Il Decamerone di M. Giovan Boccaccio, nuovamente alla sua intera perfettione, non meno nella scrittura, che nelle parole ridotto, per Girolamo Ruscelli. Con le dichiarationi, annotationi, et avvertimenti del medesimo, sopra tutti i luoghi difficili, regole, modi, et ornamenti della lingua volgare, et con figure nuove e bellissime, che interamente dimostrano i luoghi, ne’ quali si riduceano ogni giornata a novellare. Et con un vocabolario generale. [Con proprio frontespizio: Vocabolario generale di tutte le voci usate dal Boccaccio]
In Venetia : appresso Vicenzo Valgrisio, alla bottega d’Erasmo, 1552 (Nella II parte: In Venetia : per Giovan Griffio, ad istantia di Vicenzo Valgrisio, 1552)
In –4 ; 2 voll. Solitam. rilegati insieme I: [6] c.,487 [1] p.,[6] c.; II: [28]c.
Segn : I: *6 A-Z8 Aa-Gg8 Hh4 *6; II: A4 b-g4
Cc. *2r-*5v: Al molto illustre et honoratissimo signore, il signor conte Giovan Battista Brembato (v. Appendice 6.17). Girolamo Ruscelli, Di Venetia, il di III d'Aprile del 1552 (v. Appendice 6.17); cc.*6r-v: Ai lettori Girolamo Ruscelli (v. Appendice 6.17); cc.A1r-A3v (pp. 1-6): La Vita di M. Giovan Boccaccio descritta da M. Francesco Sansovino; pp. 7-9: proemio; pp. 10-487 : testo delle X Giornate con annotazioni al fine [pp. 483-5: L’Autore alle giovani donne] ; c. HH4v: bianca; cc. *1r-*5v: La tavola di tutti gli argomenti o titoli, o sommarii delle cento novelle in questo libro contenute; cc. *6r-v: bianca;
[II parte :] Vocabolario generale di tutte le voci usate dal Boccaccio, bisognose di dichiaratione, d’avvertimento, o di regola. Per Girolamo Ruscelli ; cc. A2r-v: Al molto Magnifico et honoratiss. Sig. il S. Giovandomenico Roncale. Girolamo Ruscelli; cc. A3r-g3v: Vocabolario generale di tutte le voci usate dal Boccaccio, bisognose di dichiaratione, d’avvertimento, o di regola, con prefazione e poi su due colonne in ordine alfabetico; c. g3v: Giovan Griffio a’ lettori (v. Appendice 6. 17) ; c. g4r: Errori importanti, nel testo o corpo del libro / Errori nelle postille et annotationi / Nel vocabolario.
Illustrazioni
Dieci illustrazioni xilografiche a piena pagina (cm. 10,6x7,6 ca), una per ogni canto, che in tutte quattro le edizioni sono localizzate a pp. 10 (c. A5v), 52 (c. D2v), 122 (c. H5v), 176 (c. L8v), 224 (c. O8v), 271 (c. R8v), 298 (c. T5v), 339 (c. Y2r), 397 (c. BB7r), 428 (c. DD6v), inserite in cornice (cm 13,7x9,9 ca).
Reimpiegate in :
Il Decamerone di M. Giovan Boccaccio
Edizioni in-4 pubblicate dal Valgrisi nel 1554, 1555, 1557, 1565, 1568, 1572 e 1573
La storia del “Boccaccio visualizzato”, inteso tanto come presenza del Boccaccio nelle arti figurative, quanto come illustrazione delle opere boccacciane e in primis del Decameron, é stata ormai definitivamente tracciata dall’omonima raccolta di saggi, scaturita dalle ricerche più che cinquantennali di Vittore Branca, fondate sull’assunto già burckhardtiano che nessun altro poeta o intellettuale, come il Boccaccio, neppure il Petrarca, esercitò nell’arte una pari influenza anche tematica652.
E’ nell’Europa del primo secolo della stampa che la raccolta delle cento novelle raggiunge limiti insuperati di adattabilità, rappresentando in ogni modo un grande successo editoriale, cui ha sicuramente contribuito, come pizzico di salsa piccante, l’oscenità di alcune, sopra cui si scatenarono clamorosi e mai finiti processi censorei nell’età della Riforma e Controriforma: valeva allora quello che vale ora per la pubblicistica moderna per il lancio commerciale di un prodotto di consumo: che se ne parli bene o male non importa, purché se ne parli.
La nostra trattazione si concentrerà dunque su quanto l’“incisione al servizio del Decameron”653 produsse tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento nei centri nei quali l’opera suscitò maggiori consesi nel campo dell’illustrazione grafica, ovvero Parigi, Strasburgo e, soprattutto, Venezia e Lione.
L’iniziativa della prima, misteriosa edizione del Decameron, detta “Deo Gratias”, dall’invocazione con la quale termina il testo, privo di ogni indicazione di luogo, di anno e di stampatore é stata attribuita – datata al 1470 - a Francesco del Tuppo, l’editore napoletano che, in collaborazione con lo stampatore Sixtus Riessinger, pubblicherà otto anni dopo la sola edizione figurata quattrocentesca di un altra opera boccacciana, il Filocolo, il primo libro illustrato a stampa uscito a Napoli, arricchito di quarantuno xilografie654. Sarebbe dunque questo Decameron il primo libro in volgare stampato in Italia da un tipografo ancora poco esperto, eppure sorprendentemente determinato nella realizzazione di un’opera di tanto impegno: un in-folio di 254 carte che, nell’esemplare della Biblioteca Nazionale di Firenze, é impreziosito da iniziali miniate.
Ma se a Napoli spetta, come sembra, questa priorità, é a Venezia, nel centro tipografico più avanzato d’Italia, che il Decameron venne ripetutamente pubblicato a partire dal 1471, data della pregevole edizione di Cristofaro Valdarfer, unica opera in volgare prodotta da questo stampatore655. Da quell’anno alla fine del secolo cinque tipografi diversi stamparono a Venezia il capolavoro del Boccaccio che, a giudicare dal numero delle edizioni italiane conosciute – undici in tutto - e dall’estrema rarità degli esemplari pervenutici, fu senza dubbio il libro in volgare più letto del Quattrocento656. Bisogna giungere tuttavia all’ultimo decennio del secolo per avere – dopo le stampe del Valdarfer, di Antonio da Strà (1481) e di Battista Torti (1484) – la prima edizione italiana illustrata del Decameron uscita a Venezia dalla bottega di Giovanni e Gregorio De Gregori il 20 giugno 1492.
Come nel caso di molte altre opere del Boccaccio – prime fra tutte il De mulieribus e il De casibus virorum illustrium – le più antiche edizioni illustrate erano uscite al di là delle Alpi, in Francia e in Germania657.
L’editio princeps della traduzione francese di Premierfait, il Livre des cent nouvelles, stampata a Parigi da Jean Dupré per Antoine Vérard nel 1485, era illustrata con un solo legno, ripetuto per dieci volte all’inizio di ogni giornata, raffigurante il Boccaccio intento a scrivere in un elaborato scriptorium quasi en plein air, e, al di là della soglia, i dieci giovani della brigata raccolti intorno alla “regina”, le sette donne sedute e i tre giovani in piedi, rivolti verso l’autore658.
E’ invece uno stampatore di Augsburg, Anton Sorg, a portare a compimento la difficile impresa di un’edizione completamente illustrata del Decameron. Pur ammettendo che la traduzione tedesca delle cento novelle, opera del misterioso Arrigo e già pubblicata nel 1473, fosse stata concepita inizialmente come un testo umanistico destinato a divertire una committenza d’élite, l’edizione figurata del Sorg appare ormai indirizzata, a giudicare anche dal complesso della sua produzione, a quel vasto pubblico borghese e popolare per il quale il libro era stato originariamente concepito. Nonostante il livello qualitativo del catalogo di Sorg sia in genere assai inferiore a quello di altri stampatori locali – i disegni sono scarsamente originali quando non si tratta di semplici copie, e sono spesso intagliati senza molta accuratezza, si deve riconoscere proprio nella traduzione del Decameron (Cento novelle. Das seind Die hundert neuen fabelen), datata 18 ottobre 1490, uno dei suoi capolavori659.
Le 88 xilografie sono di qualità diseguale e riferibili a più di una mano, ma restano comunque fra le migliori che il Sorg abbia mai stampato. Disposte talvolta anche a due per pagina, intagliate con una tecnica ombreggiata piuttosto evoluta, ravvivata qua e là dall’intaglio a fondo nero, riflettono, per la maggior parte, l’atmosfera realistica dell’ultimo Quattrocento tedesco, specie nei nudi pieni, corposi e floridi; mentre altre, ancora rivolte, verso formule tradizionali e modi ormai desueti, rieccheggiano le illustrazioni delle Fabulae di Esopo che lo Zainer aveva pubblicato ad Ulm verso il 1477 e quelle del De claris mulieribus dello stesso stampatore, che il Sorg aveva fatto copiare per la sua edizione del 1479. Nel frontespizio, decorato dalla matrice più grande, la brigata dei novellatori é raffigurata in una fastosa aula gotico-fiorita, coperta da volte a crociera, evidentemente la chiesa di Santa Maria Novella: le sette gentili donne, dalle elaborate acconciature, dagli abiti ricchi di panneggi, conversano mestamente sedute in cerchio, con un rosario fra le mani, mentre i tre giovani giungono da sinistra [Fig.1]. Nelle piccole vignette a illustrazione delle novelle, l’attenzione é concentrata su di un’unica scena, nella quale la fondamentale dimensione narrativa del testo é quasi sempre assente, e in cui talvolta l’estrema volontà di sintesi riduce l’immagine a composizione araldica. Alcune, le più felici, sono caratterizzate da un tentativo di rappresentazione realistica, da una notevole attenzione per i dettagli e un’efficace resa delle espressioni.
Ritorniamo ora a Venezia e al Decameron dei fratelli De’Gregori, un in-foliostampato su due colonne e illustrato da centotredici xilografie, datato 20 giugno 1492, archetipo di tutto un gruppo di edizioni figurate veneziane, con uno zampino a Firenze e i piedi a Lione.
Il frontespizio architettonico, riccamente ornato e ravvivato da giochi di putti e animali inquadra l’inizio del testo e include una xilografia, di un disegno di chiara e armoniosa misura compositiva, raffigurante un giardino “d’amore” in cui stanno seduti a semicerchio i dieci novellatori, tutti rigorosamente contrassegnati dai loro nomi incisi sotto ai loro piedi, intrattenuti dalla nobile musica del liuto di Panfilo e della lira da braccio di Fiammetta660 [Fig.2].
Le singole giornate sono precedute da grandi xilografie, larghe quanto due colonne di testo, che si riferiscono alla “cornice” del Decameron, tratte da due legni diversi: il primo, usato per introdurre le giornate poste sotto la signoria di una donna - e ripetuto quindi sette volte - in cui si vedono, attraverso le due grandi arcate di un portico (un richiamo al “palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge” descritto nell’introduzione), a sinistra i giovani raggruppati in piedi intorno alla “regina”, e, a destra, di nuovo seduti in due file ai lati del suo “trono” [Fig.3]; nel secondo legno, ripetuto tre volte, gli archi sono sostituiti da aperture architravate e sono raffigurati, a sinistra, un giovane che suona il liuto, circondata dalla “lieta brigata”, e, a destra, i giovani seduti attorno al re ai piedi di una fontana661 [Fig.4]. Infine, ogni novella é illustrata da una vignetta di piccolo formato, che ha la giustezza di una colonna e la precede, costituendo anche un richiamo visivo per il lettore. Una vignetta supplementare, che raffigura il Boccaccio intento a scrivere nel suo studio, compare due volte, all’inizio della sua Vita, redatta da Girolamo Squarzafico, che in questa edizione presede per la prima volta il testo delle novelle, e alla fine del libro, prima della “excusatione dello auctore”662
Quest’edizione é tradizionalmente considerata quale “esemplare risultato della contaminazione delle due tradizioni, [la realistico-narrativa, vivacemente libera, di tedesca consuetudine, e la decorativa, più propriamente italiana] – operata nella cultura sempre anacronistica e spregiudicata di Venezia, tesa, dopo la caduta di Costantinopoli, alla conquista della sua nuova via commerciale, cioé del mercato librario europeo”663. Certo, data la ricca ampiezza della decorazione dovette trattarsi di un’edizione indubbiamente costosa, mentre il tono delle vignette era decisamente popolare. La novità non doveva essere comunque tale da sconvolgere il pubblico: eppure non é da escludere che il libro sia stato un po’ un esperimento, tirato in pochi esemplari, almeno se possiamo usare come indicazione in questo senso l’esiguità numerica di quelli superstiti.
Distinzione, questa tra le due tradizioni, che ci riporta alla classificazione dell’intricato panorama della produzione xilografica veneziana tra l’ultimo decennio del Quattrocento e i primi due decenni del Cinquecento già tentato da Essling con il riferirsi a due principali modelli, che egli individuava nella Bibbia tradotta e commentata da Niccolò Mallermi e stampata da Giovanni Regazzo per Luc’Antonio Giunta nel 1490, per il cosidetto “stile popolare” - o “Mallermi”- e nel Polifilomanuziano del 1499, per lo “stile classico”664. Bipolarismo ripreso e approfondito da Poppelreuter665, che contrapponeva al “tipo Mallermi”, il “tipo Polifilo”, ispirato a fonti classiche, e successivamente consacrato da Hind che considerava questa distinzione fra “stile popolare” e “stile classico”, “vitale per la comprensione dell’illustrazione veneziana”, anticipando al Polifilo la nuova edizione della Bibbia nella traduzione del Mallermi ad opera di Guglielmo Anima Mia di Pian Cerreto, del 1493, quale esempio di quello stile classico, che avrebbe poi raggiunto il suo culmine, sei anni dopo, appunto, nell’Hypnerotomachia 666.
