anno. Le citazioni bibliche, che nell’edizione del 1538 erano in latino ora sono state tradotte in francese. Cfr. Brunet 1860-64, III. 255, Suppl. I.648; Baudrier 1964, V, p. 210; Brun 1969, p. 236, Mortimer 1964, n. 289, p. 356.
Cfr. infra
Les Images de la Mort, Auxquelles sont adioustees dixsept figures. Davantage, La Medecine de l’Ame. La Consolation des Malades. Un sermon de Moralité, par saint Cyprian. Un sermon de Patience, par saint Iehan Chrysostome, A Lyon, par Iehan Frellon, 1562, in-8, 106 cc. A-B8, C10, D-N8. Stampata dal protestante Symphorien Barbier su istanza di Jean Frellon, che nel frattempo aveva venduto i suoi torchi. In questa edizione le tavole raggiungono il totale di 58: le 41 dell’edizione Trechsel, le dodici aggiunte nelle edizioni apparse tra il 1545 e il 1547 e cinque nuove. Citazioni e legende entrambe in francese e in carattere corsivo. Cfr. Brunet 1860-64, III.256, Suppl. I.648; Baudrier 1964, V, p. 259; Woltmann 1876, II, p. 177, l; Mortimer 1964, n. 291, pp. 357-8. Tra l’edizione Frellon del 1549 e questa del 1562, le tavole di Holbein erano state pubblicate in due altre occasioni: nel 1554 a Basilea e a Colonia nel 1555. L’edizione basilese appare sotto il titolo di Icones mortis, con l’indirizzo del luogo di stampa ma alcuna indicazione utile a identificarne lo stampatore o l’editore. Non si tratta di una ristampa esatta, ma riprende strettamente l’edizione Frellon 1547. Non solo le tavole ma anche le iniziali, forse con un’unica eccezione, provengono dal fondo tipografico dei lionesi: vi sono dunque buone probabilità che si tratti di un’edizione stampata dai Frellon a Lione e destinata alla piazza di Basilea. Cfr. Baudrier 1964, V, pp. 156-7, e p. 160 per i rapporti dei Frellon con Basilea; Mortimer 1964, n. 288, p. 355-6 e cap. I.2. L’edizione di Colonia, invece, stampata dagli eredi di Arnold Birckmann, segue l’impianto tipografico di quella latina dei Frellon del 1547, cui aggiunge due testi di Erasmo, il De preparatione ad mortem e la Declamatio de morte, e contiene copie liberamente tratte dagli originali di Holbein, per la maggior parte invertite e di dimensioni più ampie, numerose delle quali firmate con il monogramma di Arnold Nicolaï. Cfr. Mortimer 1964, n. 287, pp. 354-5.
La Medecine de l’Ame fu condannato dalla Facoltà di teologia dell’Università di Parigi (dicembre 1542-marzo 1543), la sua versione olandese, Een medecyn der zielen, da quella di Lovanio (1546), la Medicina del anima spagnola dall’indice del Valdes (1559), le versioni latina e quella italiana nelle rispettive due dell’Indice tridentino (1564). Curiosamente in nessun caso il nome del Rhegius é associato al testo, nonostante compaia nella sua bibliografia in vari indici, per esempio in quello romano l’Index auctorum et Librorum, del 1560. Cfr. Zemon-Davis 1956, p. 128, nota 163.
Cfr. Zemon-Davis 1956, note 164-166.
