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Boccaccio, Giovanni; Ruscelli, Gerolamo / Sansovino, Francesco

Il Decamerone di M. Giovan Boccaccio, nuovamente alla sua intera perfettione, non meno nella scrittura, che nelle parole ridotto, per Girolamo Ruscelli. Con le dichiarationi, annotationi, et avvertimenti del medesimo, sopra tutti i luoghi difficili, regole, modi, et ornamenti della lingua volgare, et con figure nuove e bellissime, che interamente dimostrano i luoghi, ne’ quali si riduceano ogni giornata a novellare. Et con un vocabolario generale.

[Con proprio frontespizio:] Vocabolario generale di tutte le voci usate dal Boccaccio.

In Venetia : appresso Vicenzo Valgrisio, alla bottega d’Erasmo, 1552. [Nel front. della II parte:] In Venetia : per Giovan Griffio, ad istantia di Vicenzo Valgrisio, 1552

Cc. *2r-*5v: Al molto illustre et honoratissimo signore, il signor conte Giovan Battista Brembato. Girolamo Ruscelli, Di Venetia, il di III d'Aprile del 1552 :

“A due ragioni s’attengono principalmente coloro, i quali per alcun modo non voglion ricevere, che la lingua nostra volgare sia per arrivar giamai a quel colmo di gloria, al quale arrivò la Latina. L’una delle quali é la grandezza dell’Imperio di Roma, che costrinse le genti ad imparar d’intendere et di parlar quella lingua, alla quale haveano da ubidire. L’altra, la moltitudine de gli scrittori eccellenti, che in quella scrissero, li quali la fecero non solamente così nobile a’ tempi loro, ma ancora immortale fin che duri il mondo. Alla prima delle quai ragioni, oltre a quanto si fanno incontra tant’altre vive et efficaci, toccate dal mio dottissimo Citolini, mi ritruovo ancor’io d’haver pienamente risposto altrove. Et però passando alla seconda, dico, che mi contento di lasciar per ora dall’argarmi [sic] molto in raccorre particolarmente quanto la Latina sia povera d’Autori, che trattino d’arte o scienza veruna, non solo de’ loro proprii, ma ancora de’ trasportatile da altre genti ; quanto in essa sien pochi i poeti, et quanti meno gli oratori. Et se diranno, che di quella si sia perduto tanto gran numero di libri, quanto alcuni affermano, io per non contrastare, risponderò, che que’ tai lumi, poi che sì tosto si spensero, la lasciarono, in quanto a se, fin da allora in bisogno di mangiare allo scuro, non che le possano ancora adesso dar tanta luce, che ne resti abbagliata ogn’altra. Et così lasciando molte ragioni, che intorno a cio potriano allegarsi, dirò solo, che le principali cagioni dell’accrescimento d’una lingua, sono l’agevolezza grande nello apprendersi, et la dolcezza nel proferirsi ; delle quali due si vede così pienamente ricca la nostra lingua, che da quelle sole potrebbono i suoi avversarii far sicuro giudicio della sua monarchia. Et ritirandosene a consigliar con l’esperienza, che é risoluta Logicacon gli ostinati, cominciamo a por mente, con che passo ella dia saggio di voler’avanzare d’autori la Latina da così gran lunga, et quanto in si poco tempo, cioè da che il gran Bembo cominciò a scoprire al mundo le sue bellezze, sia divenuta ricca di tanti et si degni autori, che soli bastassero a farla veramente non men chiara et perpetua che la Latina. Habbiamo già noi per opera del Matthiolo fatt nostri Tolomeo, et Dioscoride, non solo migliori, che i Latini non gli hebbero, ma dirò ancora, che i Greci stessi. Habbiamo per la molta virtù del Domenichi et di Remigio, tanti degni scrittori, che i Latini possono oramai poco rimproverarci i loro. Habbiamo per l’onorata fatica del Mutoni in lingua nostra