E in effetti, le vignette della prima Bibbia, pur basandosi per alcuni spunti compositivi su modelli tedeschi, in particolare quelli della Bibbia di Colonia stampata da Heinrich Quentell (1478-79 circa)667, sono i primi esempi di quel ricco filone illustrativo caratterizzato da un vivace spirito realistico e attualizzante, che predilige esclusivamente la raffigurazione di ambienti e costumi contemporanei, in cui rientrano le illustratissime Vitae Patrum di S. Gerolamo (Giovanni Regazzo per Luc’Antonio Giunta, 1491), le Decades di Livio (Giovanni Rosso sempre per Giunta, 1494), in cui si ritrovano alcune vignette apparse nella Bibbia, ma soprattutto le due edizioni della Commedia dantesca (Benali e De Piasi, entrambe del 1491) e il Novellino di Masuccio Salernitano pubblicato dai De Gregori solo dopo un mese il loro Decameron, di cui vengono reimpiegate alcune vignette668.
Il “tipo Mallermi” rappresenta nel suo insieme, non solo la creazione più significativa della xilografia veneziana anteriormente all’affermarsi del “tipo Polifilo”, ma forse in assoluto il prodotto più caratteristico e certamente quello più compiutamente espressivo dell’ambiente veneziano quattrocentesco669. In quest’ambito, quello del Decameron rappresenta il corredo più originale e organicamente concepito, dal momento che le sue illustrazioni appaiono tutte appositamente disegnate ed incise per l’edizione De Gregori con straordinaria cura e scrupolo di fedeltà nell’interpretazione visuale delle singole novelle670.
In queste xilografie sono state distinte due mani diverse: le migliori, le più vivaci e ricche di movimento sono, per unanime giudizio dei bibliologi, quelle contrassegnate dal monogramma “b”, che si devono ad un artista dal tratto sicuro e corretto e dalle composizioni eleganti, attivo per diversi stampatori e già distintosi della Bibbia del 1490 e della Commedia dell’anno dell’anno seguente671. In un secondo gruppo di legni si tende invece a riconoscere, in qualità di collaboratore del Monogrammista “b”, un incisore che collabora alla contemporanea edizione della Leggenda aurea stampata da Manfredo de’Bonelli nel 1492672.
Ma, come già faceva notare Dillon, si tratta di una distinzione nella quale non é stato mai chiaramente preso in considerazione il duplice apporto, da un lato, del “popular designer” - autore qui come nella Bibbia del 1490 e di tutte le opere ad esso collegata, dei disegni – dall’altro, dell’intagliatore, come sembra essere stato esclusivamente il Monogrammista “b”673.
Per questo periodo - che comprende all’incirca gli ultimi trent’anni del Quattrocento e i primi venti del secolo seguente, in cui sono ancora i miniatori, ormai semidisoccupati, a provvedere all’illustrazione e decorazione del libro fornendo i disegni agli xilografi e miniando occasionalmente frontespizi, iniziali e fregi su singoli esemplari a stampa - la migliore direzione di ricerca sembra proprio quella dell’indagine sulla continuità, nella tradizione illustrativa, tra miniatura e xilografia, approccio che, sulla base di numerosi indizi, gli studiosi della stampa e i bibliologi più avvertiti avevano cominciato già da tempo a seguire, ma cui ora gli studiosi della miniatura hanno apportato le prove più convincenti, si pensi solo alle ricerche su Benedetto Bordon, il miniatore padovano che svolse una documentata attività nel campo della stampa, continuando a lavorare per il libro anche dopo l’avvento della tipografia, miniando edizioni a stampa o fornendo disegni per gli xilografi674.
Sono state infatti le più recenti ricerche sulle connessioni fra miniatura e xilografia nella Venezia del tardo Quattrocento a condurre alla sicura identificazione del “popular designer” di Hind nel prolifico miniatore denominato “Maestro del Plinio di Pico”, dallo spendido codice della Historia naturalis, eseguito nel 1481 per Giovanni Pico della Mirandola, considerato uno dei più importanti monumenti della miniatura nord-italiana675. Come ha chiarito Lilian Armstrong, ricostruendone l’attività veneziana fra il 1469 e il 1495, il “Maestro di Pico”, proprio come Bordon, ha operato dapprima come miniatore di manoscritti, poi come decoratore e illustratore di incunaboli, e infine come disegnatore di xilografie, dominando con il suo stile la produzione illustrativa dei libri stampati nella prima metà degli anni novanta676. La vastità del suo catalogo e le differenze qualitative non sempre imputabili alla traduzione incisoria, lasciano pensare, nonostante la sostanziale omogeneità di stile delle vignette - nella Bibbia Mallermi, come nel Decameron - all’intervento di altri disegnatori e, in ogni caso, alla collaborazione di una bottega o almeno di uno o più aiuti. Nell’affrontare la visualizzazione del testo boccacciano, il Maestro, é tra l’altro messo di fronte alla necessità di rinunciare pressoché completamente al suo repertorio iconografico più tipico: se nel frontespizio si ritrova ancora la fantasiosa combinazione di disparati elementi architettonici, ornamentali e figurativi d’ispirazione classicheggiante, come putti ludenti, caproni, arieti ed animali fantastici nel più pieno stile lomabardesco - ispirazione che si ritrova anche nelle incisioni più grandi, poste all’inizio di ogni giornata, nella raffigurazione degli elementi paesistici e nelle eleganti composizioni architettoniche-decorative che inquadrano i raduni della “lieta brigata” - nelle vignette, invece, si dispiega un mondo quasi del tutto nuovo, in cui l’artista raggiunge il culmine di quel linguaggio narrativo duttile e complesso e di quella capacità di rappresentazione realistica della vita quotidiana che aveva già messo a punto nella Bibbia e nelle Vite di sancti Padri 677.
Queste illustrazioni così vivaci fanno dell’edizione De Gregori l’equivalente a stampa di quel tipo di codice dell’opera, che era stato di gran lunga il più diffuso negli ambienti borghesi e mercantili, come al modello più adatto al tipo di pubblico cui i suoi editori intendevano rivolgersi, a riprova di come in ogni fase della stampa primitiva, dietro e accanto al libro impresso, fosse sempre presente il manoscritto, non solo, chiaramente, come fonte del testo, ma soprattutto come modello esteriore dell’“oggetto libro”678.
Nelle vignette relative alle novelle, l’illustratore supera con disinvoltura e spesso con originalità la difficoltà di riassumere visivamente nel piccolo riquadro, largo come una colonna di stampa, una novella in cui lo scrittore può aver fatto spaziare i personaggi per terra e per mare, o semplicemente delle scene distanti nello spazio e nel tempo, ma soprattutto da prova di un’attenta ed intelligente individuazione dei momenti salienti del racconto. La ristretta superficie dell’immagine é suddivisa in molti casi in due o tre parti, con una grande varietà di soluzioni (sistema di riquadri “a scatole cinesi”, schema triangolare con due scene in primo piano e una terza nel fondo, scalare in profondità degli episodi con un percorso semicircolare, dal primo piano allo sfondo) per permettere la visualizzazione di trame narrative complesse679.
I termini di paragone più pertinenti ed esemplari per questi schemi e modi di visualizzazione narrativa sono sicuramente da ricercare nelle modalità di narrazione spaziale proprie del teatro, con l’uso di sistemi di quinte, pareti divisorie, palchi, edicole e recinti in varie e coerenti combinazioni, atte a rappresentare simultaneamente più episodi, a loro volta già da tempo variamente elaborati dalla miniatura e dalla pittura narrativa fin dai tempi di Giotto. Riferimento importante, quello con il teatro e alle sacre rappresentazioni, che ha, nel Quattrocento, proprio a Venezia, un significativo sviluppo, studiato in particolare in rapporto alla pittura del Carpaccio, nei cui teleri – si pensi alle Storie di Sant’Orsola - si ritrova il medesimo uso della tecnica della “segmentazione” dell’episodio, dell’impostazione “in distanza laterale e in profondità”, gli stessi artifici che regolano il “ritmo delle immagini” e i “tempi della narrazione dipinta”680.
Ma é soprattutto nello spirito sensibile e acuto di osservazione realistica che si coglie nelle minute espressioni dei volti, nello sforzo di caratterizzazione dei personaggi, nella naturalezza dei gesti, nella cura meticolosa dei dettagli anche i più minimi, nel soffio vitale veramente palpabile in cui si ritrova la ricchezza e la varietà narrativa del testo, quella “prepotente bifrontalità del mondo del Decameron – comico e tragico, volgare e cortese, vizioso ed eroico”, colta con efficace immediatezza nonostante la scala estremamente ridotta e il linguaggio scarno e abbreviato della tecnica xilografica.
La testimonianza più sicura del successo di quest’edizione é data dalla serie dai successivi Decameron figurati che, per oltre trent’anni, riprodurranno quel prototipo e quelle immagini, dapprima reimpiegando e riadattando i legni originali del 1492, e, via via, attraverso copie ed imitazioni681.
Il nuovo secolo é per il Boccaccio un età d’oro e particolarmente in Francia: il Vérard, memore del successo dell’edizione del 1485 e del Cent nouvelles nouvelles dell’anno successivo, pubblica nel 1500-1503 l’edizione francese più riccamente illustrata e più rara e rappresentativa del periodo, il Boccace des Cents nouvelles, che si fregia di ben novantasette vignette xilografiche. Tranne l’elaborata scenetta d’apertura - raffigurante Boccaccio che presenta il suo libro - e quella, alla fine dell’indice, con Boccaccio in atto di scrivere, in realtà, le vignette sono le stesse del Therence en francois, pubblicato senza data in quegli stessi anni, ripetute più volte e senza nemmeno che i nomi nei cartigli siano stati stuccati682. Passeranno quarant’anni prima che a Parigi si veda un’altra edizione illustrata di un certo significato nel panorama europeo della produzione figurata e di una certa qual influenza nel gusto; nel frattempo cominciavano a diffondersi le prime edizioni popolari o più commerciali, prive però d’illustrazioni683.
Nel frattempo gli editori veneziani dovevano aver capito che un Decameron senza illustrazioni non poteva essere molto stimolante e ammiccante per il grande pubblico – il che chiarisce come la produzione editoriale popolare non sia un fenomeno spontaneo ma molto più spesso il frutto dell’industrializzazione degli editori – così, abbandonando le troppe impegnative vignette per tutte le novelle, si sceglie d’illustrare una Giornata alla volta, limitandosi ad un corredo di una decina di tavole, scelta che diventerà una vera e propria tradizione per le edizioni successive dell’opera.
L’iniziatore é Melchiorre Sessa, che, presumibilmente in coedizione con Niccolò Zoppino, stampa il Decameron in data 24 novembre 1531684. Il frontespizio, una ricca cornice rettangolare firmata in una base spezzata in alto dal monogrammista ‘GB’ é di reimpiego, essendo già stato utilizzato per le Opere d’amore di Serafino Aquilano685, ma é comunque congeniale agli umori boccacciani – e boccacceschi – con il suo pullulare di figurette di donne, baccanti, satiri, vecchi cornificati, amorini bendati e piccoli paesaggi insaporiti da irridenti spunti popolareschi. Nelle dieci vignette, quasi quadrate, che introducono le altrettante giornate lo stile é nettamente più aristocratico, ma, sebbene esse appaiano concepite da più disegnatori e realizzate da incisori di formazione diversa - alcuni di uno stile più desueto, altri decisamente pù spigliati - sono pervase da un gusto entusiasta per il racconto, che mette a loro agio le figurette ne paesaggi come negli spazi architettonici. Le vignette delle prime due giornate raffigurano la lieta brigata, mentre le altre otto sono dedicate ad episodi delle novelle: ristampata o liberamente copiata questa serie darà inizio ad una tale cristallizzazione tematica e iconografica che per alcune “giornate” non si uscirà più dallo schema della novella che é stata qui presa a campione686 .
Di nuovo zigzagando per l’Europa, nel tentativo di seguire il filo rosso della cronologia, ritroviamo il Decameron protagonista di una straordinaria interpretazione grafica ad Augsburg, dove l’editore Stayner decise di lanciarsi nella produzione di edizioni figurate delle opere del Boccaccio, appoggiandosi a Hans Leonard Schäufelein, uno degli incisori più richiesti di quegl’anni. Nel 1535 é appunto la volta del Dekameron, per cui Schäufelein incide settanta vignette nel piccolo formato comune delle edizioni tedesche illustrate dai Beham e da Georg Pencz, in uno stile che, pur conservando il ductus düreriano, accoglie i nuovi spunti di realismo e naturalismo “antirinascimentale” propri dell’arte lombarda contemporanea, di Gaudenzio Ferrari, Romanino, Aspertini, Lotto687. Le immagini sono sagaci e ricche di mordente, di un gusto popolare per l’attenzione al dettaglio realistico ed autentico, robusto, rustico, della vita quotidiana di personaggi – numerosi nudi femminili, pieni e appetitosi, fratoni gaudenti in attesa degli strali della Riforma, comari astute, cavalieri e lanzichenecchi tronfi e panciuti, borghesi compiaciuti del loro status e popolani ridanciani - che parlano dialetto proprio negli stessi anni di Rabelais, figure, come il paesaggio accogliente e il mondo cordiale, fatto d’interni fantasiosi e confortevoli, in cui si muovono, create da un segno “sempre sull’orlo d’arricciarsi in violenta, esagitante “maniera”, come chi é sempre sull’orlo del bicchiere decisivo per la sbornia”, per riproporre le riflessioni che a Giovanni Testori suscitava Romanino688. Un’interpretazione senza dubbio troppo deformante, una finestra spalancata su di un palcoscenico eccessivamente a portata di mano rispetto ai canoni e alle iconografie della tradizione classica che imperversavano nelle edizioni di quegl’anni: il Dekameron per cui erano state create, infatti, non vide mai la luce, ma i legni furono reimpiegati per altre opere successive689.