Simolachri, historie, e figure de la morte. La medicina de L’anima. Il modo, e la via di consolar gl’infermi. Un sermone di San Cipriano, de la mortalità. Due orationi, l’una a Dio, e l’altra a Christo. Un sermone di S. Giovan chrisostomo, che ci essorta a patienza. Aiuntovi di nuovo molte figure mai piu stampate, In Lyone appresso Giovan Frellone, 1549, in-8, 112 cc. Il corredo illustrativo é composto dalle 53 xilografie già apparse nelle edizioni del 1547. Le citazioni bibliche sono in latino, i versi sottostanti alle tavole sono la traduzione italiana di quelli francesi pubblicati dai Trechsel nel 1538 e successivamente dai Frellon. Come vedremo, il Frellon rende al Valgrisi la pariglia, utilizzando qui la traduzione italiana dei versi e dei saggi che il veneziano aveva fattto approntare per la sua edizione pirata di quattro anni prima. Jean Frellon deve aver pensato di rivolgere questa traduzione al folto pubblico di italiani residenti a Lione - banchieri, mercanti e operai della nascente industria della seta – come, forse, direttamente al mercato italiano. Cfr. Brunet 1860-64, III.256, Supll. I.648; Baudrier 1964, V, p. 216; Woltmann 1876, II, p. 177; Mortimer 1964, n. 290, pp. 356-7.
Simolachri, Historie, e Figure de la Morte, cc. A 2r-v.
Simolachri, historie, e figure de la morte, cc. M4v-M6v: Oratione a’ Dio da dirsi appresso l’ammalato mentre si visita; cc. M7r-M8r: Oratione a Christo, quando l’ammalato e gravemente oppresso, traduzione de la Ratio consolandi ob morbi gravitatem periculose decumbentes delle edizioni Frellon 1542 e 1545.
A parlare é il Pietro Perna di fantasia di Luther Blisset (Q, Torino, 2000, p. 398) e siamo, sebbene nella finzione letteraria, significativamente nel 1545.
Cfr. His 1870, p. 485 e supra, nota 29. I Vaugris avevano legami familiari anche con Conrad Resch, lo stampatore parigino trasferitosi a Basilea, presso il quale Jean Frellon aveva svolto il suo apprendistato e che poteva vantare una arca disegnata da Holbein, cfr. cap. I.2.
Cfr. Grendler 1983, pp. 123- 159 ; Rozzo 1993, pp. 32-33.
Ph. Melanchton, Opera quae supersunt omnia, III, ed. C. G. Bretschneider, Halis Saxonum, 1836, ep. 2014, coll. 1096-97; Melanchthonus Briefwechsel, Band 3 bearbeitet von H. Scheible, Stuttgart, 1979, n. 2507, p. 89.
Cfr. cap. I.3.
Cfr. A. Prosperi, La crisi religiosa in Italia nel primo Cinquecento, in Lorenzo Lotto 1998.
La biblioteca di Antonio, passò infatti, dopo la sua morte avvenuta nel 1555, nelle mani del fratello Matteo. Della biblioteca di quest’ultimo, deceduto nel 1572, abbiamo la fortuna di possedere l’inventario, conservato al Museo Correr di Venezia. Ipotizzando che molti degl’800 volumi di cui era composta, provenissero dalla raccolta di Antonio, é interessante notare che oltre a 40 codici per la più parte greci, molti libri italiani e varie opere geografiche, compaiano un trattato “sopra le profezie di Daniele” di Ecolampadio, il De vera ecclesiarum doctrina di Martin Butzer, la Institutio Christianae Religionis di Calvino, la Bibliotheca di Conrad Gesner, la “Bibia de Mustero in hebraica et latina lingua”, il Della naturale philosophia di Antonio Brucioli, il De vanitate scientiarum di Agrippa, la “grammatica” di Erasmo. Cfr. Zorzi 1991, pp. 133-34.
Simolachri, historie, e figure de la morte, cc. A2r-A4r. Riportata per intero in Appendice 5.4
Circa la qualità dell’intaglio, quel che é certo é che essa non é apprezzabile sulla riproduzione dell’edizione fornitami dalla Biblioteca Vaticana – una scansione del microfilm, e non dell’originale, come il prezzo avrebbe largamente preteso - che ha il solo pregio di ridare verve alla satira anticlericale dell’intera serie. In base agli appunti presi durante la consultazione in situ, e al confronto, eseguito però con delle riproduzioni digitali delle tavole dell’edizione Frellon del 1547, mi sento di poter affermare che l’intaglio é parimenti raffinato, ma lascia intendere un uso un po’ diverso dell’ombreggiatura, che, nella sua maggior regolarità e nel tratto più fitto delle linee, dà un effetto più marcato all’insieme. L’incisore ha chiaramente copiato anche il monogramma “HL” firma di Lützelburger presente sul medaglione del letto della Duchessa (c. C6v).