il Polieno, autore di molta più gloria, che il nome stesso non rappresenta. Et finalmente ancora le leggi tutte, et Aristotele ci fanno sperare i felici principii del Sansovino, del Segni, del Nardi, del Ferlito, et del Brucioli. Et per lasciare i trasportati d’altronde, ben veggiamo quanti felicissimi ingegni habbiano già cominciato a scrivere in tal nostra lingua in ogni professione, et in prosa, et in verso, che noi possiamo quasi da ora conoscerci poco bisognosi d’andar ne’ paesi strani a procurarne. Che gloriosa schiera di poeti, che pomposo catalogo di scrittori in prosa potremmo noi già chiamare a risegna d’ogni parte d’Italia ? Quanto onorati et illustri ce ne darebb questa sempre felicissima città di Venetia ? quanti Padova ? quanti Roma ? quanti Napoli ? quanti Bologna ? quanti Ferrara ? quanti Milano ? quanti Brescia ? quanti Genova ? non entrando ne’luoghi particolari della Marca e dell’Umbria ; sapendo che per se stessi fanno quelle provincie gloriose et famosissime a par d’ogn’altra. Della Toscana non dico, per esser cosa notissima, ch’ella sia stata sempre il vero fondamento et sostegno di questa lingua, della qual ragiono. Nè ho lasciato in dietro la gentilissima città di Bergamo per dimenticanza, ma perche scrivendo a V. S. non mi assicuro di cantare a lei stessa le lodi sue ; et mi parria non poca sciocchezza il ricordare a lei i dottissimi Signori Michele Carrara, Pietro Spino, et il Tasso, de’ quali ella di continuo ha le lodi in bocca. Ben soggiungerò, che nè i Latini, nè i Greci hebbero giamai nelle lingue loro, quello che più d’altra cosa potea farle chiare et immortali. Et cioè, che in esse si fosser poste a scriver le Donne, come quelle che con la divinità dell’ingegno havrian fatto stupire il mondo, et con la dolcezza et gratia, ch’elle spirano havrian fatto stupire il mondo, et con la dolcezza et gratia, ch’elle spirano in ogni lor cosa, l’havrebbon mantenuta gradita per ogni secolo. Et che così sia, sappiamo quanto da’ Latini si faccia romore d’una madre de’ Gracchi, perche si silettò della candidezza et dell’eloquentia di quella lor lingua, et così d’una Corinna, che o vera o imaginaria ch’ella fosse, debbe poi in tutta sua vita porre insieme al più lungo xxv o xl versi. Et il medesimo da’ Greci per una Safo, che ne debbe far pochi più d’altrettanti. Ma questi come più astuti, con nuovo consiglio gli procuraron d’acquistargli il titolo del principato nelle lingue et nelle scienze ; et ciò fu con far credere alle genti, che in quei lor luoghi abitassero nove Donne, le quali havesser tanta copia d’ogni scienza, che con una sola stilla d’acque del fonte loro, facean di subito divenir miracolosamente dottissimo ogni per se stesso rozissimo ingegno. Et con questa tale astutia fecer sì, che non solo da’ Greci tutti, et da Latini, ma ancor da noi oggi fin qui, non si sappia far cosa buoa, ove a quelle lor finte Muse non si ricorra. Là onde non sarà nè sofisticheria, nè paradosso, se io vengo ora con questo solo fondamento a conchiudere, quanto questa nostra bellissima lingua sia per esser in brieve et sia di già più felice che qual si voglia delle due già dette ; poi che oltre a tanti famosi huomini, che in essa risplendono, habbiamo non minore, o fors’anco maggiore il numero delle Donne, che se ne dilettano, che n’intendono, vi scrivono, et veramente vi fanno miracoli. Nè credo, che sarà oggi persona, se non disperatamente arrogante o pazza, che ardirà contrastare a chi dica, che quelle due, le quali quest’anni a dietro ci ha ritolte il Cielo, sieno state nelle prosa