Se durante il primo terzo del secolo, i lettori, purché fosse accontentato all’ingrosso il gusto corrente, compravano ed ingollavano quasi ogni edizione, anche la più raffazzonata, al contrario, con il crescente predominio delle teorie linguistiche del Bembo, che attorno al terzo decennio del Cinquecento, aveva proposto il Boccaccio come Cicerone della lingua volgare, il Deacmeron assunse un ruolo che forse l’autore stesso non avrebbe mai sospettato né desiderato per la sua opera e che comunque era nuovo presso il pubblico: quello di dizionario e di manuale per lo studio della lingua italiana. Ne seguì, come ovvio, un nuovo tipo di edizioni, adatte al mercato vasto che quasi inaspettatamente si era venuto a creare: edizioni in cui il capolavoro trecentesco si trovava del tutto assimilato ai classici latini, per impaginazione, formato, caratteri, assenza d’illustrazione e sobrietà di decorazione, fino al rifiuto persino di capilettera troppo elaborati,e per la presenza invece di prolegomena critici690. Sul finire del quarto decennio del Cinquecento, per lo sviluppo naturale della rivoluzione iniziata dal bembo, il posto occupato dalla lingua italiana negli studi della retorica in Italia si trova radicalmente mutato: non solo Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto sono diventati testi base, ma i concetti stessi di classico, di modello, di libro di studio sono in evoluzione. In tale tipo di studi, va da sé che il Decameron (unica fra le opere volgari del Boccaccio accettata senza discussioni come autorevole per la lingua) fruì di edizioni appaiate, o a servizio, di vocabolari della lingua volgare su di esso costruiti691.
In questo tipo di edizioni, dove si faceva spazio ai rimandi alle voci del vocabolario, non v’era chiaramente posto per alcun tipo di figure. Ma, altrettanto chiaramente, questa era solo una piccola parte del mercato librario del Decameron: basta scorrere gli annali di Gabriel Giolito de Ferrari, lo stampatore più irruente e attivo che operi sulla scena veneziana (e italiana) fra gli anni 1536 e 1578, per constatare l’elastica varietà di moduli editoriali conquistati dall’opera, con sicuro smercio, attestato dall’esistenza di perfino due edizioni nello stesso anno692.
Come classico della letteratura, il testo boccacciano stava diventando sempre meno scindibile dall’apparato di esplicazioni e commenti che di regola accompagnano – ed é già bene se non lo soffocano – ogni testo importante e degno di studio. In questa linea, di libro non illustrato, salvo all’inizio dal ritratto dell’autore coronato d’alloro, in ovale, ma accuratamente “ricorretto per Antonio Brucioli” e “con la dichiaratione di tutti i vocaboli detti, etc”, ma stampato con i caratteri ormai stanchi di Bartolomeo Zanetti é il primo Decamerondell’impresa giolitina, allora ancora capitanata dal padre di Gabriele, Giovanni, nel suo ultimo anno di vita693.
Ma é Gabriele a imprimere una svolta nell’illustrazione dell’opera boccacciana con l’edizione del 1542, curata sempre dal Brucioli – ma senza Dichiarationi - la prima delle sei del testo boccacciano che uscirono con la sua marca, sul totale di quattordici prodotte in Italia a metà Cinquecento694.
Il ricco frontespizio del Decameron del 1542, totalmente silografico, nonostante sembri frutto calcografico, é stato definito a ragione quale “singolare anticipazione del Sei-Settecento”: esso rieccheggia un sipario sorretto e svolto da pingui e paffuti putti alati , con in alto una piccola marca tipografica della Fenice e al centro, inserito in una cornice ovale, il ritratto eroicizzato dell’autore, raffigurato di profilo, coronato d’alloro e rivestito dalla toga [Fig.5] 695.
Anche qui, come già per l’edizione 1538, la dedica del Brucioli é rivolta ad una donna: la fiorentina Maddalena Bonaiuti, che, come si ricava dalla lettera indirizzatale dal dedicante, era una delle più intime di Caterina de’Medici, delfina di Francia, e di cui tesseva le lodi nelle sue poesie Luigi Alamanni.
La stessa dedica é mantenuta per l’edizione in-16: essa, insieme all’estrema cura dispensata anche ad un’edizione di formato così ridotto (non illustrata ma ornata di curati capilettera), ben testimonia come l’opera del Boccaccio “contenente in gran parte cose di donne e per cagione di donne composto”696, fosse considerato, alla stregua dei “petrarchini”, un oggetto prezioso, elegante e civettuolo, destinato alle mani – e alla lettura - specificamente femminili.
Le dieci vignette all’inizio di ogni Giornata, definite dall’Essling “de style moderne”, sono libere reinterpretazioni di quelle Sessa del 1531 ma lo stile é certamente altra cosa: una combinazione eclettica delle varie componenti della pittura veneziana contemporanea attuata con preziosità quasi fiamminga e estrema virtuosità dell’intaglio, che gareggia con gli esempi migliori che dovevano circolare in Laguna, soprattutto nelle scene in cui i musici diventano i protagonisti, o dove il gruppo festoso dei giovani “tutti di fronde e di quercia inghirlandati, con le mani piene o d’herbe odorifere o di fiori” si snoda danzando sulla ristretta porzione della pagina697 [Fig. 6-15].
Tre anni dopo usciva a Parigi, dai prestigiosi torchi di Loys Cyaneus, uno dei migliori tipografi della città, un Décaméron nouvuelement traduict, in-folio, prodotto per l’editore Etienne Roffet nella traduzione di Antoine Le Maçon, che a quanto pare “parlava benissimo l’italiano” come testimoniò compiaciuto Benvenuto Cellini che l’aveva conosciuto di persona nel 1542698.
E’ un’ edizione di grande interesse, che riuscì a distinguersi e a segnare il passo perfino in un ambiente rotto a squisite raffinatezze come quello della Parigi contemporanea, soprattutto per il suo corredo di dieci vignette, tematicamente e iconograficamente vicine a quelle Sessa del 1531, ma con un occhio al quelle Giolito del 1542 – dunque “alla moda d’Italia” - e per gli splendidi capolettera ancora così tardogotici da creare un significativo contrasto, testimone delle direzioni, quella appena lasciata alle spalle e quella più aggiornata in cui ci si inoltrava, della produzione editoriale francese del momento, all’insegna delle squisitezze bellifontane.
I dieci sontuosi e fastosi “bijoux” posti ad ornare l’inizio di ogni giornata sono incisi “en creux” – dunque non più xilografie ma incisioni su rame – e incastonati in cornici “à cartouche” la cui eleganza é degna delle più belle opere d’oreficeria e di legatura contemporanee, si pensi alle decorazioni dei ferri dell’“Atelier au trèfle”, non é infatti un caso che fino a quel momento Roffet era il legatore ufficiale del re699.
Proprio il cesello ossessivo che trafora queste ultime, lo stesso di modelli capricciosi di specchi e gioielli, insieme al taglio metallico stratificato, alla ricchezza serpentina e al gusto del paesaggio, pur miniaturizzato, suggeriti da modelli bellifontani – s’impone il confronto con le incisioni su modelli del Primaticcio del Fantuzzi e del Mignon700 - supporta la tradizionale attribuzione a Etienne Delaune, “kleinemeister” orafo, incisore e disegnatore prolifico del gruppo degli “ornemanistes” responsabili dell’applicazione delle decorazioni inventate per il castello più famoso del Rinascimento ad un profluvio di oggetti per gl’usi più svariati701. Contenitore e contenuto, cornice e cameo incastonato dialogano in una permeabilità organica che rende “centro e periferia” entrambe protagonisti.
Nelle vignette, le sue interpretazioni migliori sono quelle in cui si cimenta nelle scene d’interni, in cui fa muovere i suoi eleganti ed affusolati personaggi memori di Perino e Parmigianino e dei maestri dei cantieri romani prima e bellifontani poi, e in quelle d’insieme, che vedono protagonista la lieta brigata immersa in lussureggianti paesaggi che forniscono una suggestiva evocazione della campagna francese di cui Delaune sarà maestro soprattutto nella successive serie d’incisioni dedicate ai Mesi o alla caccia702. Il testo e il suo supporto divengono così oggetti preziosi di una lettura elitaria aristocratica o alto borghese che cerca nelle immagini che decorano i propri libri la stessa eleganza che pretende per la decorazione dei mobili, delle suppellettili, metalli e cuoi sbalzati o placchette smaltate, il cui nitore e lucidezza sono imitati dal nero intenso e brillante delle preziose inchiostrature.
Il formato in-8 di un secondo Décaméron, sempre edito da Roffet nel 1548, condiziona le illustrazioni: l’edizione é più maneggevole, meno costosa, tanto più che la carta é meno bella e la stampa meno accurata, ma lo specchio della pagina più ristretto, per cui le calcografie sono riutilizzate ma prive ai lati delle loro cornici che sono, in compenso, rieccheggiate dalla cornice d’intrecci ornamentali in cui é racchiuso il titolo703.
Sono anni decisivi per il Decameron: presi dalla duplice preoccupazione di rispettare il ritmo del racconto e di proporlo come una lettura piacevole e moderna, gli editori puntano su immagini disinibite e impianti dinamici, con una vivacità del segno che si trasmetta anche alla cornice, innervandola al tema centrale. In un gioco di specchi fra narratori e lettori, si ritrovano i modi aristocratici della lettura-spettacolo all’aria aperta e ci si impersona - reincarnando la vera protagonista del testo boccacciano, quell’altalena del narrare e dell’ascoltare - nei giovani, virtuosi e “moderni” che al novellare, alternano il commento dei racconti stessi, piacevoli diporti e occupazioni del “bel vivere”704.
Si riscopre, dunque, l’interesse del valore narrativo, a livello letterale, della cornice, della storia della lieta brigata, e nella scelta figurativa, lo si privilegia. Benché infatti, all’inizio della loro storia, quando l’accento é messo piuttosto sulla ricostruzione dell’ordine, i dieci narratori siano presenti come figure piuttosto superficiali, man mano che la “loro” storia procede, i giovani cominciano a sentirsi più liberi e la loro vicenda acquista man mano una sempre maggiore autonomia narrativa. I riti cortesi e l’otium (l’incoronazione, il narrare, il ballare ecc.) sono sempre alla base delle attività quotidiane della brigata, ma il tono del racconto comincia a cambiare dalla sesta Giornata, ed é concretizzato nella gita alla Valle delle Donne: l’ordine cede allora il passo ad una più spontanea allegria. Nell’esperienza del contatto profondo con la natura verdeggiante - l’apice della storia della lieta brigata - i narratori si sentono partecipi dell’armonia perfetta della natura e ne sono toccati tanto profondamente che acquistano una sorta d’invulnerabilità psicologica che permetterà loro di tornare alla fine dei loro “diporti” in una Firenze ancora appestata.
E’ proprio questo sviluppo parabolico, unito al dinamismo della novella portante, a ribadire il valore narrativo del racconto, e ad attrarre l’attenzione degli illustratori, che d’ora in poi seguono le tappe della loro vita di gruppo, indugiando sui particolari dei luoghi ameni, dei percorsi e dei diporti, in un continuo rincorrere e visualizzare la verità del viaggio vissuto, attraverso un sentiero tutto moderno, iniziatico, che procede simbolicamentedal giardino, al bosco, e infine, alla civiltà stessa, sebbene sconvolta705.
L’eleganza ultraraffinata della “maniera” - sia essa declinata in Italia o sul versante transalpino, rieccheggiante i modelli di una Fontainebleau che d’Italia ha comunque le pareti intrise, se non fino alle fondamenta, sicuramente fino all’arriccio – si confà perfettamente allo scopo: sullo sfondo di logge snelle e illuminate da luce radente, protagonisti sono ora il giardino (d’amore) e, al suo centro, la fontana e l’acqua, e, col passare delle giornate, il locus amoenus, nell’andamento verdeggiante del paesaggio, specchio del “diletto” e del “piacere” di quel clima gentile.
Nel 1546 Giolito pubblica la sua seconda edizione, in-4, questa volta dedicata di suo pugno, con una lettera “dell’ultimo d’Agosto del 1546”, direttamente alla Delfina di Francia, ovvero Caterina de’ Medici in modo che il libro portasse il nome “della più nobile, della più saggia, & della più virtuosa Signora, che Italia producesse giamai”, testimoniando un’interesse verso un’espansione del mercato in una terra in cui la cultura italiana era non solo di moda ma, propriamente, di modello706.
Attorno a questa stampa prestarono le loro cure contemporaneamente Ludovico Dolce e Francesco Sansovino, il primo dei quali aveva già curato un’edizione dell’opera stampata da Bindoni e Pasini nel 1541, fornendo un apparato di varianti, vocaboli e note che superava per mole il precedente del Brucioli.