Cfr. Rozzo 1994, p. 30.
Cfr. cap. II. 6.
Cfr. Mortimer 1964, n. 291, pp. 357-58. Per le successive edizioni della Danza macabra di Holbein e le riproduzioni in fac-simile, cfr. Hollsten’s XIVA, p. 206. La vignetta raffigurante gli scheletri musicanti serve ancora da frontespizio per l’edizione dei versi di Paul Claudel per La Dance des Morts di Arthur Honegger, pubblicata a Parigi da Maurice Senart del 1940.
Fabio Glissenti (circa 1542-1615), laureato in medicina a Padova esercitò la professione a Venezia, ove visse con i fratelli Cornelio e Glissenzia (!), dedicandosi parallelamente alla redazione di numerose opere letterarie apprezzate e ristampate durante tutto il Sei e Settecento. I dialoghi, dedicati rispettivamente alla Ragione (Filologo), al Senso (Estisiphilo), alla Volontà (Eleuthero), all’Opinione (Filodoxo) e alla Verità (Alithinoo), si presentano come i cinque atti di una tragedia : essi prendono le mosse da una disputa avente come oggetto la morte, tenuta da due vecchi amici, il Filosofo e il Cortegiano, già studenti a Padova, incontratisi a Venezia. Mentre il primo sostiene la positività della morte, il secondo é convinto che il pensiero di essa non possa in alcun modo riuscire gradito. I dialoghi sono allegorie dei Cinque sensi che guidano la condotta dell’uomo (Vista, Gusto, Udito, Olfatto, Tatto) e mostrano come l’uomo agisca seguendo per lo più i suoi appettiti, spesso il senso comune, raramente la ragione. Le novelle, quasi tutte allegorie della vita umana e della morte, contengono invece molti spunti tratti dalla tradizione popolare: l’autore ne giustifica la presenza affermando nella prefazione che, per trattare un argomento gravoso come quello della morte, sia opportuno inserire narrazioni di carattere piacevole, seguendo in questo l’esempio del buon medico di lucreziana memoria che, allo scopo di somministrare al malato l’amara medicina, ricorre a un salutare inganno. Conclude il tutto una dissertazione sulla pietra filosofale, dal titolo Breve trattato nel quale moralmente si discorre qual sia la pietra de’ filosofi, che si immagina consegnata al filosofo al cortigiano al momento del commiato. In essa l’autore mette in discussione le aspirazioni degli alchimisti relative alla trasformazione dei vili metalli in oro e argento e i presunti benefici da essa derivanti. Sull’opera, su cui si ha l’intenzione di tornare ad occuparsi, cfr. McClure 1998 che ne offre un’approfondita analisi dal punto di vista testuale e contenutistico; Mortimer 1974, I, n. 309, pp. 307-9; Pesenti 1956, p. 26; Sul Glissenti, cfr. A. L. Saso, ad vocem, in DBI LVII, pp. 406-8; G. B. Passano, I novellieri italiani in prosa, 2a ed. I, Torino, 1878, pp. 368-370. F. Neri, Le moralità di Fabio Glissenti, in Scritti vari di erudizione, Torino, 1912, pp. 187-196 ; U. Vaglia, Fabio Glissenti e la sua opera letteraria, in “Memorie dell’Ateneo di Salò”, XVI (1952-54), pp. 143-151 ; per la bibliografia delle sue opere, cfr. M. Napoli, L’impresa del libro nell’Italia del Seicento, Napoli, 1990, pp. 107-110
c. Pp8v. Mortimer 1974, I, p. 309.
Cfr. Kurtz 1934, p. 197.