et nel verso in questa nostra lingua, in alcuna parte men degne, che qual si voglia Latina o Greca, che nella loro habbia scritto. Et per toccar brievemente alcuna delle vive, habbiamo noi oggi le non mai a pieno lodate Illustrissime Signore, La S. Donna Vittoria Colonna d’Aragona, et la S. Donna Dionora Sanseverina, delle quali si come ne gli occhi lo Splendore et la Gratia, et nel volto la Bellezza et la Maestà, così nella lingua la Dolcezza, et nel petto le Scienze s’han fatto albergo. Et già incomincia a portare attorno la Fama, come sotto quell’istesso felicissimo cielo habbia Iddio fatto nascere d’Illusrissimi et onoratissimi padri : et di sagge et bellissime madri, come nuovi miracoli della Natura, le non meno dell’animo, che del corpo sopr’umanamente belle et gentil Signore la S. Donna Ippolita Gonzaga, et la S. Donna Lucretia di Capua. Lequali in così tenera età, tra ogni altra rara et pregiata virtù, delle quali si veggono gloriosamente ricche, et adorne, si fanno conoscere d’haver per principale il continuo studio di questa nobilissima lingua nostra. Et che dirò della bellissima et onestissima Signora Donna Beatrice Loffreda ? la quale si come in grandezza d’animo et in gentilezza, così ancora in ogni forte di virtù vera, et principalmente nella candidezza et perfettione di questa lingua, dellaqual ragioniamo, ardisce di far concorrenza al molto Illustre Signor Ferrante Carrafa consorte suo, alquale questa nostra età tutta, non ardisce di far concorrenza ? Et l’istesso soggiungo della Illustrissima et virtuosissima Signora, la Signora Felice Sanseverina, della S. Vittoria Capanna, et di moltissime altre che ne sono in ogni parte d’Italia. Ma che vo io ora senza avedermene raccontando tutto questo a V. S. ? Laquale havendo cercata ogni parte d’Italia, ha soluto più volte fare a me et ad altri istoria del gran valore delle gentil donne di Siena, lequali universalmente tutte sono studiose et dotte, et leggiadrissimamente scrivono in prosa et in verso. Et pur di V. S. stessa io con la copia d’alcune lettere della Signora Veronica da Gambera, hebbi ancor la copia di quella bellissima lettera della già detta divina Signora, Donna Vittoria Colonna al Signor Luca Contile, la qual lettera mi comando V. S. che io facessi porre per prima nel volume delle lettere de’diversi, si come ho fatto. Et con quella mi diede ella ancora alcune bellissime rime della Signora Virginia Salvi, et della Signora Gaspara Stampa, lequali insieme con altre della Signora Caterina Pellegrina, della Signora Maria Spinola, di Madonna Giulia Bigolina, et forse di qualche altra, usciranno tosto a luce nel quinto libro delle rima de’ diversi, che l’onorato Arrivabene ha già fatto stampar quasi mezo, ove tra donne et huomini farà il fiore de migliori scrittori de l’età nostra. Questa facilità e questa dolcezza ch’io di sopra toccai di questa nostra bellissima lingua, è quella, che la farà ricchissima sovr’ogn’altra a Autori in ogni altra facoltà et in ogni scienza. Percioche quella intera età d’un huomo, che vuole la lingua Greca per honestamente bene potervi scrivere, et poco men d’altrettanto la Latina, potrà da’ nostri impiegarsi tutta nello studiare, et nello scrivere ogni sorte di scienza, ecosì nelle prose, come nel verso. Ma ben questa stessa comodità o agevolezza ch’io dico, é quella, che fin qui pare che habbia fatta tener l’istessa lingua nostra men degna, men ornata, et men regolata et ferma, et per questa conseguentemente men bella : Essendo che si veggono alcuni, i quali senza veruna arte, o giudicio