Il frontespizio é nuovo, rutilante di sfingi, putti, filatteri cornucopie a far da cornice alla fenice risorgente dal vaso infiammato, mentre il ritratto del Boccaccio al di sopra del sonetto del Dolce in lode del poeta é quello del 1538 [Fig.19].
Nella pagina si aprono, curatissime nella stampa, dieci ampie finestre aerate – una per Giornata - su momenti di vita concreta, di banchetti sotto loggiati ombreggiati, bagni giocosi a suon di musica, prati con pergole gratinate e la fontana al centro, attorno cui si danza e si fa musica, tavolate in scorcio sotto le frasche, intorno cui ci si assembra, calcando l’erbetta lambita da “chiare, fresche e dolci acque”, conversazioni passeggiando verso architetture classicheggianti decorate da nicchie e frontoncini, abboccamenti con cervi curiosi e insegumenti nel fitto del bosco, in una micro-animazione e un modellato iper-raffinato da placchetta padovana, fino all’imbrunire della decima giornata, quando, al gremir delle rondini che si allontanano, i dieci, vivificati dal contatto con la natura pura e limpida, fanno ritorno verso il mondo da cui si erano allontanati, scambiandosi affettuosità e fiori in un atmosfera di ultima, ovattata intimità [Fig.20-29].
Non c’é da meravigliarsi che le illustrazioni abbiano segnato il successo di vendita di un tale prodotto: dopo la riedizione del 1548, e quella del 1550, entrambe in-4, Gabriele se ne esce con un altro gioiellino in –12 (l’in-16 del 1542 si era presumibilmente rivelato inadatto alla mole abbastanza ponderosa delle cento novelle), squisito allora come rarissimo oggi, in cui tutto é miniaturizzato: tanto il ritratto in medaglione del Boccaccio, quello del 1538 e poi del 1546, che le dieci vignette, ispirate, ma non identiche al corredo per l’edizione di quattro anni prima707 [Fig.30-40]. E’ uno stile di stampa destinato a segnare l’inizio del più lungo e fortunato capitolo di vita transalpina dell’opera, quello lionese.
Al di là delle Alpi, il 1551 segna infatti la data dell’ultima edizione parigina di rilievo, in cui é ormai l’ornamento a farla da padrone: l’intrattenimento piacevole é la promessa delle dieci vignette – tre incise a contorno e sette a chiaroscuro, salomonico connubio tra maniera italiana e stile tedesco – riccamente incorniciate da cornucopie, fregi, motivi di cardi. E’ il Decameron stampato da Charles Langeliers per Estienne Groulleau, che si avvalse di matrici intagliate dagli stessi artisti che avevano lavorato per Denis Janot e Gilles Corrozet per opere diverse708. Sono scene di genere decorative, che pullulano di nudi femminili, di un gusto elgante ed aristocratico ma che, sebbene scelte con fiuto per rendere l’atmosfera, non hanno alcun collegamento con il testo.
Nello stesso anno, qualche centinaio di chilometri più a Sud, a Lione, Guillaume Rouillé, “français italianisant” che aveva appreso le scaltrezze dell’arte e del commercio editoriale proprio a Venezia, presso i Giolito, inaugura la sua fortunata serie di Décaméron con la traduzione francese di Antoine Le Macon, nuovamente dedicata – da quest’ultimo - ad una gran dama, nella fattispecie Margherita di Navarra, colta e letterata sorella del re709.
Siamo nel pieno dei più intensi scambi con Venezia - e non a caso “A l’Escu de Venise” - e le vignette, opera di Pierre Eskrich, elegantissime nei loro 2 cm quadri di superficie e stampate dalla maestria di Philibert Rollet, decorano il volumetto in-16 che si vuole immaginare tra dita femminili bianche e lunghe, quelle delle dame ritratte al bagno, che sfogliano avidamente le minuscole 1104 pagine di “bei caratteri in piccolissima forma” su carta preziosa710. Il ritratto del Boccaccio coronato d’alloro e racchiuso in medaglione viene dalla giolitina del 1542, come anche l’ispirazione delle nove – una é ripetuta – scene-paradigma per ciascuna Giornata: la lieta brigata banchetta sotto un loggiato, ascolta in circolo i due musici, siede variamente atteggiata presso fontane dalle forme capricciose e multiformi, passeggia sotto gli alberi e di fronte a palazzi e ville di un’eleganza tutta italiana o si diverte nella caccia711 [Fig. 41-42].
Il respiro é però tutto quello di una terra che vive di campagna e ama profondamente la vita all’aria aperta, le passeggiate in boschi profondi e folti di alberi, i diporti venatorii, l’acqua fertile che scende dalle vicine montagne; e nelle forme della natura, tutto tende ad assimilarsi, attraverso una dinamica avvolgente che conduce ad una riconciliazione panica e bizzarra tra vesti e manti erbosi, capelli e foglie, nastri e getti d’acqua, musica umana e armonia naturale. Il segno é leggero, quasi evanescente, i visi appena accennati, le estremità sfuggenti, filamentose, metamorfiche, capricciose.
L’edizione ebbe un tale successo che, rinfrescata, fu pubblicata nel 1552 con le stesse vignette ma un altro ritratto e poi ancora nel 1555, ma di nuovo con il ritratto del 1551712. Nello stesso 1552 e in seguito nel 1555, Rouillé diede alle stampe il Decameron nel testo originale italiano con il medesimo corredo di vignette, edizione memorabile perché, nella storia della fortuna a stampa del Boccaccio é l’unico caso, prima del celebre Elzeviro del 1665, di opera volgare edita fuori d’Italia in lingua originale713.
Proprio il 1552 segna un anno di notevole presenza del Decameron in tipografia: a Venezia se ne pubblicano ben tre diverse edizioni, e se Comin da Trino si attarda a ristampare i vecchi legni, uno per Giornata, dell’edizione Sessa del 1531714, tra Giolito e Valgrisi é gara a chi dispiega più mezzi e le due rispettive edizioni sono occasione dell’ennesimo battibecco tra il Dolce e il Ruscelli.
Per quella che sarà la sua ultima stampa dell’opera boccacciana, Giolito sostituisce le iniziali figurate con un corredo di 120 nuove e muta lo schema dell’impaginazione, ma per quanto riguarda le illustrazioni aggiunge (pochi) nuovi legni, e come vedremo, non destinati a quest’edizione715.
Il ritratto in medaglione é quello dell’edizione 1546, accompagnato dal sonetto del Dolce. Il corredo d’illustrazioni é formato da 41 vignette, con quattro ripetizioni, provenienti da ben quattro serie diverse: i dieci legni che raffigurano le amene attività della lieta brigata sono quelle già apparse nell’edizione 1546; gli otto legni con scene tratte dalle novelle, selezionate già dallo xilografo dell’edizione Sessa 1531, provengono dall’edizione 1542; un altro gruppo di otto legni proviene dalla serie che andrà ad accompagnare la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio a cura del Dolce, che il Giolito pubblicherà l’anno successivo; un ultimo gruppo di vignette proviene dal corredo della famosa Bibbia messa in cantiere ma poi mai realizzata dalla tipografia della Fenice716.
Ma il lavoro intorno all’edizione valgrisina doveva fervere e le notizie, nell’ambiente, facili a diffondersi: il Dolce, prevenendo l’uscita dell’edizione di Vincenzo con la curatela del Ruscelli, accompagnò ques’edizione con una lettera al lettore in cui, pigliando le mosse dalla critica dell’edizione giuntina del 1516 e in generale dei Decameroni fiorentini, concludeva con una critica vaga e quasi generica contro gli altri editori del libro, con allusioni che evidentemente avevano lo scopo di offendere il collega e rivale e soprattutto il frutto del suo lavoro, di cui Dolce aveva avuto in mano alcuni fogli, per sua cortese condiscendenza717.
Rotto a questo tipo di polemiche e colpi bassi propri al “mestiere di scrivere” veneziano, il Ruscelli ribatteva alle offese dalle pagine del primo dei suoi Tre discorsi, con argomenti di livello non molto più elevato: nel primo Discorso, egli apre la rappresaglia rimproverando al Dolce di aver sostituito la solita vita del Boccaccio scritta dal Sansovino con una sua raffazzonatura:
‘“Havendo il dotto et diligentissimo Sansovino già molti anni scritta la vita del Boccaccio, molto volte stampata dal Giolito medesimo sopra i Decameroni, et molto comendata da ciascuno, voi ultimamente l’havete solamente accortata, et fatto del mantello saio, et non v’é paruto se non honorevole il soprascriverla per descritta da voi”718 ’Nel terzo Discorso, poi, sostanzialmente un vero e proprio – e virulentissimo - attacco all’edizione delle Metamorfosi curata dal Dolce, il Ruscelli ritornava sull’argomento, chiedendosi come mai si siano impiegati legni disegnati per l’opera di Ovido – in particolare uno raffigurante Mercurio – a decorazione del testo di Boccaccio
‘“Ora chi sarà tanto vostro fratello in ogni cosa, che vi aiuti a far buono, che M. Gabriello gentil’huomo, et mercatante pratico nelle cose delle stampe, si fosse posto a fare spesa in figure che importano anni et anni, et centinaia et centinaia di scudi a farsi, se non havesse di giorno in giorno veduto, che voi andavate appresso, et lavoravate intorno a quel libro ? Et posto che quel giorno stesso che lo cominciaste a stampare l’haveste cominciato a fare, non vi é scorso piu di un’ anno et mezo da che poi usc{i fuori ? Chi sarà cosi sciocco che veda in tanti libri rinovati anno per anno da voi medesimi, venirsi sempre promettendo a i Lettori un libro, veder la manifattura di tante figure, che voglion tanto tempo, et che possa non stomacarsi ascoltandovi, che poi uscito vogliate che vi si creda d’haverlo fatto in otto mesi ? Nel Boccaccio con tante figure stampato gli anni a dietro dal Giolito, non sono le figure co i Mercurii che poi sono in questo Ovidio, et ciascuno conosce, che per l’Ovidio son fatte, et furon poste per cieca amico nel Boccaccio ?”719 ’Ma l’affondo ai danni del Dolce era già stato perpetrato proprio nella lettera A i lettori che Ruscelli era riuscito ad apporre, probabilmente in extremis, all’edizione valgrisina del maggio 1552720. Quest’ultima era stata stampata dai torchi del Griffio – é infatti suo il materiale tipografico come ben dimostrano le iniziali figurate – che, al fine del testo, si lamenta a sua volta del Ruscelli, dal momento che
‘“Massimamente che la copia, o l’originale che il S. Ruscelli ci ha dato, era tanto cassato et confuso, che appena l’intendea in molti luoghi egli stesso. Et la casa sua é tanto di lunge alla nostra stampa, che non s’é potuto ogni volta ricorrere a lui”721.’Chiedendo venia al lettore, Griffio gli forniva l’elenco dei principali errori, esortandolo a provvedere lui stesso all’emendatio...
‘“Vi si notano adunque qui in fine i piu importanti, secondo i quali potrà ciascuno correggersi il libro suo con la penna et col coltellino, radendo et aggiungendo, o mutando ove bisogna”. ’Ma a parte gli errori e le iniziative filologiche non sempre felici del Ruscelli, il Decameron valgrisino mantiene in pieno la promessa del frontespizio, dove é annunciato “con figure nuove e bellissime, che interamente dimostrano i luoghi, ne’ quali si riducevano ogni giornata a novellare”722.
Insieme all’edizione lionese dell’anno precedente, stampata dal Rouillé, questa del Valgrisi fissa infatti l’affermarsi della nuova iconografia del Decameron visualizzato a stampa: le dieci vignette a tutta pagina sono infatti dedicate esclusivamente alla vita della brigata, ai suoi svaghi, ai suoi diporti, inquadrate in opulente cornici d’ispirazione manierista (Giovanni da Udine per Raffaello), in cui alle volute popolate da putti e grottesche sono incastonati in alto un mascherone e in basso un vaso, mentre ai lati pendono opulente ghirlande di foglie carnose e frutti succulenti, legate tra loro da nastri tesi dallo sforzo di opporsi al peso di questa natura in pieno rigoglio e alla curiosità irruenta e scatenata di altri due putti tutti un muscolo e una piegola di pelle [Fig.53-63].
L’atmosfera é quella delle vignette Giolito del 1542, ma avendo a disposizione uno spazio più ampio, qui l’artista si é sbizzarrito in panorami più aperti e dettagliati, colti sempre dall’obbiettivo di una cinepresa che, moltiplicando o riducendo la potenza del suo zoom, mantiene la medesima inquadratura, a comprendere l’insieme del gruppo, in primo piano, o lungo il suo snodarsi sinuoso nella profonda prospettiva retrostante, in cui protagonista diventa il paesaggio723.
La prima vignetta riassume infatti le caratteristiche del luogo prescelto dalla brigata e descritto nell’Introduzione:
‘“Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo [...] con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime”724 ’I giovani sono ora seduti in cerchio di fronte al “palagio” in un “pratello nel quale l’erba era verde e grande”, con Pampinea incoronata regina al centro, tutti attenti ed pronti al novellare e musicare. Sullo sfondo una Firenze reale, sebbene lontana, dai tetti un po’ troppo aguzzi, forse, su cui passa un nastro di nuvole idrofile a decorare il cielo come una ghirlanda.
La seconda giornata si apre dopo un’istantanea della danza dei giovani : infatti
‘“dopo la qual cena, fatti venir gli strumenti, comandò la reina [ora é Filomena] che una danza fosse presa e, menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone da’leuto di Dioneo aiutata”725 ’all’interno del cortile, Emilia e Dioneo, sulla sinistra, fanno da quinta al gruppo che segue la danza condotta da Lauretta, e il ritmo allegro dell’armonia del cosmo, simboleggiata dalla musica, e quella umana, ricreata dal movimento circolare e dall’eleganza dei corpi in movimento é protetto dal filtro di un’architettura ritmata ed elegante, in cui i pieni delle colonne rispondono ai vuoti delle nicchie e delle finestre, in un’osmosi ariosa con la natura circostante che penetra attraverso il grande portale spalancato sul bosco. Sullo sfondo, troppo minima per essere minacciosa, ma sempre presente, la città: il divario tra tempo armonico e tempo storico é segnato proprio da queste quinte da villa veneta, in cui sembriamo essere compresi anche noi spettatori726.
Nella terza giornata Neifile porta la brigata nel secondo “bellissimo e ricco palagio” in modo di “tor via che gente nuova non ci sopravenga”727. Entrati nel giardino “di costa al palagio, l’immagine, grazie anche al punto di vista lievemente sopraelevato, ci descrive la “maravigliosa bellezza dell’insieme”728 e soprattutto del “prato di minutissima erba e verde tanto”
‘“Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli: iv’entro, non so se da natural vena o da artificiosa, per una figura, la quale era sopra una colonna che nel mezzo di quella diritta era, gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno avria macinato un mulino. La qual poi, quella dico che sovrabondava al pieno della fonte, per occulta via del pratello usciva, e per canaletti assai belli e artificiosamente fatti fuor di quello divenuta palese, tutto lo ‘ntorniava; e quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardino discorrea, raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea l’uscita”729 ’Ed é qui infatti, come già nelle vignette giolitine, che la fontana diventa protagonista, polo emblematico al centro del giardino “d’amore”, da cui l’acqua ne scaturisce come un nastro magico che conduce alla riconciliazione con la Natura e, tramite essa, al più sincero piacere della convivialità e dell’amicizia. L’acqua richiama infatti il contatto con il mondo naturale e dunque la coabitazione pacifica con gli altri suoi abitanti:
‘“essi videro il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l’uno all’altro mostrandolo, d’una parte uscir conigli, d’altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli e in alcuna cerbiatti giovano andar pascendo e, oltre a questi, altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi andarsi a sollazzo: le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero”730.’In questo idillico hortus conclusus, isola per l’ascolto musicale, l’associazione tra la pergola in infilata prospettica con la fonte e gli strumenti musicali ci riporta al concerto al sepolcro-fonte di Adone, in compagnia di Polifilo731. Ma ecco il momento ritratto:
‘“Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto d’intorno alla bella fonte metter le tavole e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare: e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti sù si levarono, e a’ suoni e a’ canti e a’ balli da capo si diedero...”732.’Man mano che i membri della brigata si allontanano dalla città e dal pericolo dell’intrusione di estranei, l’ambiente diventa sempre più idillico e la perfezione del luogo ispira nei giovani protagonisti meraviglia e curiosità, gli stessi sentimenti che sembrano cogliere l’illustratore di fronte al racconto che é chiamato a visualizzare.
Nella quarta Giornata, proprio la curiosità di alcuni componenti del gruppo a spingersi oltre l’architettonica soglia, inquadrata da due eleganti cariatidi, appropriati “termini” della cinta protettiva del giardino del palazzo, induce il nostro artista a una ripresa più ampia, sebbene sempre dallo stesso punto d’osservazione: interno ed esterno, per noi separati da una quinta che aiuta a percepire la prospettiva, ci vengono offerti qui già come in una carta geografica che ci consente di cogliere la distanza tra la fonte e il mulino, l’ampiezza del giardino, il rifluire dell’acqua ad irrigare il prato e a ricongiungersi con il corso principale, in un abbraccio fecondo, circolare richiamato proprio dalla ruota del mulino in primo piano: una circolarità armonica e regolata, proprio come le giornate trascorse tra riposo, cibi squisiti, danza, musica e novelle dei dieci giovani733.
‘“Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi di qua e chi di là, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all’ora della cena”734.’Se nella quinta Giornata “un poco passata la nona [...] vicini alla fonte secondo l’usato modo si ragunarono”735, mentre leprotti e cervi brucano e pascolano ormai avvezzi alla presenza e al conversare umano, al tintinnio di bicchieri e al risuonare metallico dei vassoi sotto il fondo delle caraffe, é nella xilografia relativa alla sesta Gionata, in cui l’illustratore sembra cogliere appieno l’occasione offertagli dal testo per la piena espressione della sua abilità descrittiva e decorativa insieme: si tratta dell’avventura delle sette fanciulle nella Valle delle Donne in cui le ha condotte, in segreto dai loro tre compagni, Elissa
‘“Dentro dalla quale per una via assai stretta, dall’una delle parti della qual è un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si potesse divisare [...] Il piano, che nella valle era, così era ritondo come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artificio della natura e non manual paresse [...] senza aver più entrate che quella donde le done venute v’erano, era pieno d’abeti, di cipressi, d’allori e d’alcun pini sì bene composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati: e fra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava fino al suolo, il quale era tutto un prato d’erba minutissima e piena di fiori porporini e d’altri”736.’Di nuovo, la protagonista é l’acqua, non più condizionata e disciplinata dalla manifattura umana, ma libera di scorrere a pervadere il paesaggio e di accompagnare il suo corso con le note dell’armonia naturale
‘“E oltre a questo, quel che non meno di diletto che altro porgeva, era un fiumicello il quale d’una delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore a udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d’alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giù al piccol piana pervenia, così quivi in un bel canaletto raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un piccol laghetto [...] E era questo laghetto non più profondo che sia una statura d’uomo infino al petto lunga; e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser d’una minutissima ghiaia [...]”737 ’Il fiume si fa largo dal fondo – prospetticamente lontano grazie all’ampia porzione di cielo sovrastante - al primo piano, invadendo la pianura con le sue anse morbide, lambendo alberi e un accenno d’architettura, fino a trasformarsi in un bacino rotondo, quasi un fonte battesimale per un temporaneo ritorno alle origini. Significativamente, il contatto profondo, l’immersione, letterale e simbolica dell’uomo in questa natura paradisiaca avviene, almeno in prima battuta, segretamente, e tramite la componente femminile
‘“Essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto davanti e senza alcun sospetto d’esser vedute, diliberaron di volersi bagnare. E comandato alla lor fante che sopra la via per la quale quivi s’entrava dimorasse e guardasse se alcun venisse e loro il facesse sentire, tutte e sette si spogliarono entrarono in esso, il quale non altramenti li lor corpi candidi nascondeva che farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro. Le quali essendo in quello, né per ciò alcuna turbazion d’acqua nascondene, cominciarono come potevano a andare in qua in là di dietro a’ pesci, i quali male avevan dove nascondersi, e a volerne con esso le mani pigliare”738 ’un ricongiungersi cultuale, insomma, in cui i candidi e affusolati corpi delle sette fanciulle - dello stesso nitore dell’erba, risparmiata dal bianco della pagina - diventano quelli novelle Diane - protette dalla presenza delle fantesche dall’eventuale sfrontatezza di eventuali passanti, Atteoni certamente più prosaici - di ninfe bellifontane, ma meno glaciali, più tornite, con una gaiezza e una “verità” tutta veneta nel loro immergersi quasi titubanti per il fresco delle acque, nello sforzo delle braccia ad acchiappare un pesce, nella tensione muscolare degl’arti per riconquistare la riva erbosa.
Nella giornata successiva, dopo la confessione ai compagni maschi della “gita segreta”, sembra che l’intera brigata goda ora, di nuovo ricongiunta, del luogo paradisiaco come “terzo” polo dei loro diporti. Accompagnata dai servi che portano viveri e montano baldacchini per il riposo pomeridiano, i giovani s’immergono ora non più nell’acqua ma nella profondità labirintica del bosco lussureggiante, in cui riusciamo ad intravvederli tra un tronco e l’altro, illuminati da sprazzi di luce filtrata attraverso le fronde.
‘“Quindi, essendo in più luoghi per la piccola valle fatti letti e tutti dal discreto siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenza del re [Dioneo], a cui piacque, si poté andare a dormire; e chi dormir non volle, degli altri loro diletti usati pigliar poteva a suo piacere”739 ’La Valle delle Donne é veramente una parentesi indimenticabile delle dieci giornate, se persino l’ottava xilografia é dedicata ancora al limitare del bosco, da cui i giovani si allontanano gaiamente passeggiando e discorrendo a due a due per far ritorno in villa sul far della sera:
‘“[...] inverso la loro usata dimora con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d’altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero”740 ’Anche qui il piano sequenza é fisso sul portone del “palagio” e i personaggi scorrono davanti all’obbiettivo seguendo lo scorrere, anch’esso ad anse, del sentiero verso casa.
L’intima comprensione del testo da parte dell’illustratore é splendidamente esemplificata nella nona tavola. All’inizio della corrispondente Giornata, Emilia sveglia i compagni e li conduce nel bosco
‘“Li quali venuti e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino a un boschetto non guari al palagio lontano se n’andarono, e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri da’ cacciatori per la soprastante pistolenzia, non altramenti aspettargli che se senza tema o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a quell’altro appressandosi, quasi giungnere gli dovessero, facendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero”741.’Esseri umani, animali e ambiente naturale sono tutti creazioni di uno stesso ductus, in una tale integrazione e compenetrazione reciproca che l’individuazione delle forme sfida l’occhio ad un rompicapo optical in una foresta divenuta armonia organica di forme, che s’immaginano chiazzate da macchie di una luce soffusa, che penetra umida attraverso il fitto ed alitante fogliame ad ingombrare il cielo; un labirinto in cui i passi del rincorrersi tra giovani e cerbiatti é attutito dall’erba grondante di rugiada, in cui ci si perde per ritrovarsi, per riconquistare un’armonia tra uomo e animale permessa dalla straordinarietà dei tempi, nota sinistra che, pur richiamando alla mente la forza torva che ha spinto i giovani nella sicurezza relativa della campagna, non turba la loro pace.
E’ qui rappresentato anche un dettaglio importante: i membri della brigata
‘“eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le man piene d d’erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niuna altra cosa avrebbe potuto dire se non “O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderà lieti”’Queste ghirlande sono significative non meno della corona di alloro che rappresenta l’autorità: sono il simbolo della conquistata simpatia della lieta brigata con la Natura, e questo ritorno ad una sorta di innocenza primitiva, già ispirato dal bagno sacralizzante quanto gioioso della Valle delle Donne, ha un effetto duraturo. Quando il gruppo lascia il bosco, persiste l’aura di pace ritrovata nella Natura benevola e materna, ed é proprio questa sensazione di armonia perfetta a conferire ai giovani una sorta d’invunerabilità alla morte, o, almeno, alla paura di essa.
E’ infatti dopo quest’ultima immersione nell’armonia naturale che essi possono tornare ad affrontare, ritemprati, le incertezze della vita civile. La decima Giornata ne segna appunto il ritorno a casa.
‘“E come il nuovo giorno appave, levati, avendo già il siniscalco via ogni lor cosa mandata, dietro alla guida del discreto re [Panfilo] verso Firenze si ritornarono”742 ’Nell’ultima xilografia dell’edizione valgrisina la brigata é raffigurata mentre atraversa per l’ultima volta la campagna amena alla volta di una Firenze ora topograficamente ben riconoscibile. I giovani, in una scena alla Ivory, entrano nel nostro campo visivo da sinistra, camminando a coppie, di spalle, come quando dal bosco della Valle delle Donne tornavano verso la loro seconda dimora.
La raffigurazione istituisce allora un parallelo suggestivo, in quanto in entrambe i casi si tratta di un passo verso la civiltà e la società: se in conclusione si torna verso la città tormentata e sconvolta, campo contaminato e riferimento propriamente storico, il diporto idillico fra i prati, verso un’architettura immersa nel verde, identificava la campagna come una cornice reale, parallela a quella cittadina, restaurazione innocente e sublimazione delle urbanità là ora impedite dal dilagare del morbo: quel “vivere in villa”, insomma, così propriamente veneto743. Se dunque il testo stesso del Decameron era a sua volta nato al centro della crisi della civiltà mercantile – quella fiorentina – queste sue immagini ripercuotono quella, latente, veneziana, e la soluzione, allora come adesso, é il ripiegamento verso la terraferma e il godimento dei frutti delle ricchezze accumulate durante avventure ora troppo rischiose.
Una conclusione a passo lento, anch’essa lungo un sentiero a curve ampie e dolci, quasi a rilevare l’ordine normale della vita – fatta di campagne coltivate, animali da soma, le mura cittadine a stringere tetti di cotto e piccole finestre – cui finalmente possono restituirsi i dieci novellatori, a conclusione di un vero itinerario catartico, che si svolge dall’Introduzione alla Conclusione dell’azione, fino alla restaurazione di una serena accettazione della quotidianità e dell’ineluttabile fragilità umana.