vi si pongono a scrivere cose tanto sciocche, con tanta mala gratia, et si prive di ogni ornamento, et sopra tutto senza alcuna fermezza o ragio di regola, che ha dato cagione a molti d’haver di riprenderla et di dispregiarla. La onde io per essortazione et per comandamento di molti amici et signori miei, et ancora per particolare inclinatione mia a questa dignissima lingua, mi son posto da certo tempo a volere a quanto fin qui s’é spiegato delle sue bellezze dal Bembo, et da altri gentilissimi spiriti, aggiunger tanto di mio, che finisca di chiarirsi, come veramente non é stata, nè é fin qui lingua al mondo, che sia da ogni parte cosè vaga, così espressiva, così ornata, così dolce, et così regolata come questa nostra ; et sopra tutto affermando, che con ogni vero giudicio, ella debbia fra non molti anni riconoscersi universalmente per tale, et insignorirsi della monarchia. Ilche, s’io non m’inganno, credo già con l’aiuto di Dio haver fatto, in un mio particolar trattato, il quale é già in punto per farsi vedere in publico. Ma perche, oltre alle ragioni, conviene in molti luoghi valersi dell’autorità et de gli essempi, et havndo noi di consentimento commune nelle prose, per principale autore il Boccaccio, et il Petrarca nel verso, ho giudicato cosa non solamente utile, ma ancor necessaria, che tali autori dovessero da noi haversi primieramente corretti, et pienamente sinceri, et sicuri. Et oltre a ciò, essendo cosa chiarissima, che (per non parlar’ora del Petrarca) il Boccaccio si sia veduto fin qui, non dirò tutto lacero et incorretto, come alcuni dicono, ma ben’in molti luoghi chiaramente guasto, et in molti diverso l’uno esemplar dall’altro, tal che non si sappia da gli studiosi a qual debbia sicuramente attenersi, per questo io doppo lunga fatica di più anni, mi son posto a darne fuor’uno, nelquale la puntatura et l’ortografia, sia in quella perfettione, che la ragione et le regole ci posson dettare. Et in quanto alle parole non mettendo in alcun modo arrogantemente le mani nelle cose altrui, ho seguito le stampe più communi, et dove ho trovato luogo diverso tra essi stampati, o ancor tra gli stampati et moltissimi che n’ho veduti a penna, pongo nel margine la diversità, nominando il libro ove si truovi, o se in libro alcuno non l’ho trovata, la dico come mia. In maniera che intorno alla sincerità, et alla sicurezza della lettione più vera, et migliore, mi rendo certissimo, che il mondo conoscerà, non esserne fin qui uscito alcuno che a questo aggiunga. Et oltre a ciò ho voluto nel margine di luogo in luogo venir dichiarando, et avvertendo i modi, et le forme del dire et tutto quello, che in uno autore é degno di consideratione et d’avvertimento, mettendomi sempre, ove si convenga, la proprietà della lingua usata dal Petrarca, et quellla del parlar commune di questi tempi. Ma perché di questo ho da ragionar poco appresso a i lettori, soggiungerò qui solamente, ch’elle siano rivolte a persona di tanto sapere, et di tanta autorita, che col giudicio suo le faccia tosto riconoscer dal mondo per quelle, che veramente elle sono. La onde ho giudicato, che queste mie fatiche si debbiano da me rivolgere et consacrare a V. S. Illust. della quale sapendosi universalmente la somma dottrina, et la pefettion del giudicio, et quanto principalmente in questa bellissima nostra lingua ella vaglia nelle prose et nel verso, non sarà chi dubiti, che se saranno da lei aggradite, non sien degne d’esser giorno et notte da ogni studiosa, et onorata persona tenute in seno. In Venetia il dì 3 d’Aprile Del 52”.