Azione appunto, quella di cui il Boccaccio aveva “puramente e semplicemente bisogno”, secondo Alberto Moravia che invitava a pensare che
‘“il mondo doveva apparire all’invaghito Boccaccio infinitamente bello e vario, tutto godibile e desiderabile; e che doveva sembrargli un gran peccato scegliere in questa varietà e ricchezza un cantuccio in cui porre radici profonde, sacrificare tante possibilità a quella sola che gli spettava”744 ’E lo stesso sembra succedere al nostro artista, pur nell’obbligo di rispettare l’unità di tempo e luogo all’interno del “quadro ideale” della Giornata della Cornice e delle dimensioni della (sua) cornice. L’evocazione delle atmosfere si materializza attraverso un tratto svelto, allungato, nervoso, dinamico appunto, in cui natura naturans e natura naturante si confondono, si coagulano e si metamorfizzano l’una nell’altra in una sorta di arazzo animistico dalla trama formicolante di nuvole, cieli, montagne, alberi, acque, corpi umani, ora alla luce del sole, ora nella penombra magica del fitto del bosco, un universo di ombre vive, in cui arte e natura gareggiano ad imitarsi e a confondere e ad ammaliare l’occhio del lettore-spettatore.
Le splendide tavole furono naturalmente reimpiegate dal Valgrisi nelle edizioni successive del 1554, del 1555 e del 1557, quest’ultima in associazione con Baldassare Costantini, tutte e tre con l’impiego delle iniziali parlanti proprie del corredo tipografico del Valgrisi745. In seguito rimasero a Venezia e pervennero nelle mani di Fabio e Agostino Zoppino e Onorio Farri che, benché ormai logore, ne tirarono sei per la loro edizione del Decameron del 1588 e poi tutte e dieci per quella del 1590, versioni entrambe molto commerciali e molto poco curate. Alessandro Vecchi, già nuovo proprietario del corredo giolitino dell’edizione 1542, riutilizzò la cornice e sei dei legni Valgrisi in quella da lui prodotta nel 1602746.
I due tipi di edizioni - quella popolare e dotta, nelle sue sfumate varietà – non si disturbarono a vicenda, sicché il Decameron continuò in entrambe le vesti ad essere un prodotto di vendita sicura, un buon affare per ogni stampatore che in quest’epoca vi mise mano.
Ma già dal 1555 anche a Venezia c’era stato chi, come Saba da Castiglione, si era lamentato che opere come il Decameron
‘“Et altre simili opere [...] vane, infruttuose et totalmente inutili, esser stampate con ogni diligentia, con ogni solennità et patientia et caratteri elegantissimi in carta delicatissima”.’Durante la perquisizione del 22 agosto 1570, poi, i due commissari dell’Inquisizione, tra gli altri titoli dall’odor di zolfo, erano in caccia degli esemplari del Decameron...747
E in Francia ?
L’ultima impresa illustrativa del Décaméron degna d’attenzione – va annoverata fra le edizioni lionesi più stimate - é ancora una volta un’iniziativa di Guillaume Rouillé e data al 1558: per una nuova edizione della traduzione francese in -16, Rouillé aveva fatto realizzare – e stampare dall’atelier di Philibert Rollet, cui appartengono i capolettera – un nuovo ritratto del Boccaccio e altrettanto nuove e più accurate xilografie, sempre in numero di nove [Fig.43-52].
Attribuibili anch’esse alla mano di Pierre Eskrich e improntate liberamente a quelle del 1551, ma adattate alla forma ovale dei medaglioni che le incorniciano con volute di eleganza squisita, queste xilografie posso sembrare i modelli di gioielli preziosi, di finissimi ceselli su placchette da collezione, allora assai ricercate, in particolare dal milieu antiquario lionese, o sulle suppelletili dell’oreficeria di gran fasto in voga durante il regno di Francesco I748.
Una preziosità tutta francese che doveva mettere queste immagini all’altezza di essere anch’esse una “tresgrande preuve et tesmoignage certain de la richesse et abondance de notre vulgaire François”749.
Ora sono le edizioni lionesi a influenzare quelle parigine e da Sud a Nord é tutto un vai e vieni di matrici lionesi, prestate, usate e restituite: il Décaméron commissionato da Claude Michard e stampato da Olivier de Harsy nel 1569 e ristampato nel 1572 con la novità di una cornice xilografica, che pure giocò un ruolo impegnativo nella storia dell’illustrazione editoriale, oltre dal ritratto del Boccaccio, deve la sua attrattiva a dieci vignette in medaglioni ovali tirate da sei matrici (e quindi talora ripetute) provenienti dal Décaméron lionese del 1558750.
Solo un ritratto di Antoine Le Maçon con la didascalia “Le traducteur du livre S” é l’elemento nuovo del Décaméron del 1578 e poi ristampato nel 1579 “pour Claude Gautier tenant sa boutique au second pilier de la grand’Salle du Palays” e imparentato con il Langeliers dell’edizione parigina del 1551: sono infatti state stancamente reimpiegate ancora una volta le sei matrici ovali dell’edizione Rouillé che ormai da un decennio avevano invaso il mercato parigino e avrebbero fatto presto lo stesso con buona parte di quello nord-europeo751.
Nel 1597, infatti, la stampa lionese del Décaméron per i tipi di Jean Le Fevre e di Jean Veyrat – con il concorso quindi di librai lionesi e olandesi – esce contemporaneamente in coedizione ad Amsterdam per Corneille Claesz e a Rotterdam per Jean Waesberge, inondando tutti i mercati francesi e francofoni752.
Sei dei dieci ovali, infine, si ritrovano disposti a decorazione del frontespizio nella princeps del Decameron in inglese stampato a Londra da Isaac Iaggard nel 1620753.
Cfr. Boccaccio visualizzato 1999, III voll. Il volume I raccoglie i saggi generali con una prospettiva dal Barocco all’età contemporanea e la bibliografia; il volume II é dedicato alle opere d’arte – codici e dipinti – di area italiana, mentre il volume III all’area francese e fiamminga, alle altre aree europee e agli incunaboli.
L’incisione al servizio del Boccaccio nei secoli XV e XVI é il titolo del lungo saggio di Fabia Borroni Salvadori (Borroni Salvadori 1977) che fa ancora autorità in materia. Cfr. anche l’ampia rassegna della tradizione a stampa del Decameron in Ferrari 1977 e Griseri 1999, pp. 161-168.
Cfr. M. Fava – G. Bresciano, La stampa a Napoli nel X V secolo, 3 voll. Leipzig, 1911-13, vol. I, p. 126, GKW, 4440; Fava 1933-34, pp. 126-7; VI Centenario 1975, vol. II, p. 25, n. 1; Sul Del Tuppo, editore di un filone di pubblicazioni di testi letterari in volgare destinati a un largo pubblico che comprendeva il Novellino (1476), la Fiammetta (1480), la Commedia dantesca e l’Esopo (1485) celeberrimo per le sue illustrazioni e il Teseida (1490 ca), cfr. P. Farenga, ad vocem, D.B.I. vol. XXXVIII, pp. 317-21. Sul suo Filocolo, che inaugurava un sistema di uso delle xilografie nuovo in Italia, a parte il precedente tentativo, anche quello ad opera di un tedesco, Ulrich Han, ripetuto con tenacia a Roma nel 1467, 1473, 1478 su un libro troppo limitataente pietistico per avere immediata eco nel mondo dei letterati : le Meditationes del Turrecremata, cfr. GKW, 4466; IGI, 1788; Catalogue British Museum, vol. VI, p. 856; VI Centenario 1975, n. 13; Borroni Salvadori 1977, pp. 631-34 ; Ferrari 1977, pp. 119-120.
Cfr. GKW, 4441; Fava 1933-34, p. 26 ricorda “le pazzie fatte dai bibliofili del Settecento e dell’Ottocento per possedere le pochissime copie venute sul mercato di questo bel libro” da loro ritenuto il primo Decameron a stampa, e che “nessun’altra opera ha raggiunto mai i prezzi veramente favolosi di questa”.
Cfr. GKW, 4440-4450 e Fava 1933-34, pp. 124-145, con descrizione delle edizioni.
E’ interessante notare che poterono imporsi all’Europa come testi degni di studio e di traduzione, ed in seguito come temi d’ispirazione letteraria da rielaborare, solo quelle novelle del Decameron che avevano beneficiato di una traduzione umanistica in latino, dalla quale erano state nobilitate ed internazionalizzate. Solo l’umanesimo latino degli italiani aveva diritto indiscusso di cittadinanza europea, oltre una più discussa ma non negabile funzione di guida : tra Quattro e Cinquecento solo attraverso l’umanesimo latino i prodotti della letteratura volgare italiana potevano essere riassorbiti a profitto delle culture nazionali, nel livello divulgativo espresso dalle edizioncelle correnti, economicamente illustrate. E’ paradossale ma sintomatico delle vie che la cultura italiana doveva seguire per l’esportazione all’estero in quest’epoca, l’errore grossolano, presente già nel colophon dell’editio princeps di Vérard del Decameron francese, ma più pittorescamente ripetuto in rosso sul frontespizio nell’edizione parigina del 1534 : “De Cameron autrement dit Le cent nouvelles”. Borroni-Salvadori 1977, pp. 601-10 e 616-21; Ferrari 1977 ; Dillon 1999, pp. 293-300.
Visto l’impianto della vignetta, fondalmentalmente senza segni di luce e giocata tutta su tratti paralleli, si può supporre dovesse essere completata da una colorazione miniata. D’altronde Vérard aveva iniziato proprio come miniatore. Cfr. GKW, 453; Boccace en France 1975, p. 68, n. 120, Décaméron en France 1976, I; Borroni Salvadori 1977, p. 639-40; Dillon 1999, p. 303. Per Antoine Vérard, cfr. Winn 1997.
La traduzione del cosiddetto Arrigo, la prima stampa in lingua straniera di tutte e cento le novelle, fu pubblicata a Ulm dallo Zainer. Cfr. Ferrari 1977, pp. 114-15. Anton Sorg fu il tipografo più prolifico di Augsburg, che aveva prodotto fra il 1476 e il 1490 quasi un centinaio di libri figurati. Cfr. GKW, 4452; Borroni Salvadori 1977; Hirdt 1978, pp. 34-5; p. 646; Dillon 1999, p. 303-306.
Cfr. Gentili 1999, p. 313.
La fontana é un elemento costantemente presente nelle illustrazioni dei manoscritti più legate all’iconografia medievale (cfr. Rava 1945, p. 14) e come si vedrà in quelle della metà del secolo dedicate esclusivamente alla raffigurazione della cornice.
Per la localizzazione delle vignette, cfr. VI Centenario 1975, vol. II, n. 32.
A Venezia, un’analoga rivoluzione di sistema decorativo e illustrativo era stata appena compiuta sul testo di Dante (si pensi all’abisso che separa le xilografie del Dante di Brescia 1487 da quello di Venezia 1491). Cfr. V. Branca, Fra tante mode di illustrare il Decameron “Corriere della Sera”, 7 marzo 1977, p. 3. Cfr. GKW, 4449; IGI, 1777; Essling 1895, pp. 640 sgg.; Hind 1923, pp. 477-78, Fava 1933-34, pp. 123-145; Sander 1942, I, pp. 187 sgg.; V, n. 1060; Branca 1970, p. 321; VI Centenario 1975, II, pp. 43-47, n. 32; Borroni Salvadori 1977, pp. 648-654; Ferrari 1977, pp. 121-22 ; Dillon, 1999, pp. 306-15; Gentili 1999, pp. 311-16.
Essling 1889, p. 288.
J. Poppelreuter, Der anonyme Meister des Poliphilo. Eine Studie zur Italienischen Buchillustration, und zur Antike in der Kunst des Quattrocento, Strassburg, 1904
Hind 1923, p. 464. Al gruppo di opere dello “stile classico”della Bibbia “Anima mia” Hind fa appartenere alcune edizioni contemporanee, altamente rappresentative del momento, ricco di fermenti umanistici: l’Erodoto (Historiarum Libri, De Gregori, 1494, Essling 1907-14, n. 735) con il suo celeberrimo frontespizio, Le Metamorfosi di Ovidio in italiano, stampate da J. Le Rouge per L. A. Giunta nel 1497 e le Comoediae di Terenzio del 1497. Cfr. F. Lippmann, The Art of Wood-Engraving in Italy in the XV Century, London, 1888; Hind 1935, pp. 464-506. Per le due Bibbie veneziane in italiano, si veda in particolare E. Barbieri 1992; sull’Ovidio del 1497, cfr. B. Guthmüller, Un curioso caso di censura d’immagini: le illustrazioni ovidiane del 1497, in Idem., Mito, poesia, arte 1997, pp. 237-250. Utilizza il Decameron e l’Ovidio del 1497 anche Pozzi 1981, pp. 96-101 per le sue finissime ed esemplari osservazioni sui meccanismi del rapporto testo/immagine. Il “mistero” legato all’autore, alle circostanze della pubblicazione da parte di Aldo Manuzio nel 1499, e soprattutto all’attribuzione e all’analisi delle illustrazioni dell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna ha provocato più di una lite tra esimi studiosi e, di conseguenza, fatto versare fiumi d’inchiostro, così che la sola bibliografia degli scritti ad essa dedicati potrebbe costituire un volume a se, trasformando la questione, piuttosto che in un sogno, in un incubo. Riferimento obbligato resta l’edizione critica e il commento di G. Pozzi – L. A. Ciapponi, Padova, 1980, ristampa anastatica con aggiornamento bibliografico dell’edizione del 1968 ; ora si dispone anche di una traduzione integrale in italiano, nuovo commento e ulteriore aggiornamento bibliografico a cura di M. Ariani e M. Gabriele, Milano, 1998. Per un panorama bibliografico cfr. inoltre M. Fantato, Dalla questione attributiva alla critica delle fonti : bibliografia commentata sul Polifilo dal 1959, “Miscellanea Marciana” XIII (1998), pp. 231-251. e C. Del Sal, Segnalazioni bibliografiche sul Polifilo, in “Miscellanea Marciana” XVI (2001), pp. 283-298. Entrambe i numeri della rivista sono dedicati monograficamente all’argomento, con interventi dedicati ai più svariati aspetti.
Tradizionalmente datata “1478 circa”, ora se propone una datazione anteriore al 1472, cfr. S. Corsten, Die Kölner Bilderbibeln von 1478, “Gutenberg Jahrbuch”, 1957, pp. 72-93; W. Sheehan, Bibliothecae Apostolicae Vaticanae Incunabola, Città del Vaticano, 1997, B-296. Per un’utile ricostruzione della tradizione icoografica delle Bibbie cinquecentesche, cfr. Micheael 1992, pp. 31-6.
Cfr. rispettivamente, per le Vitae patrum: Essling 1907, I, n. 568; IGI 4770; per le Decades: Essling 1907, n. 33; per le due edizioni della Commedia, basate iconograficamente sulla commedia di Brescia del 1487: Essling 1907, I, nn. 531-532, IGI, 363 e 364, e 431 e 432; 640-41 e per il Novellino, Essling 1907, I, n. 668; IGI, 6268 e 668.
Cfr. Rava 1545, p. 11
Fava, 1933-34, p. 140
Essling 1907-14, vol. III, pp. 239-40; Hind 1923, p. 475.
IGI, 5030 e 678; Hind 1923, p. 475; Fava 1933-34, pp. 98-99.
Dillon 1999, p. 309; Hind 1923, pp. 464, 467-8, 470; per la ricostruzione delle precedenti – insoddisfacenti - identificazioni con tutta una serie di artisti il cui nome cominci con “b” cfr. Borroni Salvadori 1977, pp. 652-53.
Su di lui, cfr. G. Mariani Canova, Profilo di Benedetto Bordon, miniatore padovano, “Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti – Classe di scienze morali, lettere ed arti”, CXXVII, 1968-69, pp. 99-121; M. Billanovich, Benedetto Bordon e Giulio Cesare Scaligero, “Italia Medioevale e Umanistica”, XI, 1968, pp. 187-256, Id., ad vocem in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XII, Roma, 1970, pp. 511-13; Dillon 1984, p. 88; Castiglioni 1989, pp. 22-24, n.2 e C. Callegari, Ragguagli biografici su Benedetto Bordon, in Verso il Polifilo, catalogo della mostra, a cura di D. Casagrande e A. Scarsella, Venezia, “Miscellanea Marciana” XIII (1998), pp. 225-230 con bibliografia aggiornata e Armstrong 2003, II, pp. 591-682; A proposito dell’impatto della stampa sui miniaturisti veneziani, si rimanda ai numerosi contributi di L. Armstrong, tra cui The Impact of Printing on Miniaturists in Venice after 1469, in Printing the Written Word: The Social History of Books, circa 1450-1520, ed. S. Hindman, Ithaca, 1991, pp. 174-202 e The Master of the Rimini Ovid: A Miniaturist and Woodcut Designer in Renaissance Venice, “Print Quarterly”, X, 1993, pp. 327-63 e da ultimo L. Armstrong, Studies of Renaissance Miniaturists in Venice, 2 voll., London, 2003, in particolare, I, pp. 406-434 e vol. II, in cui, con argomentazioni più che convincenti, si attribuiscono a Bordon le xilografie del Polifilo.
Venezia, BNM, ms Lat. VI. 245. Cfr. N. Thorp, The Glory of the Page. Medieval & Renaissance Illuminated Manuscripts from Glasgow University Library, London, 1987, p. 204, n. 138; Castiglioni 1989, p. 27; Dillon Bussi 1989, n. 2, pp. 36-37, Armstrong 1990, n. 17, pp. 7-39.
Cfr. Armstrong 1990, p. 10. Era già la soluzione proposta da Hind, che definendo la fisionomia artistica del “popular designer”, aveva supposto che dovesse essere cercato proprio fra i miniatori coevi. Cfr. Hind 1923, pp. 464, 467-68, 470. Cfr. ora Armstrong Studies of Renaissance Miniaturists in Venice, 2 voll., London, 2003, I, pp. 233-338 con bibliografia completa ed aggiornata.
Dillon 1999, pp. 310-11.
Cfr. A. Petrucci, Introduzione. Per una nuova storia del libro, in Febvre-Martin 1977, pp. XVIII e XIX e D. Mc Kitterick, Print, Manuscropt and the Search of Order 1450-1830, Cambridge, pp. 53-96.
Cfr. Gentili 1999, pp. 310-11. I rapporti fra sostanza narrativa e resa illustrativa sono stati studiati a livello teorico da M. Rio, Cadre, plan, lecture, “Comunications”, 24 (1976), pp. 94-107; i trasferimenti dal testo linguistico al parametro iconico da Bassy 1974. Stimolanti osservazioni in margine alla trattazione dell’unicum Polifilo in Pozzi 1993, pp. 92 e 96-7, mentre un’introduzione accessibile al complesso problema della rappresentazione pittorica del tempo e del suo trascorrere, cfr. Sturgis 2000.
Per il rapporto fra la pittura di Carpaccio e il teatro contemporaneo, cfr. M. Muraro, Vittore Carpaccio o il teatro in pittura, in Studi sul teatro veneto fra Rinascimento ed età barocca, a cura di M. T. Muraro, Firenze, 1971; L. Zorzi, Figurazione pittorica e figurazione teatrale, in Storia dell’arte italiana, Torino, 1979, parte I, vol. I, pp. 421-462; Idem. Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Torino, 1988, P. Fortini Brown, La pittura nell’età del Carpaccio. I grandi cicli narrativi, Venezia, 1992 [ed. or. New Haven 1988] ma soprattutto la disamina delle modalità di narrazione teatrale dei teleri carpacceschi in F. Bardon, La peinture narrative de Carpaccio dans le cycle de Sainte Ursule, “Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti”, XXXIX/IV (1985).
Nelle edizioni veneziane di Manfredo de’ Bonelli del 1498, ricompaiono il frontespizio e le vignette dell’edizione De’Gregori, ma solo uno dei due legni – il secondo - di maggiori dimensioni preposti alle singole giornate; di Bartolomeo Zanni da Portese del 1504 e 1510, illustrate da copie dei legni De Gregori; di Agostino Zanni da Portese del 1518, con reimpiego di alcune vignette dell’edizione 1510 e altre 89 tratte da nuovi disegni che, pur basandosi sui modelli del 1492, tuttavia sono pervase da un’aura di novità nella nuova concezione del paesaggio e della natura, e di Bernardino de Viano del 1525, con vignette provenienti dall’edizione 1510 che inaugura la moda del titolo racchiuso da cornici xilografiche. Persino le modeste illustrazioni dell’unica edizione figurata fiorentina del Decameron, quella di Filippo Giunta del 1516, derivano dalle xilografie della stampa veneziana dei fratelli De’ Gregori. Nelle edizioni veneziane di Giovanni Antonio e fratelli da Sabbio, del febbraio 1526, di Francesco Bindoni e Maffeo Pasini del 1529 e di Matteo Pasini del 1529 é assente ogni riferimento iconografico con le novelle. Cfr. Borroni Salvadori 1977, pp. 654-56, e pp. 670-71 e il riepilogo di Ferrari 1977, p. 122. Le vignette furono reimpiegate anche in altre edizioni veneziane di opere di novellistica: si é già citato il Novellino di Masuccio Salernitano, pubblicato nello stesso anno dai De’ Gregori, ma esse riapparvero anche in quello edito da Bartolomeo Zanni da Portese il 29 febbraio 1503, in due edizioni delle Settanta novelle di Sabadino degli Arienti, sempre stampato dal Portese il 20 marzo 1504 e il 16 marzo 1510, cfr. Borroni Salvadori 1977, pp. 653.
Cfr. Décameron en France, n. 2; Borroni Salvadori 1977, pp. 641 ; Ferrari 1977, p. 118. Per la fortuna del Boccaccio in Francia, cfr. L. Sozzi, Boccaccio in Francia nel Cinquecento, in Il Boccaccio nella cultura francese, atti del convegno (Certaldo, 1968), Firenze, 1971, pp. 211-256.
Cfr. Décameron en France, nn. 4-6.
Essling 1907-14 I/2, n. 684; Borroni Salvadori 1977, pp. 656-7.
Essling 1907-14, n. 439.
Per la descrizione degli episodi raffigurati in ciascuna vignetta, cfr. Borroni Salvadori 1977, pp. 65. I legni confluiranno poi nel Decameron di Pietro Niccolini, dell’agosto 1537 (Essling 1907-14 I/2, n. 650) in cui il frontespizio é identico a quello del Decameron del 1531, quindi in quello del 1540 pubblicato per Giovanni de’ Farri e per i fratelli de Revoltella (Essling 1907-14 I/2, 108, n. 625), ancora nel Decameron “per Mathio Pagan” del 1545 (Essling 1907-14 I/2, n. 656) e poi, racchiusi da eleganti delfini affrontati, fedelmente copiati nel Decameron del 1549, pubblicato a spese di Giovanni Griffio (Essling 1907-14 I,2, 112, n. 659), per ritornare poi a essere siloreincisi nell’edizione Comin da Trino del 1552
Cfr. Hebert 1982, I, pp. 250 ss. e nn. 1046-1128; M. C. Oldenbourg, Die Buchholzschnitte des Hans Schäufeilein, Baden Baden, 1964; Borroni Salvadori 1977, pp. 607-8, 630, 646-47, Griseri 1999, pp. 159-60. Le illustrazioni si riferiscono alle dieci giornate: I, 1-8; II 8-16; III 17-23; IV 24-30; V 31-39; VI 40-46; VIII 47-53; VIII 54-56; IX 57-61; X 62-70.
G. Testori, Lingua e dialetto nella tradizione bresciana, in Giacomo Ceruti, catalogo della mostra, Milano, 1966, pp. XI-XIV.
Tra di esse il Die Schön Magelona, Historien und Fabulen, cfr. Griseri 1999, p. 160.
Cfr. Ferrari 1977, pp. 124-27.
Quello del Minerbi, Il Decamerone di m. Giovanni Boccaccio col vocabolario di m. Lucilio Minerbi nuovamente stampato et con somma diligenza ridotto, Venezia, B. Vitali, 1535 e le Ricchezze della lingua volgare di Francesco Alunno da Ferrara, il quale era arrivato alla quarta edizione del suo lavoro prima di decidersi, nella quinta, a presentarlo al pubblico insieme al testo del Boccaccio che ne costituiva la materia prima (1557).
Per il Giolito, cfr. Bongi 1890-95 ; Camerini 1935 ; Dondi 1967 e 1968 ; Quondam 1977 e ora Nuovo-Coppens 2005 e cap. I.3
Il Decamerone di messer Giovanni Boccaccio nuovamente Stampato Et Ricorretto per Antonio Brucioli, Stampato in Venetia ad instantia di messer Giovanni Giolito da Trino (nel colophon: Stampato in Vinegia, per Bartolomeo Zanetti da Brescia ad istantia di messer Giovanni Giolito da Trino, 1538, del mese di Aprile), in-4. Il Brucioli dedica l’opera “Alla illustrissima signora Alvicia Gonzaga Palavisina, Marchesana di Gonzaga”. Il ritratto utilizzato per questo frontespizio sarà reimpiegato per le edizioni giolitine del Decameron del 1546, 1548 e 1552. Cfr. Bongi 1890-97, I, p. 6; VI Centenario 1975, II, n. 91; Borroni Salvadori 1977, pp. 658-9.
Il Decamerone di messer Giovanni Boccaccio. Nuovamente corretto per messer Antonio Bruccioli, in Venetia per Gabriel Iolito de Ferrari, 1552, in-16. Vi sono copie datate nel colophon 1541. Cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 42-3; Mortimer 1974, I, n. 70, pp. 97-100; Borroni Salvadori 1977, pp. 659-60. Per un panorama d’insieme delle edizioni veneziane del Decameron, cfr. Richardson 1994, pp. 90-126.
Samek-Ludovici 1974, p. 164; cfr. Sander n. 1071. Il ritratto e il decoro tipografico al di sotto dell’indirizzo, tagliati via dal blocco del frontespizio, furono riutilizzati nell’edizione in-16 di forma quadrata, pubblicata dal Giolito nello stesso anno ma fatta stampare da Bernardino Stagnino che ne ritenne per sé alcune copie, che infatti recano il suo indirizzo “in Venetia al segno di Santo Bernardino”. Il frontespizio, ormai privo del ritratto del Boccaccio, fu reimpiegato per l’edizione del Morgante maggiore di Luigi Pulci, e – con l’impressione di altri due legni di rincalzo – per il frontespizio di due edizioni della Genealogia, stampate da Comin da Trino rispettivamente nel 1550, 1553 e 1554, cfr. Mortimer 1974, II, n. 405, pp. 579-580 ; Borroni Salvadori 1977, pp. 660, nota 256
Come lo definirà il Giolito nella dedica a Caterina de’ Medici dell’edizione 1546
Cfr. Essling 1907-14, vol. II/1, n. 653, pp. 105-112. Le vignette misurano ognuna 59x69 mm. Le vignette della terza-decima Giornata confluiranno poi nell’edizione Giolito del 1552 a cc. LXVIr, CXCVIr e CXXIIIr, mentre due vignette saranno inserite in edizioni posteriori: la vignetta di Masetto da Lamporecchio, a c. LXVIr sarà ritirata nella giolitina del 1552 e nelle Cento novelle in ottava rima del 1554, a p. 191, in cui sarà impiegato anche il legno di Tancredi di Salerno, di c. XCVIv. cfr. VI Centenario 1975, II, p. 95, n. 90; Borroni Salvadori 1977, pp. 660 e cap. III.