Cc.*6r-v: Ai lettori Girolamo Ruscelli

“Voi havete, studiosi et honorati Lettori, in questo volume il Principe dellq bellissima lingua nostra volgare, ridotto a quella perfettione nella scrittura et nelle parole, alla quale mi rendo sicurissimo, che senza molta fatica conoscerete, non esser di gran lunga fin qui arrivato alcun’altro de gli stampati. Habbiamolo, noi oltre a cio ridotto alla vera ortografia, o ragione di scrivere in ogni altra parte, in tutto governandoci con la ragione, con le regole, con l’autorità de gli antichi, col parer de’ dotti viventi, et con la difinitione del perfetto in ogni cosa, cioé, che nulla manchi, et nulla soverchi. Et di tutto cio vi rendemo ragione nel fine della sesta e dell’ottava giornata, et ancora nelle postille per tutto et nel vocabolario. In quanto alle parole habbiamo tenuto questo ordine. Che nel testo o corpo del libro si son seguite le stampe communi, et dove tra esse é diversità, seguimo nel testo li piu, et nel margine si nota la diversità de gli altri stampati, c’a penna nominandone ciascuno particolarmente. D’haver veduti libri di mano propria del Boccaccio, io non dico, come alcuni soglion fare, perche non ho saputi trovar testimonii, che la riconoscan per sua. Ma so bene di poter dire con sicurezza d’esser creduto, che l’Italia habbia pochi luoghi, del pane et del vin de’ quali non sia fatta qualche parte di questa carne, et di questo sangue, che posto sopra, et che poche sieno le persone chiare et famose, con lequali io non habbia havuto et habbia servitù. Et chi mi conosce, sa quanto io sia di continuo stato sollecito in procurare di havere, o almen di veder libri antichi, o stati di persone dotte et giudiciose, che sempre sogliono tenere i loro libri postillati, o acconci secondo, che hanno rintracciato in altri, o secondo il giudicio loro. Et gia qui in Venetia, oltre a’ due appena, ho dal Magnifico et in ogni parte virtuosissimo, et honoratissimo Signor mio, il S. Andrea Pasqualigo, havutone uno stampato in foglio, che credo per aventura fosse de’ primi, che si vedessero a stampa, et era stato del padre suo, il quale come la tutta Italia, non ebbe in profondità di dottrina alcuno equale a’ suoi tempi. Et per molti luoghi nel margine é notato, et acconcio a’ penna, parte dal detto suo padre, et parte poi da esso Signor Andrea, del giudicio del quale, chi senza passione lo conosce, fa tanta stima, quanto di quello, di qual si voglia altro dotto et giudicioso de’ tempi nostri. La onde essendomi di continuo fatto veder dal mondo sollecitissimo in procurarne, non credo mi farà fatica il farlo creder dicendolo, ne saranno tenute favole di molti, che senza muoversi, affermano ogni giorno che gli essemplari antichi lor piovan dal cielo. Habbiamo (come potrete vedere) corretti piu di settanta luoghi che in tutti si leggevano disperatamente scorrettissimi, et di tutto vi si rende ragione nel margine. Habbiamo avvertitine molti, che senza scusa stanno o pendenti, o irresoluti, o falsi, ma non ci mettemo altra nostra correttione, perche non si potea far senza molta lunghezza, et habbiamo anco voluto lasciar qualche cosa all’essercitio del giudicio vostro, tanto piu che nel vero in tai luoghi io non potea se non gittarmi ad indovinar senza fondamento, onde me é bastato di farvene solamente avvertiti. Nelle postille non solamente vi mettiamo le dichiarationi delle cose che n’han bisogno, ma ancora vi facciamo avvertiti di molte cose, le quali si fanno bene intendere da tutti, ma non considerar da chi non vi sta pienamente avvertito, et questo nello studiar di qual si voglia cosa, non meno, anzi molto piu importa, che l’intendimento delle voci, percioche a questo ci fa avvertiti la forza, il che non avviene in quell’altro. Et finalmente, come potete vedere, in queste