B. Cellini, La vita, Torino, 1973, p. 327. Per l’edizione, cfr. Brun 1969, 1969; Boccace en France 1975, n. 7 ; VI Centenario 1975, II, n. 95; Décaméron en France 1976, n. 133; Borroni Salvadori 1977, pp. 642-44; Mortimer 1964, I, n. 106, pp. 137-8.
Cfr. L.-M. Michon, A propos des reliures de l’atelier “au trèfle”, “Le Bibliophile”, 3 (1931), pp. 112-19; Reliures royales 1999, pp. 39-40. Per gli “ornemanists” l’influenza dei modelli bellifontani sulla legatura, cfr. cap. III.
Cfr. Zerner 1996, figg. 129-31, pp. 133-35 e fig. 139, p. 143.
Per Etienne Delaune, cfr. Eisler 1965 e cap. III.3.
La Gravure française 1995, nn. 106-8, p. 355-57 e n. 11, pp. 360-1. Per il gusto del paesaggio a Fontainebleau, cfr. Golson 1969 e cap. III.
Cfr. Boccace en France 1975, n. 86, p. 166; Décameron en France 1976, n. 8; Borroni Salvadori 1977, p. 644.
Cfr. G. B. Tommasini, La cornice del “Decameron” e il dialogo delle culture, “Intersezioni” anno XVIII, n. 2 (agosto 1998), pp. 223-237
Cfr. L. M. Muto, La novella portante del Decameron: La parabola del piacere, in Genèse, Codification et Rayonnement d’un Genre Médiéval: La Nouvelle, a cura di M. Picone, G. Di Stefano e P. D. Stewart, Montréal, 1983, pp. 145-151; Muto 1988.
Il Decamerone di M. Giovanni Boccaccio di nuovo emendato secondo gli antichi esemplari, per giudicio et diligenza di più autori, con la diversità di molti testi posta per ordine in margine, & nel fine con gli Epiteti dell’Autore; espositione de proverbi et luoghi difficili, che nell’opera si contengono, con le tavole & altre cose notabili & molto utili alli studiosi della lingua volgare, In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1546, cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 134-5; Essling 1907-14 I/2 n. 657; VI centenario 1975, II, n. 101; Borroni Salvadori 1977, pp. 661-2; Ferrari 1977, p. 128 ; Gentili 1999, p. 316. Le vignette saranno riutilizzate nell’edizione 1548 e del 1550, per cui cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 234 e 286; Essling 1907-14, I/2, n. 658; VI centenario 1975, II, n. 105 e 108 e poi, insieme ad altra, come vedremo, nel 1552. Esse confluiranno poi nell’edizione de Le Cento Novelle da Messer Vincenzo Brugiantino dette in ottava rima, stampate dal Marcolini nel 1554. Alessandro Vecchi, stampò edizioni delle Cento Novelle del Sansovino (1610) e del Decamerone (1614) servendosi di questo corredo del Giolito. Copie liberamente tratte dalle scene delle Giornate I-5 e 7 di questo corredo furono impiegate per l’illustrazione di una traduzione inglese del Decamerone, stampata a Londra da Isaac Jaggard nel 1620. Per l’italianismo in Francia, cfr. cap. III e in particolare nota 233.
Cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 286-7; Mortimer 1974, I, n. 71, p. 99; VI centenario 1975, II, n. 108.
Cfr. Brun 1969, p. 136; Décameron en France 1976, n. 10; Borroni Salvatori 1977, pp. 644-5. Il motivo dei cardi alludeva alla marca di Groulleau, che a sua volta l’aveva ripreso da Denis Janot, di cui aveva rilevato il materiale tipografico. Cfr. cap. III
Le Décaméron de M. Iean Bocace florentin. Novellement traduict d’Italien en Françoys par maistre Antoine le Maçon conseiller du Roy, & tresorier de l’extraordiaire de ses guerres. Si tratta della prima edizione che Rouillé paga a sue spese. L’edizione contiene anche una lunga lettera in italiano indirizzata a Margherita da Emilio Ferretti, datata 1 maggio 1545. Cfr. Baudrier 1964, IX, pp. 49 e 192; Brun 1969, p. 136; Décameron en France 1976, n. 9.
Per Pierre Eskrich e i figurati di Rouillé, cfr. cap. III
Il legno della terza Giornata é reimpiegato nella Settima. Le altre illustrazioni si trovano rispettivamente a pp. 23, 116, 275, 401, 512, 616, 670, 758 e 884.
Baudrier 1964, IX, pp. 50, 199; Décaméron en France 1975, n. 11. Per Rouillé, cfr. Baudrier 1964, X ; Picot 1906, I, pp. 183-220 ; Salomon 1965 ; Zemon Davis 1966 ; Zemon Davis 1983 ; Giudici 1985 ; Albonico 2000 ; Nuovo-Coppens 2005 ; Andreoli 2006 ; cap. I.3 e III. Il ritratto del Boccaccio che compare nell’edizione 1552 é quello che Rouillé inserirà, accanto a quello del Petrarca, nel suo Promptuaire des medalles del 1553 (II, 88). Cfr. Andreoli 2006.
Il Decamerone di M. Giovanni Boccaccio. Nuovamente stampato con un raccoglimento di tutte le sentenze, in questa sua opera da lui usate. Aggiunteci le annotationi di tutti quei luoghi, che di queste cento novelle, da Monsig. Bembo per osservatione & intelligenza della Thoscana lingua, sono stati nelle sue prose allegati. Anche quest’edizione é dedicata a Margherita di Navarra. Cfr. Baudrier 1964, IX, pp. 197 e 222; VI centenario 1975, II, n. 121.
Il legno Sessa della prima Giornata é reimpiegato tre volte, per la I, II e VIII Giornata (pp. 4, 43, 315), mentre per la III-VII, IX e X Giornata sono stati reimpiegati i corrispondenti legni dell’archetipo del 1531, a pp. 112, 165, 211, 255, 277, 367, 396. Comin da Trino ristamperà la medesima edizione nel 1556.
Il Decamerone, di M. Giovanni Boccaccio. Nuovamente alla sua vera lettione ridotto con tutte quelle allegorie, annotationi, e tavole, che nelle altre nostre impressioni si contengono; e di più ornato di molte figure. Aggiuntovi separatamente un indice copiosissimo d’i vocaboli e delle materie composto da messer Lodovico Dolce. Cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 362-4; Mortimer 1974, I, n. 72, p. 100; VI centenario 1975, II, n. 112; Borroni Salvadori 1977, pp. 662-3. Nello stesso anno il Giolito ne offrì al mercato anche un’altra edizione in-12, con xilografie molto simili a quelle dell’edizione 1550, cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 364-5.
I legni disegnati per le Metamorfosi si trovano a cc. D3r, E6v, K7r, L1v, L4r, L5r, L5v, P5v. Sei delle illustrazioni bibliche saranno ugualmente reimpiegate nelle Trasformationi del Dolce del 1553, per cui cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 395-401, 404, ma poi epurate, salvo una, dalle edizioni successive, una nello stesso 1553 e poi nel 1555, 1557 e 156. Per la vicenda dell’impresa dell’edizione della Bibbia del Giolito e del suo corredo illustrativo e per l’edizione delle Trasformationi del Dolce, v. scheda I.2 e cap. III.
cc. *3r-v e*4r-v. Il Dolce non era nuovo a polemiche di questo genere: nell’edizione del testo del Boccaccio curata nel 1541 per Bindoni-Pasini, aveva indirettamente criticato quella del Brucioli per Giolito del 1538. Per Ludovico Dolce, esiste una vasta bibliografia, cfr. Di Filippo Bareggi 1988; G. Romei in DBI, ad vocem, vol. XL, pp. 399-405, la monografia di R. H. Terpening, Ludovico Dolce, Renaissance Man of Letters, Toronto, 1997 e, come collaboratore del Giolito, Borsetto 1989 e Nuovo-Coppens 2005, pp. 101-4. Per il Ruscelli, cfr. Di Filippo Bareggi 1988, e Trovato 1991.
Ruscelli, Tre discorsia m. Ludovico Dolce. L’uno intorno al Decameron del Boccaccio..., Venezia, Plinio Pietrasanta, 1553, p. 48
Ibidem, p. 85.
v. Annessi 6.17, in cui é riportata per intero. Sulla disputa Dolce-Ruscelli, cfr. Bongi 1890-97, I, pp. 354-6; Mortimer 1974 II, n. 342 e Trovato 1991, pp. 241-297.
C. g3v: “Giovan Griffio a’ lettori”, cfr. Annessi 6.17 ove é riportata per intero.
Non sarà la prima volta che il Ruscelli interverrà troppo pesantemente su un testo da lui edito, lo stesso avverrà ad esempio per l’Orlando furioso valgrisi, cfr. Trovato 1991, pp. 282-86 e scheda 4
Per le caratteristiche stilistiche e iconografiche dell’illustratore valgrisino, cfr. cap. III.
G. Boccaccio, Decameron, I, Introduzione, 90 (si fa riferimento all’edizione a cura di V. Branca, Torino, 1980, 2 voll.)
Ibidem, I, Conclusione, 16
Cfr. Gentili 1988, pp. 31-6.
Ibidem, II, Conclusione, 7
Ibidem, III, Introduzione, 5
Ibidem, III, Introduzione, 9-10.
Ibidem, III, Introduzione, 13.
Mi piace pensare che l’illustratore avesse visto anche la splendida pergola che inquadra il titolo del De natura stirpium libri tres di Jean Ruel, stampato a Parigi da Simon de Colines nel 1536, sopra, sotto e intorno la quale lussurreggiano le più svariate specie di piante, frutti e fiori, anch’essa accompagnata dall’immancabile fonte e dalla presenza di due amanti, stretti attorno al libro di musica, mentre il Tempo, fauno alato e dotato di falce, li spia da dietro un iris gigante.
Ibidem, III, Introduzione, 14.
Per la visione “a volo d’uccello” prediletta da questo artista, che si ritrova già nelle xilografie per la Divina Commedia Marcolini del 1544 e sarà la cifra dell’Orlando furioso 1556, cfr. cap. III
Ibidem, IV, Conclusione, 7.
Ibidem, V, Conclusione, 5.
Ibidem, VI, Conclusione, 19-24.
Ibidem, VI, Conclusione, 25-26.
Ibidem, VI, Conclusione, 29-31.
Ibidem, VII, Introduzione, 9.
Ibidem, VII, Conclusione, 7.
Ibidem, IX, Introduzione, 2-3.
Ibidem, X, Conclusione, 16.
Cfr. E. Sanguineti, Lettura del Decameron, Salerno, 1989, p. 89.
Cfr. A. Moravia, L’uomo come fine e altri saggi, Milano, 1964, pp. 138-9.
Cfr. VI Centenario 1975, II, nn. 116, 120, 123.
Nell’edizione Zoppino-Farri del 1582 la prima e la quarta Giornata non sono illustrate. Cfr. Mortimer 1974, n. 73, p. 101, Borroni Salvatori 1977, p. 664-5 e nota 53.
Cfr. cap. II
Le Decameron de M. Iean Bocace florentin, traduict d’Italien en Francoys par maistre Antoine de le Maçon, Conseiller du Roy, & Tresorier de l’Extraordinaire de ses guerres. Cfr. Baudrier 1964, IX, pp. 248-9; Mortimer 1974, Décaméron en France 1975, n. 15; Borroni Salvadori 1977, pp. 677-78. E’ il legno della terza Giornata a essere tirato due volte (anche per la sesta). Rouillé reimpiegò le vignette nelle edizioni del 1560, cfr. Baudrier 1964, IX, pp. 260-1. Il ritratto e le vignette accompagnano il Décaméron pubblicato sempre a Lione da Barthélemy Honorati nel 1578 e ancora nel 1597, cfr. Baudrier 1964, IV, p. 135.
Ibidem, “avis au lecteur”, non firmato ma molto probabilmente scritto dallo stesso Rouillé, p. 7. Per il ruolo di Lione nell’ azione d’“illustration de la langue française”, cfr. cap. III, nota 233.
Cfr. Décaméron en France 1975, n. 18; Ferrari 1977, pp. 129-30 ; Borroni Salvatori 1977, p. 645. La riedizione del 1572 é in associazione tra Michard e Jean Ruelle. Sono state impiegate la I, II, II, VI e IX vignetta dell’edizione lionese, replicate rispettivamente una volta (VI, VIII, IX vignetta), due volte (I e II vignetta) e tre volte (III vignetta).
Cfr. Décaméron en France 1975, n. 20
Cfr. Décaméron en France 1975, n. 21 anche per le coedizioni; Boccaccio in Nederland, Leiden, 1975, nn. 21 e 22, p. 24
Lo sganciamento delle figure dal testo arriva qui al suo livello più parossistico, né poteva esserci evoluzione in altro senso, perché un’analoga progressiva distorsione, nell’alleggerimento di taluni precisi contenuti, e con l’attenzione invece puntata sulla lingua e sullo stile, aveva subito il testo stesso, nelle purghe e nei rammendi della versione passata al vaglio della Chiesa Anglicana. Cfr. H. G. Wright, The First English Translation of the ‘Decameron’ (1620), in Essays and Studies on English Language and Literature, 13, Upssala-Copenhagen-Cambridge Mass.-Lund, 1953, pp. 271-75 e tavv. I-IV.