poche postille, annotationi, et vocabolario havete un pieno commentario, non solo sopra questo autore, ma ancor sopra tutta la lingua. Se in alcune cose dico contra il Boccaccio, so che a gli intendenti et discreti, non parrà se non pienamente ben fatto, perché lo scoprire alcune poche innavvertenze in una persona cosi chiara, non é altro, che un raffinare et indurre a perfettione i giudicii de gli studiosi. Et anco il Bembo fa fede, che il Boccaccio in alcune cose potea essere piu avvertito. Et come avvertisco le non buone, cosi ancor le buone et le perfette. Ne in tutti i modi s’ha da mirare altro, se non quello che io dico, sia bene et ragionatamente detto o no, et sia poi il dicitor chi si voglia. Se leggerete qualche postilla, che non cosi presto intendiate, non vi gravi il rileggerla, et considerarla con le parole del testo, o per se sola, percioche il voler abbracciar molte cose in picciol fascio, non si puo fare senza molto stringerlo. Se ancora ve n’é qualch’una, che a gli intendenti paia leggera, et a lor del tutto soverchia, non se ne sdegnino, perche io a questa tavola desiderando di nodrire et dilettare ogni sorte di complessione, l’ho voluta fornire di diverse sorti di cibi, perche se ne prenda ciascuno secondo il bisogno che in se conosce. Et senza quelle vi sono per gl’intendenti, ben tante cose, che posson contentarsi di lasciar quelle poche a i piu deboli. Le parole boto, boce, amenduni, imbolare, stea, dea, sanza, et qualch’altra tale antica, noi le habbiamo lasciate per piu ragioni. Percioche se alcuno dirà essere impossibile, che il Boccaccio usasse altra lingua da quella che usò il Petrarca, essendo stati ambedue in un tempo, haverà torto alle de, poi che oltre a molt’altre ragioni, sappiamo, che altro è lo scrivere in prosa et in volgar Fiorentino puro (come il Boccaccio nel proemio della 4. giorn. Afferma che egli ha fatto in questo libro) et altro lo scriver versi, come il petrarca. Senza che tra lor due si sia chiaramente, che fu diversità di pareri nella lingua in molte cose, onde levando via tutte le antiche gia dette, resta nondimeno il parlar del Petrarca in assai luoghi diverso da quello del Bocc. Et se dicono, che quelle Donne et huomini che recitano le novelle, eran nobili, et non dovevano usare alcuna parola popolaresca et abietta, o vile, hanno pur torto alla fe. Percioche quando ben quelle parole fossero popolaresche et abiette (che dico tutto il contrario) dette donne, et huomini erano pur Fiorentini da parlar la lor lingua, et se il Boccaccio intromette loro a recitar le novelle, essi intromettono Calandrino, la Belcolore, Compar Pietro, Donno Gianni, Massetto da Lamporecchio et altri tali, in persona de’ quali alcune volte le Donne istesse et huomini quivi dicono gnaffe, zazeato, parentorio, et cosi rappresentando, il popolazzo di Venetia dicono, ch’ese quel?mo ve di vù. Et per bocca della Siciliana, alo comando tuio, Toscano accanino, et altri tali, con molta gratia per entro un ragionamento, che però astringe a usar sempre la lingua Venetiana, o Siciliana, o di chi é quello, che é soggetto della novella. Et questo si vede fatto a occasioni tali, da ogni buono scrittore in ogni lingua, et principalmente chi cio vuol vedere, veda Plutarco quante volte interponga a tal somiglianza parole et sentenze Dorice in bocca d’un Dorico, quantunque non però tutto il resto egli dica Doricamente, et piu d’altro, ce lo insegna tanto il parlar commune, che é vergogna a ragionarne piu oltre. Et però tornando alle antiche, dico, che se costoro pur diranno, che Cicerone non usasse lacruma, et scribundi et altre tai voci usate da Terentio et Plauto, haveranno torto, a mettere un comico che fa ragionare ogni razza di gente, con uno oratore. Senza che ancora nella età di Tullio fu Varrone et molti altri, che usarono lingua in molte più cose diversa da quella sua, che non son queste tra il Boccaccio e’l Petrarca. Oltre le novelle molto piu si confanno con le comedie, che con gli oratori, essendo che altro non é la novella, che una comedia raccolta in sostanza, et rappresentata da un solo histrione, il qual si vesta la persona di tutti gli altri. Ma sopra tutto haveranno torto se dicono, che le parole antiche sieno abiette, et impediscano l’eleganza della favella, et non sieno da usarsi, et tanto piu haveranno torto, quanto che tale inganni ci faranno sotto l’autorità de’ Latini. Percioche oltre a quanto in teorica et in prattica se n’ha Cicerone istesso in contrario (che già l’antichità non si restringe tutta in scribundi et lacruma) si puo veder Quintiliano, il quale nel xi cap. Del primo lib. dice queste parole “erba a vetustate repetita, non solum magnos assertores habent, sed etiam afferunt orationi maiestatem aliquam, non sine delectatione. Nam et autoritatem antiquitatis habent, et quia intermissa sunt gratiam novitati similem parant. Questo tutto si vede osservato in ogni buono autore in ogni lingua, et in tutte l’opere sue il Bocc. se ne mostra tanto vago, che col mutarlo in questo, si viene a parlar con altra lingua che con la sua. Questo si vede con sommo giudicio osservato dal Signore Sperone, il quale il consentimento universale de’ più dotti in questa età m’ha fatto sicuro di dire, che quasi tanto avanzi il Boccaccio in leggiadria et eleganza di lingua et principalmente nello stilo, quanto senza, controversia l’avanza nelle scienze. Questa istessa lettione d’alcune voci antiche non solo nel Boccaccio, ma ancor nel Petrarca, approva per sicurissima il S. Giovan Battista Amalteo, gentil’huomo, del quale io non volendo qui far lunga historia, non so che dir con piu brevità, se non con le parole dell’honoratissimo Signor Bartolomeo Zacco, anzi del grido commune affermare, che sia un vero miracolo della Natura. Questa istessa lettione approva et espone il gran Bembo per tutte le prose sue. Questo istesso, che fosse uso del parlar del Boccaccio Si vede che riceve l’eccellente S. Bernardino Tomitano. Et se io per le postille avvertisco alcuna voce comune molto antica o dura, ciò s’intende in quanto alla natura della voce in se stessa, et per chi l’usasse troppo spesso, ma non per questo si nega, ch’elle non sieno del Boccaccio. et che usate cosi di rado com’egli fa, non aggiungano maestà, dilettatione, et gratia. La onde poi che tante autorità di si grandi huomini passati et presenti, poi che tante ragioni, et poi che tanti libri stampati et a penna cosi hanno, mi saria paruto mutandole d’esser veramente il Re degli sciocchi et il Prencipe de’ temerarii, et sopra tutto di mostrar di saper tanto della lingua Latina et volgare, quanto l’ebbriaca del fuso. Et quello che a par di quanto s’é detto fa in confirmatione del parer mio, é che l’honorato M. Gabriel Giolito, gia da molti anni ha stampato 8 o 10 volte il Boccaccio, et sempre nelli titoli o inscrittioni di essi, et cosi nelle lettere dedicatorie a si gran Prencipi, fa fede, che tali sue impressioni sono fatte correttissime per giudicio et diligenza di piu autori, secondo gli antichi veri essemplari, et in tutte sue tali impressioni ha sempre stampato INCOMINCIA il Decamerone. Et cosi in ogni principio di giornata, et similmente ch’ese quel’, mo dedi uù? Boto, boce, amenduni, imbolare, sappiendoo, dea, stea, sanza, et ogn’altra di quelle antiche. Onde havendo egli tante volte et in tanti libri fatto fede che cosi hanno gli antichi buoni essemplari, non si ha da credere per alcun modo, che se cio non fosse vero, egli che é persona honorata et gentile, havesse voluto cosi a man salva tanto tempo, tante volte, et in tante cose ingannare il mondo”.

[II parte :] cc. A2r-v: Al molto Magnifico et honoratiss. Sig. il S. Giovandomenico Roncale. Girolamo Ruscelli :

“Tra le molte cagioni, che impediscono o ritardano gli huomini dall’arrivare al mezo, non che al fine di quanto in questa vita potrebbon sapere, pare chi ben considera, che si riconosca per una, et come ben dice Quintiliano, per principale, il perverso ordine et modo, che dalla maggior parte si tiene cosi nell’insegnare altrui, come nello studiar da se stesso. Et perché mi potrebbe per sola bontà sua far gratia Iddio, che di quest’ordine et di questa via ne gli studii, io potessi a qualche tempo dar tanta luce, quanta già molt’anni m’affatico di poter fare, dirò hor solamente, che il principal nervo suo, sua il risecare et tor via il soverchio, senza diminuire il necessario, dal che si fa la brevità, che é il fine di quanto con tal via et ordine procuriamo. La onde trovandomi d’haver sopra il Boccaccio, spiegato, se non m’inganno, quanto accade intorno allo intendimento della bellissima lingua nostra, ne mi essendo quivi stato permesso l’uscir dell’occasione, che mi porgeano i luoghi di mano in mano, ho giudicato di raccorre in generale et ordinato vocabolario tutto quello, che quivi sparsamente s’é detto, et quello, che per la brevità delle postille, et per non uscir dall’occasione de’luoghi, non potrei dire. Dell’ordine del qual raccoglimento o vocabolario, dicendosi nella fronte sua quanto accade, non lo starò qui a replicare a V. S. Altrimenti. Et dirò solo, che havendo io fatto tutto questo a beneficio del mondo, et parendomi, che la fede et la divotione, che gli studiosi ahnno a i libri sia principale cagione del fargli diligentemente leggere et avvertire, ho giudicato, che si come il Boccaccio é uscito a luce sotto il nome di Signor si chiaro, che con la sola autorità sua si sia per riempir di splendore il libro, et di desiderio et divotione il mondo, cosi il medesimo sia per avenire a questo, uscendo sotto quello di V. S. La gentilezza della quale, et l’affettione a ogni sorte di vera virtù, et principalmente la grandezza dell’animo si é di si fatta maniera per fama publica impadronita di tutti i più lodati spirti d’Italia, che gia pare, che con linguaet con penna s’ingegni ciascuno in lodarle di far concorrenza all’honorato et gentilissimo M. Agostino Negro, et al dottissimo S. Giovan Domenico Mazzarello. I quali essendo persone di si purgato iudicio, et di si bell’animo, non solamente con l’esser di continuo gloriosi predicatori delle lodi di V.S. ma ancora col solo far conoscere la gran riverenza che essi le portano, fanno larghissima testimonianza al mondo de i meriti suoi, et di quello splendore, il quale io gia incomincio a sperar di vedere fra pochissimo tempo volar sovra i cieli, con le penne de’ più honorati scrittori dell’età nostra. Comin adunque V. S. Con l’aggradir questo mio principio, a dar’animo a coloro, che forse sgomentati dalla grandezza del valor suo, non ardiriano d’entrar nel pelago delle sue lodi, s’ella istessa col timone della gran benignità sua, et col mostrar d’aggradir pienamente il lor desiderio, non gli assicura sse di guidargli in porto. Di Venezia, il di quinto di Maggio, del LII.”

C. g3v: Giovan Griffio a’ lettori :

“Considerata la grandezza di questo libro, la confusione di tante sorti di lettere, et l’intrico di tante postille, mi rendo certo, benigni lettori, che non vi parrà gran cosa, che i miei lavoranti vi habbiano lasciati scorrere questi pochi errori. Massimamente che la copia, o l’originale che il S. Ruscelli ci ha dato, era tanto cassato et confuso, che appena l’intendea in molti luoghi egli stesso. Et la casa sua é tanto di lunge alla nostra stampa, che non s’é potuto ogni volta ricorrere a lui. Vi si notano adunque qui in fine i piu importanti, secondo i quali potrà ciascuno correggersi il libro suo con la penna et col coltellino, radendo et aggiungendo, o mutando ove bisogna. Che alla molta comodità ce s’ha dalle stampe, si puo lor comportare quella facilità grande che hanno di dare in fallo. Ne veramente s’han da dire errori quegli, che caduti per disgratia si correggono per diligentia. State sani”.